Chi facciamo ridere

di Yoko Yamada

Fotogramma di una scena del film "Una notte all'opera" con i fratelli Marx, diretto da Sam Wood (1935)
Fotogramma di una scena del film “Una notte all’opera” con i fratelli Marx, diretto da Sam Wood (1935)

In un night club a San Francisco Lenny Bruce fu arrestato a metà spettacolo e condannato a quattro mesi di prigione “per oscenità”: aveva usato la parola cocksucker (pompinaro) e aveva usato il verbo “venire” in modo sessualmente ambiguo. Anche i membri del pubblico avevano dovuto mostrare un documento d’identità agli agenti di polizia prima di lasciare il locale.
Era il 1961 e quel comico era colui che oggi viene definito il padre della stand-up comedy. Da quel momento in poi nessun altro comico negli Stati Uniti ha rischiato di essere arrestato.

Recentemente in Italia ho sentito un comico dire “io su questo palco rivendico il diritto di dire tutto quello che mi pare!” e il pubblico esultava. Mi sono sinceramente domandata: chi è che te lo impedisce? La famosa dittatura del politicamente corretto?
Forse il punto non è non poter dire quello che ti pare ma voler dire qualsiasi cosa senza il timore di venire accusati di sessismo, razzismo, ecc. Cioè, in sostanza, non volersi assumere la responsabilità di quello che si dice e quindi le eventuali conseguenze.
Preciso che si trattava di uno spettacolo dal vivo e non ad esempio di un programma televisivo, contesto che meriterebbe una riflessione a parte. Un autore tv una volta mi ha detto che essere lì, sul piccolo schermo, è come entrare in casa delle persone: è normale dover sottostare a determinate regole, regole che invece in un teatro, con un pubblico che ha pagato per ascoltare proprio te, puoi scegliere tu.

Sento dire sempre più spesso che a causa del politically correct “non si può più dire nulla perché oggi la gente si offende per tutto”. Secondo me però il politicamente corretto non ha a che vedere con l’offesa, bensì con la discriminazione.
Parto proprio dal mio lavoro di comica per spiegare questa differenza: penso che nella comicità tutte le battute siano offensive per qualcuno. Tutte. Anche quelle apparentemente inoffensive: se faccio una battuta su quanto i cerbiatti siano stupidi ci sarà sempre qualche amante dei cerbiatti che si sentirà offeso. Non mi salva nemmeno fare battute sulle esperienze personali: quando parlo della mia rettocolite ulcerosa so che ci può essere qualcuno che pensa “la malattia è una cosa seria, ci sono argomenti su cui non si dovrebbe scherzare”.
Ciò che il politicamente corretto tenta di fare è invece proteggere determinati gruppi di persone dalla discriminazione. George Carlin, altro pilastro della stand-up comedy statunitense, per spiegare chi fossero questi gruppi usava il termine underdogs, ovvero persone svantaggiate: donne, omosessuali, immigrati, disabili, transgender e così via. Sosteneva pertanto che la comicità avesse il compito di prendere di mira le persone avvantaggiate. Questo per me non significa che non si possano fare battute su questi gruppi (renderli invisibili sarebbe controproducente), ma che è sbagliato prenderli in giro in quanto tali.
Cogliere la differenza tra offesa e discriminazione, in una battuta comica, non è immediato né semplice. Provo a riportare un paio di esempi. Checco Zalone una volta ha raccontato la fiaba di Cenerentola sostituendo la protagonista con Oreste, una transessuale; pur condannando l’ipocrisia dei falsi moralisti, la sua battuta puntava a far ridere attraverso tutti gli stereotipi sulle persone transgender (dalla nazionalità brasiliana alla prostituzione, passando per il pomo d’Adamo e il numero di scarpe taglia 48). In questa battuta per me c’è discriminazione, cioè un ridere delle persone trans in quanto trans.
Tra l’altro tutto questo accadeva al Festival di Sanremo del 2022… ops, forse dovrei rivedere quella riflessione a parte sul contesto televisivo.

Un esempio opposto invece mi viene in mente grazie a un collega col quale tempo fa discutevo proprio a proposito del politicamente corretto nella stand-up comedy. Lui non era d’accordo con me, diceva: “finché la gente ride, dico tutto; ho una battuta molto maschilista ma finché il pubblico ride io la faccio”. La battuta in questione era: “la mia ex dice che sono maschilista, ma lei è donna, che cazzo ne sa?”.
Ho riso, di gusto.
Poiché mi ha fatto molto ridere, mi sono subito domandata di cosa stessi ridendo nello specifico: ridevo di un cortocircuito, ovvero di un personaggio che crede di giustificare il suo non essere maschilista dicendo la cosa più maschilista possibile.
Non mi sento di definire questa battuta maschilista o politicamente scorretta, anzi, personalmente la trovo interessante perché rivela la contraddizione del sessismo, quindi a me fa ridere perché mette in luce un pensiero che anch’io ritengo sbagliato. L’ho visto esibirsi svariate volte nel corso degli anni e ho sempre visto il pubblico ridere di gusto. Una sera, seduta tra il pubblico, mi sono domandata se stavamo ridendo tutti per la stessa ragione: forse ride anche chi pensa che le donne siano più incompetenti degli uomini? Sicuramente ride anche chi pensa che le donne siano più incompetenti degli uomini.
Quindi questi ragionamenti mi hanno spinto a domandarmi se esiste una responsabilità su ciò che il pubblico coglie. Nel caso specifico di questa battuta, se il comico aggiungesse qualcosa come “quella stupida” io avrei riso ancora più forte, percependo un rafforzamento del suddetto personaggio, o avrei alzato un sopracciglio? Spesso la comicità è borderline: è proprio il ruolo del comico giocare sul limite. Ciò che tenterei di fare io è avvicinarmi sempre di più a quel limite che, se superato, porta alla discriminazione.
“La mia ex dice che sono maschilista, ma lei è donna, che cazzo ne sa?” può far ridere per due diversi motivi: perché cogli il cortocircuito o perché sei sessista. Io come comica scriverei quella battuta con l’obiettivo di far luce su quel cortocircuito, consapevole che in sala ci potrà essere anche qualcuno che ride per il motivo sbagliato, ma su quello non posso farci niente. L’importante per me è assicurarmi che quel qualcuno non diventi la maggioranza, perché altrimenti significa che ho superato quel limite e la battuta è da riscrivere.
Se un comico non si cura di questo confine sottile, se non si cura di quando la maggioranza del suo pubblico ride per il motivo sbagliato, vuol dire che il suo obiettivo è un altro: far ridere a qualunque costo, a discapito di chiunque.

Scomodo nuovamente Carlin per dire che quando sento comici fare battute che prendono di mira ad esempio le persone transgender (parlo di comici non trans, a questo punto lo avrete capito) probabilmente li avrebbe redarguiti come fece nel 1990 durante un’intervista con Larry King a proposito della comicità di Andrew Dice Clay, un comico che riempiva stadi da ventimila spettatori, molto in voga negli anni Ottanta, che faceva battute su gay, donne ed immigrati. Quando King gli chiese come fosse possibile, a suo avviso, che Dice Clay riuscisse a “farla franca” con le sue battute offensive a scapito delle persone emarginate, Carlin rispose: “Penso che il suo pubblico principale sia composto da giovani maschi bianchi che si sentono minacciati da questi gruppi […]. E le donne che si affermano e sono competenti sono una minaccia per questi uomini, come lo sono gli immigrati in termini di posti di lavoro. Penso che questo sia il fulcro dell’esperienza che si svolge in quelle arene, una condivisione di rabbia verso quel target”.
Riguardo alle accuse di razzismo, misoginia e omofobia che gli vennero rivolte durante tutta la carriera – il suo monologo al Saturday Night Live del 12 maggio 1990 fu interrotto da diversi attivisti per i diritti LGBTQ che gli urlarono “Racist, sexist, anti-gay, Clay go away!” – ad oggi Clay commenta: “Non è questione di essere frainteso, penso che la mia carriera sia decollata in un momento in cui il mondo stava cambiando molto. Le donne stavano davvero lottando per i loro diritti, i gay stavano facendo coming out quindi ero come un parafulmine per ogni gruppo in cerca di pubblicità”.
Anche io penso che qui la questione non sia essere fraintesi, cioè sicuramente non in questo caso, sicuramente non con le battute di Clay, palesemente razziste e misogine; e non voglio entrare nel merito di attivisti in cerca di visibilità; ma trovo interessante che pur nominando la lotta ai diritti non ne capisca il rapporto causa-effetto (non ne centri il punto). Probabilmente se le donne e le persone omosessuali, ovvero il target delle sue battute, non avessero iniziato a reclamare gli stessi diritti di Clay – diritti che spettano loro – le sue battute avrebbero potuto continuare a passare inosservate (e lui a non essere oggetto di tanto clamore).

Non è facile, sbagliamo tutte e tutti. Io mi sbaglio nel quotidiano quando mi rendo conto di aver detto o anche solo pensato a qualcosa mossa da una serie di pregiudizi verso chi è più svantaggiato di me (che sono sì donna e omosessuale, ma anche bianca, non trans, non disabile ecc.). Figuriamoci quando scrivo battute. Che a un comico si faccia notare che certe battute siano discriminanti non accade solo oggi. Eddy Murphy in una intervista del 1996 diceva che se riguardava il suo spettacolo dell’87 provava un forte imbarazzo verso sé stesso e riguardo certe battute sull’AIDS commentava: «Ero un po’ uno stronzo – I was kind of an asshole – erano battute ignoranti, mi rammarico profondamente per il dolore che ho causato, oggi sono più istruito sulla tematica rispetto a quegli anni».
Essere più istruiti per me significa imparare a decostruire pregiudizi imparando ad ascoltare la voce degli underdogs, questo è l’obiettivo.
 
Adoro la stand-up comedy. L’ho sempre pensato: che stia guardando uno speciale su Netflix, un live di un comico famoso o il tizio prima di me a una serata open mic in provincia. Ciò che mi affascina è che nella stand-up non importa il tuo stato sociale, la tua identità di genere, che aspetto hai, orientamento sessuale o eventuali disabilità perché ho sempre pensato che contasse una e una sola cosa: fare ridere.
Oggi aggiungo “e chi fai ridere”.

 

 

Yoko Yamada

Classe 1993, porta sul palco la sua battaglia per trovare un equilibrio nella sua quotidianità a Venezia, tra equivoci e contraddizioni, con un padre giapponese e una madre bresciana. Non aveva mai pensato di fare la comica, poi nel 2018 si è trovata davanti ad un microfono durante una serata di open mic e non è più scesa dal palco.