La letteratura è un atto di fede verso la Storia

di Pier Paolo Di Mino

Il battesimo di San Paolo di Tarso
Il battesimo di San Paolo di Tarso

La modernità è ossessionata dal futuro, ma l’idea di futuro della modernità è un ideale furioso di negazione e dissoluzione del futuro, che si configura con fantasie di catastrofe, di apocalisse, di nientificazione che si presentano come profezie allucinatorie che chiedono solo di essere realizzate: la fatalistica ansia ecologica a cui non consegue nessuna revisione del nostro modello sociale e produttivo; la riedizione luddista della paura per la tecnologia o, che è lo stesso, il culto di una tecnologia priva di struttura ontologica e irrelata all’uomo; lo stato perenne di guerra e di crisi sociale ed economica, etc. Tali fantasie sono l’esito naturale della spiritualità orfica prima e gnostica poi, ripetuta in maniera coatta e scarsamente aggiornata nel transumanesimo o nel postumanesimo o nell’accelerazionsimo o in qualsiasi altra ipostasi dell’ideologia attualmente dominante: negare l’uomo in quanto invincibilmente malato di errore e peccato, di inefficienza e obsolescenza; negare il mondo in quanto dolorosa illusione. Ciò che, in realtà, si vuole negare in questa spiritualità è l’immaginazione, che è illusione e inganno, fonte di errore, di peccato, di inefficienza, di obsolescenza. Nell’era volgare, al principio della sua fondazione, la gnosi si infiltra nella nostra cultura attraverso Paolo di Tarso: è colpa dell’immaginazione, afferma Paolo di Tarso, se vediamo il mondo attraverso un vetro oscuro: ed è per questo motivo che qualsiasi cosa possa alimentare l’immaginazione deve essere eliminato: la cultura, che, afferma sempre Paolo di Tarso, gonfia (e c’è chi, di conseguenza, è sempre pronto a mettere mano alla fondina se solo la si nomina), il sesso, la festa, l’arte, il carnevale, il sacro, l’eccesso, la poesia, il teatro, la letteratura, e via dicendo. Se vogliamo dare all’immaginazione, come per tradizione si fa, il nome di anima, è da notare che Paolo di Tarso usa raramente il termine “psiche”, e sempre riferendosi a essa come a qualcosa da esorcizzare e convertire allo spirito: solo la psicologizzazione (alla lettera: la conversione dell’anima in spirito) può salvare l’uomo dall’abisso paludoso dell’anima per restituirlo, perfetto, a una società che vuole essere perfetta.
È necessario chiarificare un termine: immaginazione. Per immaginazione intendo quel complesso delle funzioni psichiche umane (le funzioni mediate della ragione e dei sentimenti; le funzioni immediate dei sensi e dell’intelletto intuitivo) senza le quali l’uomo non è tale: va da sé, quindi, che eliminare la facoltà immaginativa equivale a eliminare l’uomo. L’intera teologia politica di Paolo di Tarso, finalizzata a creare una società perfetta, si incentra proprio su questa guerra santa contro l’immaginazione; e, nel medioevo, sulla scorta del suo pensiero, alcuni intellettuali cristiani congegnano infine una figura di uomo senza peccato, efficiente, produttivo, privo di errore, che sente sé stesso come “moderno”, ossia come distaccato dal passato, in quanto pagano e perverso, chiuso in un presente ascetico assolto in una serie di doveri produttivi, nella mera attesa di un’apocalisse prossima ventura capace di liberare l’umano genere dall’inconveniente di esistere: verrà il Paracleto, ci sarà la Parusia, si instaurerà il Regno di Dio, una società perfetta in cui tutti siamo uguali perché tutto è uguale, privo di capricciosa e peccaminosa quiddità. Per diversi secoli ha fatto da ostacolo alla realizzazione di questo ideale l’umanesimo, in cui la fantasia dominante è quella, tutto al contrario, del passato, inteso come legame con la cultura pagana, classica; o come legame con la cultura in genere in quanto capace di alimentare l’immaginazione: per l’umanesimo il passato è anima e corpo di una concezione del presente e del futuro parimenti spirituale e mondano. L’umanesimo trionfa con il Rinascimento, dove si celebra il culto della risurrezione del corpo, con tutti i suoi desideri indecenti e le sue debolezze; quello dell’immortalità dell’anima, o dell’immaginazione (l’immortalità dell’anima diventa dogma nel 1513); della capricciosa grandezza dell’uomo; della bellezza del mondo; e della civiltà, con tutte le sue vane e frivole delizie. Con la Riforma e Controriforma, fenomeno che va concepito come un’unità, torna a imporsi però la spiritualità orfica e gnostica, e, maggiormente definito il pensiero paolino, si congegnano quegli strumenti di controllo della coscienza e delle immagini, ossia dell’immaginazione, volti a sottrarre al corpo e all’anima qualsiasi eternità, o, meglio, qualsivoglia valore: si mettono i braghettoni alle nudità di Michelangelo e si comincia a editare più politamente la lingua dei poemi. È solo dopo la rivoluzione francese, però, nella corrente era borghese che l’ideale gnostico di futuro si impone attraverso una serie di dogmi posti a invincibile premessa di concezioni filosofiche, economiche, sociali, scientifiche, letterarie che configurano una società contrattualistica come unico e totalizzante ente nel quale gli uomini, intesi come unità sociali, si chiudono per ottemperare collettivamente ai doveri produttivi quotidiani nella mera attesa di una liberazione dall’umano, traumatica o meno che sia.
Se ci si chiede dunque che fine ha fatto il futuro per la letteratura; se ci si chiede perché oggi la letteratura non sappia più immaginare un futuro, guardando ai tratti salienti progressivamente imposti nella modernità all’idea e alla prassi letteraria, ci si ritrova costretti a rispondere che questo avviene perché la letteratura non deve immaginare nessun futuro, non essendoci altro futuro che quello finalizzato all’eliminazione della facoltà immaginativa umana e, dunque, dell’uomo. La letteratura, nella teodicea della modernità, è di fatto intesa esclusivamente come una forma di intrattenimento, insieme al cinema, lo sport, il teatro, la musica, l’enogastronomia, le attività ricreative o ludiche o spirituali, utile per distrarre e ritemprare l’unità sociale produttiva (o lavoratore) e reinserirla nella filiera nelle migliori delle condizioni. Si dà dunque, nella modernità, una letteratura come forma di intrattenimento colta, apprezzabile per mezzo del gusto comunemente accettato (arte per arte, stilismo, formalismo, etc); una forma di intrattenimento istruttivo, apprezzabile per mezzo del sentimento morale condiviso (romanzi a tema, arte didascalica in diversi formati); una forma di intrattenimento puro, apprezzabile per mezzo delle disponibilità ad abbandonarsi allo scorrere delle parole, o per mezzo di una mediana inclinazione alla pornografia (libri di curiosità varia, diaristica, confessioni intime). Se dovessimo, dunque, cercare una letteratura che sappia immaginare il futuro, dovremmo cercarla in una letteratura che, come l’umanesimo nel medioevo, reagisca e osti il concetto gnostico di modernità nella sua corrente configurazione. Senza dubbio il romanticismo (nelle sue diverse declinazioni e derivazioni storiche) è una reazione alla modernità. Con il suo culto della poesia e del sogno, però, il romanticismo compie un’operazione fallace: si oppone alla riduzione, tipica della modernità, della facoltà immaginativa alla sola funzione razionale e, quindi, alla sua corruzione in razionalismo (con le sue varie ipostasi) prescegliendo il sentimento come funzione a cui ridurre l’intero complesso delle facoltà umane, per poi corromperlo in sentimentalismo. È curioso, tra l’altro, che il Romantik opponga alla facoltà della ragione la facoltà del sentimento: che scelga, come antagonista a una funzione, la funzione più affine, entrambe afferendo alla sfera delle funzioni mediate. Reazione di ben altra portata la troviamo invece nella tradizione modernista: grosso modo da Dostoevskij a Broch, passando per Joyce, Mann, Musil, etc…
So che definire il modernismo una tradizione può sembrare contradditorio e che definirlo come quella tradizione che, riallacciandosi idealmente all’umanesimo, si oppone alla modernità può sembrare paradossale: ma di fatto non c’è nessuna contraddizione o paradosso, perché gli autori, pur diversi fra loro, che accomuniamo nella fantasia letteraria canonizzata come modernismo condividono non solo una serie di critiche a questo o quell’aspetto della corrente era moderna, ma vi si oppongo per intero con la loro idea di letteratura. Infatti, con il modernismo, la letteratura, in particolare il romanzo, torna a essere, come nell’umanesimo, arte sapienziale, o scienza immaginale: nella commistione insolubile di poesia, filosofia, narrazione, scienza, si trovano le risorse di pensiero capaci di parlare alla ragione e ai sentimenti, ai sensi e all’intelletto intuitivo. È Broch a formalizzare più di tutti la contrapposizione alla letteratura regolare e normalizzata della società contrattualistica, della modernità, classificandola come letteratura Kitsch. Broch definisce Kitsch l’arte per l’arte, in quanto espressione di una patologica irresponsabilità morale legata a una disfunzione estetica (l’estetismo). Opposta al Kitsch, secondo Broch, si trova l’arte didascalica, che, pur essendo espressione di un umano sentimento di responsabilità, soffre i difetti di una totale vacanza dell’estetico, e cerca l’etico solo attraverso l’etico. Una letteratura che si collochi a metà tra queste due istanze, media di istinto e ragione, sarebbe, secondo Broch, garanzia di una letteratura capace di difendere l’uomo dall’imbarbarimento, dall’annullamento della sua umanità, dalla degradazione delle sue funzioni psicologiche a cui consegue quell’irrigidimento esiziale della sua anima in un io psicopatico incapace di concepire altro che un eterno presente, avulso da qualsiasi passato, chiuso nell’inconsistenza ripetitiva della produzione assolvibile solo in un futuro nientificante. È ancora Broch a indicare un’idea di futuro immaginabile dalla letteratura, ovvero un futuro inteso come progetto, quando dichiara che la letteratura è, prima di tutto, un atto di fede verso la Storia: solo ritrovando il nesso col passato come carne e anima del presente si possono ritrovare quelle prospettive, quelle fantasie, quei desideri, quelle idee che chiamiamo futuro. Detto questo (o, meglio, accennato a questo) si potrebbe rispondere alla domanda su “che fine ha fatto il futuro” per la letteratura solo sperando, o magari immaginando, che il tipo di letteratura antagonista alla modernità e al suo furioso ideale di futuro che abbiamo per cenni descritto sopravviva insieme al nostro futuro da qualche parte. Ma al riguardo posso farmi solo una fantasia: il mondo, che oggi vediamo periclitare, è ormai vinto dalla peste, da questa infezione gnostica, ma alcuni giovani, maschi e femmine in numero pari, si chiudono in un giardino per raccontarsi dieci storie per dieci giorni, e sono storie piene di amore e malizia, astuzie e santità, pensieri e sentimenti, comiche e sacre, dove vecchie storie di vecchi libri non letti più da nessuno rinascono chissà come, e nuove ne vengono congegnate: e i giovani raccontano e raccontano fino a sapere di nuovo cos’è il mondo e l’uomo: e il mondo e l’uomo non muoiono più.

 

Pier Paolo Di Mino

Autore e regista, ha diretto la rivista Erre! e ha all’attivo opere come “Il re operaio” e “Visiorama” pubblicate da La Scimmia Edizioni, oltre a “Storia Aurea” per Edilet. È noto anche per essere coautore del film “Fine pena mai” e del romanzo “Fiume di tenebra”. Ha contribuito a saggi romanzati come “Il libretto rosso di Garibaldi” e “Il libretto rosso di Pertini”, oltre ad aver partecipato ad antologie come “Biglietto, prego” e “Trema”.
Il suo ultimo libro, “L’infanzia di Hans – Lo splendore”, è stato pubblicato da Laurana nel 2024.