UN MONDO SENZA FUTURO (NÉ STORIE?) – un prontuario per capirci qualcosa

di Danilo Zagaria

Storie della nonna (dal web)

Don’t be told what you want
Don’t be told what you need
There’s no future
No future
No future for you

Sex Pistols, God Save the Queen

Viviamo in tempi di “policrisi”.

Fermiamoci subito un attimo, per capire. Fino a qualche anno fa si parlava di crisi (molte ma singolari: quella climatica ad esempio, o quella migratoria). Poi, di fronte allo scricchiolare del progetto europeo, una nuova parola ha iniziato a diffondersi: policrisi. E attenzione: non indica soltanto che le crisi sono tante, ma soprattutto che sono tante e interdipendenti.

Dicevamo: viviamo in tempi di “policrisi”. Ed è difficile negarlo. Provate a fare mente locale:

  • una pandemia causa sette milioni di morti;
  • guerre, violenze e massacri scuotono ampie regioni del mondo;
  • i cambiamenti climatici iniziano a essere drammaticamente evidenti;
  • fenomeni migratori senza precedenti avvengono sotto ai nostri occhi;
  • partiti xenofobi di estrema destra acquisiscono potere e vincono elezioni.

Una situazione drammatica e paralizzante. Scrivo “paralizzante” perché sembra proprio che di fronte alla policrisi siamo inermi. Forse è per via dell’interdipendenza di cui parlavamo prima, che potremmo anche chiamare complessità. Siamo inermi perché non è facile trovare soluzioni a un groviglio di problemi così intricato. In fondo, a che cosa ci possiamo appigliare? Le grandi ideologie del Novecento hanno perso vigore da un pezzo o sono in via di estinzione, la semplicità di un mondo diviso in due blocchi si è ormai dissolta e la scienza fatica ad arrivare alle masse con chiarezza (come si è purtroppo appurato durante la pandemia). Insomma, non sappiamo che pesci pigliare.

Questa paralisi c’è chi la chiama “mancanza di immaginazione”.

Leggiamo un passaggio dal volume Se domani il mondo (Rizzoli, 2024).

In campo evoluzionistico è quasi proibito parlare di futuro, perché è intrinsecamente impronosticabile e dipende da noi. L’unico modo per prevederlo è inventarlo. In questa epoca di presentismo, dove gli eventi estremi previsti da decenni in tutti i modelli scientifici sembrano ogni volta un’emergenza inaspettata e la lungimiranza pare un lusso (la solita domanda del presunto realista: sì, ma chi paga?), nessuno racconta più l’avvenire. Eppure Homo sapiens deve la sua unicità proprio all’immaginazione, cioè alla capacità di prefigurarsi mondi che ancora non esistono, e dunque di sperare. Abbiamo perso il “senso della possibilità”, avrebbe detto Robert Musil.

Facciamo attenzione ai termini che utilizza l’autore, il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani: “inventare”, “raccontare”, “immaginare”, “prefigurare”. Pare che il problema, qui, riguardi soprattutto il rapporto di noi esseri umani con le storie che ci raccontiamo. In altre parole, la policrisi che affligge il mondo odierno è talmente pervasiva e complessa da inceppare gli strumenti con cui, nel corso della nostra storia di specie, abbiamo inventato, raccontato, immaginato e prefigurato idee e soluzioni per andare oltre, o quantomeno per fare i conti con la nostra umanità di fronte al dramma del cambiamento.

Ma sarà vero?

Spoiler: pare proprio di sì.

E, a prima vista, pare molto strano che la risposta sia sì. Soprattutto oggi. Perché? Be’, perché mai in passato abbiamo vissuto immersi nelle storie come lo siamo oggi. Sono ovunque. Nei nostri telefoni, sulle piattaforme di streaming, sui social, nei reel, in libreria, al cinema, nei podcast. Ne siamo invasi. Tanto che mai come negli ultimi anni abbiamo sentito il bisogno di consigli, di una mappa, di un orientamento nel mare delle narrazioni che ci vengono proposte (quanto tempo perdiamo oggi a scegliere cosa guardare/leggere/ascoltare?). E quindi pare proprio strano che abbiamo un problema di immaginazione. Eppure è così.

Forse per capire meglio occorre stringere il campo. Dato che mi è stato chiesto di trattare il problema da una prospettiva ben precisa (ecologica), prendiamo una delle crisi che compongono la policrisi odierna: la crisi climatica/ecologica.

Da qualche anno diverse persone hanno ragionato su un fatto: la crisi ecologica attuale non è ancora entrata nelle storie della contemporaneità. Difatti, in quella profusione di narrazioni contemporanee di cui dicevamo poco fa è assai sottorappresentata. Per quale motivo? Sono state date molte risposte. Per lo scrittore Amitav Ghosh, ad esempio, le forme (vecchie) che usavamo per raccontare – il romanzo in particolare – non sono più adatte. Per un altro autore, Jonathan Safran Foer, non si tratta di “buone storie”, perché sono fenomeni astratti ed eterogenei, privi di figure iconiche. Per riprendere l’espressione della filosofa tedesca Eva Horn, infine, si tratta di “catastrofi senza evento” (cioè distribuite nel tempo, poco appariscenti), per cui davvero complicate da inserire nel meccanismo narrativo, incentrato su personaggi e conflitti, a cui tutti siamo abituati.

A questo punto alcuni potrebbero pensare che se nella nostra faretra mancano alcune frecce non è poi una tragedia. Ce la potremmo fare comunque, no?

Leggiamo le parole di Niccolò Scaffai, critico e docente di letteratura, tratte dall’introduzione alla raccolta di racconti e contribuiti sul tema intitolata Racconti del pianeta Terra (Einaudi, 2022).

Quale sapere, più di quello offerto dalla letteratura, permette di immaginare scenari futuri? L’immaginazione non può offrire soluzioni tecniche alla crisi – non è questo il compito della letteratura – ma può condurci al termine della notte globale, per cercare risposte a domande come questa: cosa faremmo se ci accorgessimo che una montagna di ghiaccio alla deriva sta per travolgerci?

E anche quelle dell’antropologo e scrittore Matteo Meschiari in La grande estinzione (Armillaria, 2019):

Una persona, un gruppo, un popolo senza immaginazione è automaticamente vittima di chi controlla le immagini al posto suo. Per questo immaginare significa soprattutto fare politica.

Torna l’importanza dell’immaginare, della narrazione (letteraria, cinematografica, televisiva, videoludica) come operazione centrale per elaborare la nostra condizione di esseri umani immersi nella crisi e individuare strategie di salvezza. Pare dunque che non possiamo proprio farne a meno, soprattutto perché poche cose come una storia sono in grado di suscitare emozioni, empatia e umanità, di aiutarci nelle difficoltà e di espandere la nostra esperienza di vita, allenandoci ad affrontare intemperie di ogni genere, specialmente quelle che si annidano nell’imperscrutabile futuro che abbiamo davanti.

La situazione, quindi, è uno stallo vero e proprio: raccontare storie è indispensabile, ma in questo momento storico facciamo fatica a farlo, perché le nostre armi sono spuntate e il materiale da trattare mal si presta a questo scopo. Il nostro obiettivo, la vetta, è irraggiungibile percorrendo i sentieri che abbiamo usato finora. La domanda che sorge spontanea è: siamo in grado di aprire nuove strade per arrivare lassù?

Proviamo a capirlo qui, adesso, facendo una breve panoramica per punti.

  • Il modo in cui raccontiamo storie non è sempre stato il medesimo. Da sempre l’umanità cerca nuove forme comunicative e utilizza strumenti e supporti diversi. Anche se il libro, per ora, sembra essere il più durevole, non dimentichiamoci l’esistenza del teatro, del ballo, della sinfonia, della poesia. Anche le forme narrative più affermate (dal romanzo al film, senza dimenticare i videogiochi e i fumetti) possono essere piegate al volere del narratore e plasmate in una nuova entità narrativa, adatta agli scopi.
  • Non dobbiamo dimenticare che gli esseri umani raccontano affinché altri esseri umani ascoltino. Le storie sono un affare fra sapiens, motivo per cui dobbiamo accettare la componente umana che si nasconde dentro a ogni storia ed evitare di reprimerla. Come scrive la saggista e docente di letteratura Carla Benedetti in La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi 2021):

Se c’è una cosa che spetta proprio alla letteratura, è di rompere quelle gabbie del pensiero e della sensibilità, per dare corpo a una visione più vasta e più potente dell’umano, anche se non parla di scioglimento dei ghiacci, di petrolio, di guerre biologiche o di scomparsa delle api.

  • Il racconto della crisi ecologica è spesso venato di sfumature apocalittiche, affollato di distopie e non è raro che la storia affronti il tema della fine. Non dobbiamo cadere nel tranello di bollare queste narrazioni come inutili o perfino dannose, buone soltanto per una collana di fantascienza. L’apocalisse, anche se drammatica e definitiva, consente sempre di afferrare qualcosa, di identificare una sfumatura della realtà, uno scampolo di verità.
  • Non sono mancati, in questi anni, consigli narratologici di varia natura. Evitando l’appropriazione culturale in agguato, perché chi progetta una storia non esplora campi diversi dal proprio, mondi lontani dal proprio o immaginari alieni rispetto al proprio? Perché non scoprire la cosmologia dei popoli amerindi? Perché non studiare le mappe con cui i polinesiani si muovevano sul Pacifico? Perché non conoscere le leggende sulle tigri che circolano fra i pescatori indiani che vivono nelle foreste di mangrovie?
  • La narrazione che si cimenta con la crisi climatica o il collasso ecologico è spesso qualcosa di più di una semplice panoramica sulle cause del problema. Non tanto il tipico e se? da cui muove gran parte del genere fantascientifico (e se arrivassero gli alieni nel bel mezzo della seconda guerra mondiale?) ma da un e ora? decisamente più promettente. Analizzando l’immaginario di James G. Ballard, lo scrittore e giornalista Michele Neri nel suo Ballardland (Italo Svevo, 2024) conclude lapidario:

E ora, dopo il naufragio del nostro futuro?

Questo articolo non ha una chiusura vera e propria, se non un elenco di titoli.

  • Rakka (2017, cortometraggio)
  • Abitare la complessità (2020, saggio)
  • Il sussurro del mondo (2018, romanzo)
  • Isole dell’abbandono (2022, reportage)
  • Death Stranding (2019, videogioco)
  • La grande cecità (2017, saggio)
  • Il mondo sommerso (1962, romanzo)
  • L’albero e il fiume (2024, albo illustrato)
  • Principessa Mononoke (1997, anime)
  • Paesaggi contaminati (2014, saggio)
  • Virunga (2014, documentario)
  • Primavera silenziosa (1962, saggio)
  • Wilde Spectacle (2021, reportage)
  • Don’t Look Up (2021, film)
  • Taccuini del deserto. Istruzioni per la fine dei tempi (2021, diario)
  • Autobiografia di un polpo (2022, saggio)
  • Il mondo della foresta (1972, romanzo)
  • Lo sguardo del giaguaro (2023, saggio)
  • Amazônia (2021, libro fotografico/mostra)
  • Paradiso (2024, poesia)
  • The Anthropocene Extinction (2015, musica)
  • Tropico Mediterraneo (2024, saggio)
  • Ma la sabbia non ritorna (2020, romanzo)
  • Artico nero (2016, saggio)
  • Il tempo e l’acqua (2019, saggio)

 

 

Danilo Zagaria

Biologo di formazione, lavora in campo editoriale come redattore freelance per diverse case editrici e service editoriali. Scrive di scienza, ambiente e libri per diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». È divulgatore scientifico e organizza attività culturali volte alla promozione di lettura e scrittura. Il suo primo libro è In alto mare (add editore, 2022).