Ferire il pubblico
di Lorenzo Maragoni
Se si deve giocare, bisogna decidere tre cose in partenza: le regole del gioco, la posta in gioco, e la durata.
(proverbio cinese)
1.
Come artiste e artisti, cosa vogliamo fare al pubblico? Vogliamo coinvolgerlo, farlo commuovere, farlo indignare, sorprenderlo, scioccarlo? Vogliamo essere chiari con lui, o lasciarci decifrare? Vogliamo accoglierlo o sfidarlo? Vogliamo che si fidi di noi oppure no?
Vogliamo rifiutarci di volere qualcosa e lasciare che il pubblico voglia quello che vuole?
2.
Alcune e alcuni di noi vogliono fare alcune, tutte, o altre di queste cose.
Altre e altri di noi vogliono far ridere.
3.
Un pubblico che ride per me è una delle cose più belle del mondo. Una battuta scritta nel modo giusto, detta nel modo giusto, che arriva al momento giusto e fa ridere un gruppo di persone si avvicina al miracolo. È gioia, è permesso, è riconoscimento, è godimento, è contagio, è libertà, è condivisione.
Far ridere è un gioco, e in quanto tale, più si fa sul serio più il gioco viene bene. Per questo la pratica del comico richiede lavoro, tentativi, ripetizioni, successi, fallimenti, aggiornamenti, ripartenze.
4.
Il gioco del far ridere è, quasi sempre, anche un gioco di potere. Non tanto o non solo per il valore potenzialmente critico, sovversivo, rivoluzionario della risata, dell’assalto satirico al potere da parte di chi il potere non ce l’ha (o non ne ha altrettanto). Anche nel caso del comico fatto per il puro gusto di divertirsi, c’è una posta in gioco: chi fa ridere ha potere su chi ride, e chi ride ha potere su chi fa ridere. È una sfida tra due poli opposti che vogliono la stessa cosa, e in cui l’obiettivo non si può fingere: se a una persona una cosa non fa ridere, non ride; e se non vorrebbe ridere ma le viene da ridere, ride.
Facendo un’analogia tra due mondi che frequento, quello del poetry slam e quello della stand-up comedy, noto che nel primo, dove l’obiettivo è fare poesia, è necessario il voto del pubblico per determinare la o il performer migliore della serata. Nel secondo, dove l’obiettivo è far ridere, non serve un voto: lo sappiamo già dalla risata del pubblico.
5.
Il pubblico, per l’appunto. Questa creatura della cui esistenza tutte e tutti noi siamo convinti, e che invece esiste solo come unione di persone, ognuna delle quali riceve e processa lo spettacolo a modo suo. Dire “al pubblico lo spettacolo è piaciuto” cosa vuol dire? Cosa vuol dire “a quella battuta il pubblico ha riso”? Che ha riso tutto il pubblico? Che ne ha riso il 50%+1? Che ha riso chi aveva i riferimenti per capire la battuta? Che hanno riso solo le donne, o solo gli uomini? Che ha riso una persona sola, ma con una risata molto forte?
6.
Ecco, se mettessimo in fermo la stupenda immagine di un teatro pieno di persone che ridono, di un “pubblico che ride”, potremmo chiederci: chi è che non ride?
7.
Non ride, verosimilmente, chi non ha trovato la battuta divertente, chi non l’ha capita, chi si era distratta o distratto, chi l’ha trovata divertente ma non al punto da ridere ad alta voce, e così via.
Tra coloro che non hanno trovato la battuta divertente, può esserci chi dalla battuta stessa si è sentito oggetto deriso, e non soggetto ridente, e quindi ferita, o ferito.
8.
Noi che volevamo, plausibilmente, solo far ridere e di certo non ferire, come ci approcciamo a chi feriamo?
9.
So che questo tema nel discorso pubblico è polarizzante e porta tendenzialmente le persone ad arroccarsi nelle loro posizioni tribali di partenza. I poli, spesso, sono una variante di “Chi viene ferito da una battuta, da una scena, da uno spettacolo va tutelato e la battuta, la scena, lo spettacolo non sono ok”, e dall’altra, “L’artista deve essere libera e libero di fare la battuta, la scena, lo spettacolo che vuole, e se il pubblico viene ferito è il pubblico a non essere ok”.
10.
Specifico, se fosse necessario, che non si sta mettendo in discussione la libertà dell’artista. La domanda è sulla responsabilità: posto che siamo liberi e libere di farlo, perché facciamo quello che facciamo?
11.
Credo che ci possiamo fare tre (gruppi di) domande.
12.
Il primo: prendo sul serio l’istanza di chi si dice ferito o ferita? Sono dispiaciuto o dispiaciuta? È una vittima di cui mi importa? Do valore all’argomento o ci sono problemi più urgenti e importanti di cui occuparsi?
13.
Il secondo: nonostante la mia intenzione non fosse di ferire, nel momento in cui scopro di aver ferito, sono disposta o disposto a riconoscere di averlo fatto? Sono disposta o disposto a scusarmi?
14.
Il terzo: se prendo sul serio l’istanza e riconosco di aver ferito e mi scuso, sono disponibile a modificare quello che ho detto, scritto, performato?
15.
Moltissime battute e situazioni comiche (direi tutte, se non fossi sicuro che ci siano dei contro-esempi) si basano su un oggetto messo al centro tra chi parla e chi ascolta. Affinché si possa sperare in un effetto comico, l’oggetto deve essere leggibile (o deliberatamente illeggibile) per entrambe le parti. A quel punto, per ottenere un effetto comico, l’oggetto va manipolato, spesso colpito, incrinato, rotto, o sacrificato. C’è (sempre?) bisogno di far male da qualche parte.
16.
L’ulteriore domanda, che forse riassume le precedenti, è: questo male è consensuale? È liberatorio? È catartico? Fa un favore al pubblico, magari non subito, ma nel lungo periodo? È un prezzo da pagare per crescere, o anche solo per divertirsi?
Ne potevamo fare a meno?
17.
Il punto non è cercare di non ferire il pubblico. Ai Wei Wei ci ferisce. Marina Abramovic ci ferisce. Romeo Castellucci ci ferisce. Antonio Rezza ci ferisce. Mia Martini ci ferisce. Bo Burnham ci ferisce. Taylor Tomlinson ci ferisce. Giuliana Musso ci ferisce. Non sempre, non a tutte e tutti noi, ma i grandi artisti e le grandi artiste spesso ci feriscono, e molte e molti di loro lo fanno mentre ci fanno ridere. E noi siamo felici di quelle ferite. Sentiamo che ne avevamo bisogno, e forse siamo venute e venuti a teatro per riceverle. Come pubblico, non vogliamo essere necessariamente rassicurati, coccolati, protetti.
Ma, credo, vogliamo avere un margine di consenso sulla possibilità di essere feriti.
18.
Non dico sapere esattamente ciò che andrò a vedere (sarebbe impossibile e non auspicabile) ma ricevere dei warning relativi a possibili trigger (elementi che possono innescare una risposta traumatica) e relativi alla possibilità modalità di interazione col pubblico.
Se a un certo punto ci sarà una scena di violenza, o se un attore mi tirerà un secchio d’acqua, o mi metterà un dito in un occhio, io vorrei sapere prima che queste cose possono succedere. A quel punto, potrò decidere in modo informato se stare alla larga dal teatro o godermi lo spettacolo sapendo che queste cose possono succedere.
19.
Il pubblico dà mandato all’artista di fare l’artista. Il pubblico vuole essere coinvolto, commosso, indignato, sorpreso, scioccato. Vuole sapere cosa si aspetta o non saperlo. Vuole che l’artista sia chiara e chiaro, o che si lasci decifrare. Vuole essere accolto o sfidato. Vuole fidarsi o vuole non fidarsi dell’artista.
E sì, a volte vuole essere o mette in conto di essere tradito. Ma in quel tradimento deve esserci cura. Dobbiamo avere modo di capire perché l’oggetto del sacrificio eravamo proprio noi, e in che modo del sacrificio siamo non solo oggetto ma anche soggetto. Vogliamo sapere che c’è un frame più esterno in cui l’artista si ricorda che sono un essere umano e che, se mi ferisci, lo fai per me, non per te, e non per il resto del pubblico che ride mentre a me viene da piangere.
20.
È chiaro che tutto questo dipende dal patto che c’era all’inizio, ovvero dal frame. Se io guardo un film splatter, e c’è una scena cruenta, probabilmente rientra nel patto iniziale e me lo potevo aspettare. Se guardo uno spettacolo di Shakespeare e un attore bestemmia, non so se rientra nel patto iniziale.
Anche perché questo patto spesso è implicito, e di nuovo, il pubblico non esiste: si tratta di n micro patti impliciti stipulati tra artista e persone che spesso possono (e hanno il diritto di) non sapere cosa vanno a vedere e quindi non necessariamente sapere a che tipo di rischio si stanno esponendo.
21.
Ma al di là del frame, ci sono battute che punch down, battute in cui è la persona con più potere a fare oggetto e sacrificio una persona o una categoria con meno potere di quella a cui lui o lei appartiene. Prendere a bersaglio una persona che si identifica nel genere femminile da parte di una che si identifica nel genere maschile, una persona disabile da parte di una abile, una persona che ha subito traumi da parte di una che non li ha subiti, e così via.
22.
La domanda mi sembra diventare: perché scelgo l’oggetto che scelgo? Perché decido di parlare di una persona, un’abitudine, una città, una categoria di persone di cui faccio o non faccio parte? Queste persone ridono? O, se assenti, riderebbero?
Si sentirebbero viste o usate per una posta in gioco di cui non beneficiano?
23.
Come ci si salva da tutto questo? Ci si salva parlando di sé stessi? Ci si salva solo parlando di sé stessi? Ci si salva parlando dei gruppi di cui si fa parte? Di cosa si può parlare? Su cosa si può scherzare? E soprattutto: l’obiettivo è davvero salvare sé stessi?
Scusate: sono caduto io stesso nella trappola del si può / non si può. Tutto si può dire. La domanda è: perché dirlo?
24
Alleggerirei, o forse appesantirei, con un esempio, e poi andrei a chiudere.
25.
Dato che a fare un esempio sul teatro rischierei che nessuno o pochissime persone abbiano visto lo stesso spettacolo, prenderei un esempio da una cosa che possiamo reperire più facilmente: uno special di Netflix.
26.
Il controverso comico statunitense Dave Chappelle inizia lo spettacolo The Dreamer con una battuta stupendamente costruita, dalla forma elegante e intelligente. Dimostra di conoscere il pubblico, dimostra di conoscere il suo pubblico, racconta un episodio che sembra molto a lungo andare in una certa direzione, poi gira le carte all’ultimo momento e il “pubblico” esplode in risate e applausi.
È al tempo stesso un’ottima battuta, e una battuta apertamente transfobica.
27.
Io capisco che una comica o un comico, quando sentono una vena d’oro, cerchino di percorrerla fino in fondo. Ma nel momento in cui si rendono conto, o viene fatto loro notare, che la battuta ferisce una comunità di persone, cosa le fa decidere di farla lo stesso?
28.
La risata che ha fatto fare a una parte del pubblico vale la ferita inferta a un’altra? Abbiamo una responsabilità oppure no?
29.
L’artista cinese Ai Wei Wei dice «Say what you say plainly, and then take responsibility for it». Tradotta male: di’ quello che vuoi dire chiaramente (ma anche: semplicemente), e poi prenditene la responsabilità.
30.
Prendo questo esempio di Dave Chapelle perché credo illustri bene il gioco di potere tra chi fa ridere, chi ride e chi non ride. Il politically correct ha, purtroppo, un nome tremendo. La parola correct non è sexy quanto la parola incorrect, e essere corretto da un punto di vista politico ha davvero appeal su poche e pochi di noi. Sembra che essere corretti sia una cosa da fare in nome della politica, o, peggio ancora, che le politiche e i politici ci chiedono di fare. Forse se la chiamassimo col suo nome, ovvero Non monetizzare sulla storia e la cultura di altre persone senza che loro abbiano voce in capitolo o beneficino in qualche modo di questa monetizzazione, ci sentiremmo più orgogliose e orgogliosi di rivendicarla?
31.
(Perché, per quanto se ne possa parlare in termini filosofici e alla faccia della vera o presunta cancel culture, Dave Chappelle, come Ricky Gervais e Pio e Amedeo, fanno tour milionari punching down su ogni categoria oppressa che incontrano sulla loro strada, per la gioia e le risate di milioni di persone.
Ma se c’è da prendere una posizione politica, se una cosa fa ridere novantanove ai danni di uno, e quell’uno non ride e viene ferito, io credo di aver lasciato passare troppi episodi di bullismo alle medie e alle superiori e a calcio e in politica e per strada e sui luoghi di lavoro senza dire niente per codardia, per non stare dalla parte sua.)
32.
Far ridere è un gioco di potere, e una forma di monetizzazione. Rinunciare a una battuta se sentiamo che farà male a qualcuno inevitabilmente produrrà meno monete. Ma forse, nel nostro cammino di esseri umani che feriscono altri esseri umani a ogni mossa che fanno, ne avremo ferito qualcuno in meno senza il suo consenso.
33.
E come artiste e artisti, potremo dedicarci a fare le ferite che contano.
Lorenzo Maragoni
Lorenzo Maragoni è attore, regista, autore e poeta performativo. Dopo un percorso di studi in statistica, campo nel quale diventa Dottore di Ricerca nel 2015, si dedica al teatro come autore, regista e attore. Dal 2018 partecipa al circuito italiano del poetry slam, di cui nel 2021 è campione nazionale e nel 2022 campione del mondo, rappresentando l’Italia alla World cup di Parigi.