Note per ridicoli imperfetti
di Gioia Salvatori
Quattro sono le cose di cui avrei fatto volentieri a meno: / l’amore, la curiosità, le lentiggini e il dubbio.
(Dorothy Parker)
È una risata che ci scava la buca.
Si poteva prevedere.
Sono sincera, ci ho messo tantissimo a capire se scrivere o meno questo pezzo, per vari motivi, non ultimo quello per cui mi è difficile essere una che risponde, mi diverte più farmi le domande che dare risposte e a volte mi schiaccia la modalità del tempo presente che separa sempre il grano dal loglio con l’accetta, soprattutto su temi complessi in cui avrei bisogno di tempo anche solo per formulare dei ragionamenti.
Del tempo della Storia non di dieci minuti al bar.
Sono anche allergica alle opinioni, al chiacchierare su un argomento e in più, anche solo per dispetto, io “a fontana di piazza non bevo” come diceva un noto antipatico alessandrino.
Personalmente non ritengo che si possa ridere di tutto, io almeno proprio non ci riesco.
Non riesco a ridere per esempio di quello che non capisco, di certe efferatezze non riesco a ridere, dei genocidi non riesco a ridere, delle cose turpi e mannare non mi interessa ridere, non mi piacciono le parolacce, ci sono cose che non riesco nemmeno a pronunciare e nei miei spettacoli, infatti, non ci sono.
Aggiorno le battute e tolgo le zone sensibili o le rilavoro, continuamente.
Questo per via che conservo in me a tutti i costi un po’ di sensibilità infantile e quindi quando la cosa è troppo forte mi dispiaccio, ci soffro e poi non mi piace né la sagacia né il sarcasmo, quella bella arietta con cui affettare il mondo, la trovo noiosa.
Che ti ridi, saputo?
Poi ho un grande rispetto per il sentimento della vergogna, purtroppo poco frequentato, che invece a me corrobora, che mi soddisfa talvolta, perché solleva dal fare, invita a non fare e non fare è molto, in un tempo di opinionisti della centrale del latte, opinionisti un tanto al litro, di nessun interesse.
(Si dice un tanto al chilo, ma l’articolo è mio e l’unità di misura pure.)
Libertà non è libertà di esprimersi tout court, libertà per me va con poesia e la poesia, che io ritengo arma umana profondissima, necessita un lavoro, una bellezza un approfondimento e soprattutto una incertezza, l’incertezza dell’umano davanti alle cose grandi e piccole, per questo motivo – che non so se è chiaro, perché me lo vado assemblando in testa a mia volta mentre lo scrivo – tutto quello che è esitante mi convince molto, cioè (e qui torno alla vergogna anche se non si tratta di vergogna ma forse di pudore per la condizione umana), mi piace anche nel comico esitare prima di esprimermi e poi cercare di lanciare lontano il sasso, altrove, nell’universale.
Ora, per me: si ride di ciò che si sa.
Io mi metto a ridere e faccio ridere su cose che conosco e che ho attraversato, oppure, si ride di ciò che si pone problematizzandolo, cioè portandolo, agevolandolo con maestria e a partire da quanto sono nella posizione di poterlo dire (perché lo conosco o lo subisco).
Non mi interessa il certissimo, nella vita ben venga, ma direi non sul palco, il comico ha da stare fuori dal consesso dei certissimi, deve stare tra gli impiastri, tra i dispettosi, quelli che la vita li corrode e li corrompe che ci sfilano in mezzo e ne escono acciaccati.
Io mi acciacco volentieri, vista la mia natura anarchica e sbeffeggiatoria, non mi interessa il potere, nemmeno quello buono e già il poeta sul tema potere buono ci ha messi bene in guardia.
Pongo però delle questioni.
Come i dispettosi, appunto.
Posto che la cancel culture in questo paese non esiste, se no la gente si guarderebbe bene dal dire certe burinate in ogni dove, ritengo che un linguaggio corretto e rispettoso delle sensibilità sia una buona sfida almeno per noi elegantoni del sorriso – non mi piace Plauto mi piace Petronio (senti che derby da scema, ma noi snob siamo così), il trivio lo schifo, la violenza mi angoscia, lo starnazzo è irricevibile, la bandiera del presente mi annoia forte.
Ritengo che la comicità sia chiamata a dire che il re è stranudo e poi a sbeffeggiare chi ha bisogno del re.
Il mio è il terreno del surreale e della poesia.
Quello in cui un po’ di irrazionale fa capolino e spariglia il tavolo.
Però.
Però vorrei anche dire che una certa elaborata comicità ferale (mi viene in mente Antonio Rezza e anche la polemica conseguente) ha un suo tema che andrebbe problematizzato.
Non entro nel tema del genio che è stato pure sollevato e che pensavo (forse a ben vedere con troppo ottimismo) che fosse superato, cioè che riguardasse solo i liceali che fanno il romanticismo in quinta, ma che alla nostra età e da donna, personalmente, non mi erotizza né/ più/ mai.
Però decostruiamo: quando la madre di Cher le disse trovati uno ricco lei rispose, “L’uomo ricco sono io”, e a me questo basta per dispiacermi per chi ancora proietta sull’altrui il proprio talento, ammirando, invece che coltivando il proprio, quindi se serve, ribadiamolo, non est genius in rebus, in generale, è una cosa inventata per rimorchiare alle feste.
Ci sono i grandi artisti e artiste ma vai a sapere di cosa sono composti, della materia di cui sono fatte le frappe, credo.
I biscotti.
I pigiami.
Non lo so.
Le seppie?
Abbiamo detto che non lo so.
Ok.
Mi fanno molto ridere i bravissimi anche nell’arte e di solito mi piace più la creazione che il creatore o la creatrice.
(Il novecento è finito! È finito! Forse che ci si possa godere la vita! E chi lo sa.)
Però.
Per me, le mutate sensibilità vanno ascoltate, il corpo è materia forte e questo è un tempo in cui è necessario cercare di esistere con maggiore sensibilità.
Per questo penso che, anche a valle delle discussioni ultime, forse abbia senso seguire la proposta di aggiungere in alcune situazioni un disclaimer per il pubblico, non tutti (perché ognuno ha il suo carattere e la sua storia), riescono a fare come farei io laddove toccata quando non voglio: cioè chiamare i pompieri.
Prendiamo atto che questa epoca del trauma, che a lungo come società abbiamo volentieri seppellito e tralasciato fino ad oggi, apre squarci, sfumature, rinverdisce dolori e suggerisce possibilità di liberazione per tutti e per tutte e però dall’altra parte e forse come limite, rischia di identificare i traumatizzati col loro stesso trauma.
Non mi piace fare la predica alle persone e non mi piace un mondo in cui la gente si deve sentire male a teatro, ma il mondo non si monda e manco il palco, che non è per me una zona normativa, ma sentimentale, anche nelle sue accezioni più schierate.
Almeno questa è la lettura che amo dare io al fatto scenico.
Che fare, quindi?
Anche questo va osservato. Siamo chiamati a osservarlo.
Però, essendo dispettosa, ecco che vorrei questionare: un certo tipo di comicità che attraversa la violenza del potere, in realtà, mostra un meccanismo che nella nostra società noi viviamo e vediamo continuamente, e questa è cosa in effetti non da poco e che conferma la funzione catartica del teatro, dell’assemblea e la funzione “eversiva” della scena.
Quindi e qui pongo nuovamente una domanda: a cosa vogliamo rinunciare?
Possiamo rinunciare ad essere messi in mezzo nel corpo, ma forse non possiamo rinunciare a vedere a teatro quello che nella vita di tutti i giorni accade e però non essere neppure protetti dall’arte, dalla cornice dell’arte.
Perché se rinunciamo, rinunciamo anche al fatto che nello shock di quello che accade noi tutti sublimiamo e prendiamo posizione per qualcosa su cui una nuova società si può fondare.
Anche questa è una questione.
Però, far procedere una comunità significa fare delle scelte e mettere il pubblico in condizione di scegliere, quindi: si adatti il palco se serve a favorire una nuova sensibilità ma anche si fortifichi il pubblico; ognuno si prenda le proprie responsabilità.
E poi ancora per noi poveri teatranti.
Non frequento la stand up e non la so fare, ma per me è comico non solo chi se la prende con chi è più forte, ma anche chi se la prende con la parte più forte di noi.
Perché se non cadi tu per primo, non vale.
Il mondo è pieno di preti, ci manca solo il palco pretato.
Il mio desiderio è quello in cui il palco è uno spartiacque in cui possano esistere gli “ebeti” (come me del resto), la gente che si deve fare le domande perché non capisce, quelli che rimangono appesi e cercano e falliscono bene, come cerco di fallire bene anche io.
Fallire insieme come società sarebbe il massimo.
Cioè rimetterci in discussione di fronte ai problemi complessi e però chiederci come artisti: come possiamo raccontare la violenza? Come possiamo ridere senza offendere, quale lavoro artistico possiamo mettere in campo per poter rispondere alla funzione del teatro, anche a quella sociale, comunitaria? E anche il pubblico e noi da pubblico: come possiamo oltrepassare il trauma, cosa siamo chiamati a lasciare a chi arriva? Chi siamo dopo aver accolto le nostre ferite e cosa chiediamo a noi stessi senza addormentarci sulla moralizzazione?
Come fare ad essere così imperfetti?
Lasciarsi con le domande, come nelle storie d’amore, per me è l’unica cosa che conta.
Fa ridere?
Anche.
Gioia Salvatori
Attrice e autrice per il teatro e per la radio. Scrive e conduce insieme a I. Talarico, D. Parisi, C. Raimo il programma ‘Le ripetizioni” su Radiorai3. Nel 2023 conduce con la filosofa Ilaria Gaspari la trasmissione Playbooks in onda su Raiplay. I suoi monologhi comici sono stati ospiti del programma tv Propaganda Live e ha partecipato al format comico teatrale di Serena Dandini Vieni avanti Cretina!. Dal 2012 ha aperto un blog Cuoro contenitore di satira di costume che dialoga col web e con i linguaggi dei nuovi media e che è anche uno spettacolo teatrale che si declina diversamente di volta in volta a seconda dei temi affrontati.