Nuove estetiche sonore. L’AI e la musica
– conversazione con Humpty Dumpty

di Giuseppina Borghese

Woody Allen in "Il Dormiglione" (Sleeper), un film commedia fantascientifica di Woody Allen del 1973
Woody Allen in “Il Dormiglione” (Sleeper), un film commedia fantascientifica di Woody Allen del 1973

Il 2 novembre 2023 è stato pubblicato per Calderstone Productions il singolo Now and Then dei Beatles, un’operazione che ha portato con sé un lungo e appassionato dibattito, a metà tra l’entusiasmo di milioni di ascoltatori e la curiosità, e lo scetticismo, di tanti altri verso nuovi metodi di fare musica. L’operazione, infatti, ha avuto una genesi molto affascinante: tutto è partito da una musicassetta registrata da John Lennon nel 1977 riportata alla luce negli anni Novanta. Lo stato estremamente compromesso dei nastri aveva fatto sì che solo due delle tre tracce contenute nella cassetta (Free as a Bird e Real Love) erano riuscite ad essere inserite nelle Beatles Anthology 1 e 2. Now and Then, invece, rimaneva un’oscura testimonianza destinata all’oblio, fino a quando, durante la realizzazione del documentario Get Back di Peter Jackson, l’ingegnere del suono Emile De La Rey grazie all’utilizzo di “MAL” (Machine Assisted Learning), un software in grado di distinguere le singole voci e separare più fonti di suono nello stesso file sonoro, è riuscito a recuperare la traccia. A questo processo di pulizia – reso possibile dalla compagnia di effetti speciali digitali Weta FX – è seguito un lavoro di “cucitura” del pezzo, aggiungendo l’orchestra d’archi, le voci e il resto degli strumenti suonati in studio. Così, a distanza di 29 anni, due dipartite all’interno di una band sciolta nel 1970, ci viene consegnato un brano inedito, dalle atmosfere suggestive che evocano nostalgia e assenza, attraverso l’eco di una voce fantasma:

«Now and then
I miss you
Oh, now and then
I want you to be there for me
Always to return to me»

Che l’uscita del singolo sia avvenuta il 2 novembre, nel giorno della memoria dei defunti, non si sa bene se sia un caso o no, ma una riflessione sorge spontanea a fronte dell’utilizzo di sofisticati sistemi di AI in operazioni vagamente hauntologiche che assecondano quel sentimento sempre più diffuso di interesse per la storia archiviata. La riflessione verso la quale sembra portarci l’utilizzo dell’AI nella produzione musicale oggi diventa una riflessione innanzitutto sul tempo presente e sul tempo passato, a giudicare dall’incredibile proliferare di piattaforme che, con lo zelo di un copista museale, scavano nelle menti degli artisti per riprodurne i capolavori. Melodie e arrangiamenti vengono assemblati come si assemblassero ricordi sparsi e scollegati, un lavoro sull’assenza e sul passato che sembra sempre ritornare in forme più o meno simili. Uno dei primi esperimenti di applicazione dell’AI nell’industria musicale è avvenuto nel 2017, quando la Sony creò la hit Daddy’s Car, una canzone nata dal programma Flow Machine, che si ispirava allo stile musicale dei Beatles. Ad oggi esistono numerosi software che permettono a chiunque – non necessariamente musicisti – di generare melodie e creare testi, tra cui Soundraw, fondata nel 2020 da Tago Kusunoki, Mubert e Voicemod, entrambi generatori di musica in cui l’elemento chiave è il testo fornito dall’utente, Aiva, una piattaforma dedicata alla composizione di colonne sonore per spot pubblicitari, videogiochi, film e Masterpiece Generator, che tra le diverse modalità di composizione permette di creare brani freestyle, composizioni linea per linea e che si ispira direttamente allo stile di artisti famosi.
«È una grottesca presa in giro di ciò che significa essere umani», ha scritto Nick Cave in risposta a una canzone dell’intelligenza artificiale che replicava lo stile dei suoi brani, aggiungendo «Le canzoni nascono dalla sofferenza, con questo intendo dire che si basano sulla complessa, interna lotta umana per la creazione e, per quanto ne so, gli algoritmi non sentono. I dati non soffrono».

Una delle prime questioni che sorgono in merito a questo tema potrebbe essere proprio di natura filosofica. La coscienza è qualcosa di estremamente difficile da misurare: in questa prospettiva, l’intelligenza e il sentire umano rappresentano un universo complesso rispetto ai quali una macchina, per quanto possa accedere a una quantità infinita di informazioni, contrappone una profondità “algoritmica”, la stessa di una ipotetica infinita biblioteca che difficilmente può misurarsi con le imprevedibili profondità dell’io.
L’intelligenza artificiale potrebbe mai essere cosciente o meglio, potremmo mai dimostrare che lo sia? La questione della senzienza e dell’autocoscienza rappresenta ad oggi il vero grande discrimine tra l’arte umana e quella artificiale. Nessuno è ancora riuscito a produrre una macchina di cui si possa dire che provi qualcosa, ma forse in un futuro non troppo lontano, quando avremo una completa integrazione tra intelligenza artificiale e quella umana potremmo sperimentare una nuova coscienza, ibrida ma non per questo meno valida.
Negli ultimi anni il contributo dell’AI in musica si è moltiplicato soprattutto per via dell’aumento di creatori di contenuti sulle piattaforme di streaming e sui social media, portando ad una grande richiesta di musica, prodotta non necessariamente da musicisti, anzi, il più delle volte, dietro le composizioni di pezzi “virali” su Tik Tok e altri social, c’è spesso un adolescente chiuso nella propria cameretta. Certo, creare un confortante e suggestivo rumore bianco che faccia da sottofondo alla vita quotidiana, nella piattezza di suoni funzionali e generici spesso simili, è solo l’aspetto più pratico e frequente delle infinite e interessanti possibilità che l’intelligenza artificiale può apportare nella realizzazione di una musica.
A seguito di questa nuova tendenza, nel 2010 i compositori Drew Silverstein, Sam Estes e Michael Hobe hanno creato Amper, che consente ai non musicisti di creare musica indicando parametri come il genere, l’umore e il tempo. La musica di Amper viene ora utilizzata in podcast, spot pubblicitari e video per aziende. Oleg Stavitsky, Ceo e co-fondatore di Endel, una società di produzione musicale berlinese sostiene che «Non c’è una playlist o una canzone che possa adattarsi mai veramente al contesto di ciò che sta accadendo intorno a te» ed è per questo motivo che la sua piattaforma offre paesaggi sonori personalizzati, vale a dire produce una musica che tenga conto di diversi fattori in tempo reale, tra cui il tempo atmosferico, la frequenza cardiaca dell’ascoltatore, il tasso di attività fisica e i ritmi circadiani, insomma, una musica pensata per aiutare le persone a dormire, concentrarsi, curarsi. Sebbene l’intento appaia nobile ed estremamente utile, il claim «Endel, la musica che ti comanda» appare leggermente inquietante come, forse, intravedere un orizzonte sempre più affollato da “curatori sonori” che da musicisti.
Per questa ragione abbiamo fatto una chiacchierata con Alessandro Calzavara – il cantautore che si cela dietro il moniker Humpty Dumpty – figura della scena underground italiana che registra e distribuisce liberamente musica sul web da circa diciassette anni. Riesce a rendere omaggio a una grande quantità di fonti musicali e letterarie, pur mantenendo un vero senso di originalità e una sottile diffidenza verso il songwriting convenzionale. Robyn Hitchcock, Julian Cope e Andy Partridge sono riferimenti evidenti, immersi in un’intricata miscela di post-punk, elettronica e psichedelia.

 

L’AI, nella stesura del testo di una canzone o di una melodia, procede per errori, cercando di individuare i pattern ricorrenti di quello che può essere un genere musicale, un gruppo in particolare. Come scrive, invece, una canzone un essere umano?

Alessandro Calzavara: Vi sono molti modi per comporre una canzone. Molte variabili intervengono durante la stesura, determinate da fattori antropici e tecnologici. Il concetto stesso di canzone, come ogni forma espressiva, è stato al centro di una trasformazione parallela all’evoluzione/de-evoluzione storica. Nella mia personale esperienza ho composto: partendo da una melodia/nucleo che si affaccia improvvisamente alla mente passeggiando per strada e poi rivestita dell’abito armonico con una pazienza da sarto; fantasticando posizioni di kamasutra per le dita sulla tastiera della chitarra e sviluppandole seguendo una lussuria segreta e istintiva; bighellonando attorno a una canzone altrui che resta appiccicata alle meningi ma spingendola senza reverenza verso sviluppi altri; improvvisando lungamente in condizioni ipnotiche ed estrapolando porzioni inconsce dal pasticcio risultante; gettando sulla carta parole e provando a comprendere di che tonalità siano; impostando aleatoriamente accordi su un sequencer e mantenendo solo quelli congruenti al mood compositivo; traendo ispirazione da amici e dalle loro peculiarità allo strumento… E probabilmente in altri modi legati allo strumento o agli strumenti su cui nasce la composizione. Una cosa è comporre su una chitarra o un pianoforte nel silenzio della stanza, un’altra impostando parametri su un DAW qualsiasi, su un cellulare o su un tablet sulla spiaggia.

Una questione centrale, sul tema, è che l’intelligenza artificiale ragiona unicamente per algoritmo. In questo senso, qualsiasi produzione è finalizzata a raggiungere un pubblico perfettamente targettizzato, che è un po’ come dire piacere a tutti. Questo non succede – per fortuna – quando a realizzare un album è un musicista.

A. Calzavara: Tutta la storia della musica commerciale è probabilmente una smentita all’assunto che questo non capiti all’essere umano. L’algida pianificazione dell’industria culturale per orientare il gusto delle masse e razzolarlo economicamente ha sempre lavorato in questa direzione. Ma v’è anche la musica, per così dire, “d’arte”, quel tenue filo con molti capi che sempre si è fatto largo tra le maglie sintetiche del gusto indotto, spingendo sempre un po’ più in là, o a latere, o altrove, il bandolo della matassa. È vero anche che ogni forma in quanto forma non è suscettibile di sviluppo infinito e, come aveva già visto Hegel, prima o poi esaurisce le proprie possibilità combinatorie. Dinanzi a ciò o muta in qualcos’altro o si destina alla ripetizione infinita.

Da musicista, quali opportunità pensi possa offrire concretamente l’AI in musica e, invece, quali i rischi?

A. Calzavara: Credo che un utilizzo semplice e puro dell’AI possa, in termini artistici, essere destinato a produrre piccoli capricciosi ambienti sonori utilizzabili alla bisogna in mille situazioni a costo zero o quasi zero. Come in fondo sono sempre state le discoteche e oggi sono i supermercati o i locali di ristoro in cui c’è sempre una tv che manda i video di questo o quello zombie. Credo che la massa succube dei canali di diffusione globali, gli amanti passivi della moda, coloro che non distinguono fra musica e sottofondo scivoleranno dentro questo nuovo ambiente senza particolari scosse o traumi. Bisognerà raccontargli cosa è successo, ricordandosi di specificare che altri esseri umani avranno perso il lavoro nella catena di montaggio, sostituiti da chip.
Viceversa coloro che percepiscono l’esistenza come un blocco di marmo da cui estrarre la propria forma michelangiolesca posizioneranno questa nuova possibilità in mezzo agli altri colori della tavolozza e proveranno a integrarla con quel margine di imprevedibilità, umoralità, oscurità, decisionalità che da sempre guida i destini evolutivi della forma musicale. Il problema è capire quanti ne resteranno, quanto pubblico potrebbero mantenere, e per quale forma di essenziale, resistenziale masochismo.

Qual è il tuo rapporto con l’AI nella realizzazione di musica?

A. Calzavara: Amo da sempre le possibilità elettroniche che l’evoluzione tecnica ha vieppiù espanso e reso alla portata del singolo utente (che è un termine orribile). Vi sono alcuni software di cui mi sono servito che, pur non essendo sic et simpliciter AI, in qualche modo le si avvicinano. Ad esempio ho composto il mio minilp del 2009 (“Pianobar dalla fossa”) con Band in a box, un programma che, passo passo, guida la composizione della canzone, permettendo di inserire accordi, stile, tempo, strumenti. Ottenuto un file midi l’ho esportato su Logic (il mio DAW) e ho aggiunto altre parti, suoni, linea melodica e i testi delle canzoni. Mi servo abitualmente del drummer di Logic, che permette di scegliere un batterista virtuale (ognuno dallo stile differente) per i pezzi suonati. Ho composto “library music” utilizzando sample e assemblandoli in composizioni piuttosto articolate; il software armonizza, mette in tonalità, trasforma e “unifica” materiale di provenienza eterogenea.
Tuttavia dietro c’è sempre il mio lavoro di supervisione e assemblaggio, la guida del mio gusto e il tentativo non di fare giusto per fare, ma per conferire al risultato un senso determinato che, per quanto di provenienza talvolta aleatoria, venga ricondotto all’ovile dell’intenzionalità creatrice.

Secondo te ci sono dei limiti etici da rispettare? Molti musicisti si sentono defraudati di qualcosa quando si parla di applicazione di AI nella musica.

A. Calzavara: Immagino che un musicista di impostazione classica possa sinceramente venire a soffrire di una simile deriva. Per lui suonare è l’insieme di tante cose disciplinarmente apprese, tutte dentro un canovaccio formale piuttosto rigido. Per chi è abituato invece a guardarsi attorno e tentare di “spingere” in qualche modo il confine del processo creativo, penso possa portare a qualcosa di utile.
L’Etica. Lo scopo inconscio dell’essere umano è far fuori l’essere umano. Essere animali è molto faticoso, soprattutto quando disponi di un istinto non così potente da determinare la tua sopravvivenza come ne dispone l’uomo. Credo che la tecnica abbia sempre funzionato per funzionare. Che qualunque cosa produca novità verrà perseguita a prescindere dalle sue conseguenze. L’Etica può valere per gli animi nobili, non certamente per gli uomini nel loro insieme. Cercheranno poi di mettere delle pezze, per motivi di distribuzione, se ci riusciranno. Ma parlando al di là del bene e del male, il mondo è destinato a mutare sempre, e sempre in peggio. L’unico ostacolo all’estinzione è il tempo che ancora separa l’uomo da un incremento fatale X del proprio potere tecnico.

Cos’è la creatività per un musicista oggi? Penso a questa cosa abbastanza orrenda per cui, secondo molti, generatori musicali tipo Soundraw, Boomy, Soundful sono considerati dei veri e propri supporti in presenza di eventuali “blocchi creativi”.

A. Calzavara: Tornando a Hegel, penso che la musica rock (in senso lato) abbia già dato il meglio. Come fruitore ho perso un bel po’ di interesse nelle nuove uscite e frugo con gozzovigliante lussuria nelle ceste di piaceri vinilici passati, ma capisco che giustamente occorra domandarsi cosa resti e cosa si possa fare; i giovani vogliono continuare a scimmiottare le abitudini passate piuttosto che cedere al maelstrom dell’annichilimento finanzcapitalista. Per conto mio ho smesso del tutto, prodotta un’opera, di “spingerla” in qualunque modo. Non è più così importante. È stato deciso che a vivere della propria musica siano i fenomeni da baraccone di questo o quel mese, e spesso per motivi del tutto alieni dalla musica stessa. Produco per abitudine, per amore, per dolore, per concedere ai miei interlocutori la cortesia di connotarmi in qualche modo e ricamarci qualche parola. Per scandire il tempo della vita. Concepisco la mia produzione musicale come un diario. Ogni anno scrivo qualcosa. Qualcosa, non particolarmente importante, succede, e scuote un po’ le acque stagnanti del giardinetto privato, mente fuori infuria l’epoca neoliberista dell’umanità.
Nei dischi oggigiorno cerco più “la personalità” dell’autore, la sua espressività, il gusto con cui trasceglie gli elementi formali già del tutto dati della tradizione. Non mi aspetto di essere invaso da una potenza cultuale pari a quella che, davanti a una Incredible String Band mi faceva inginocchiare tremebondo e sbavante. Ormai tutto è tradizione, il futuro è perso.

 

Giuseppina Borghese

Giuseppina Borghese, giornalista, collabora alle pagine culturali del quotidiano La Gazzetta del Sud. Si occupa di teatro, viaggi e società. Collabora, tra gli altri, con Il Tascabile e Minima&Moralia. A Manchester con gli Smiths (Giulio Perrone editore) è il suo primo libro.