Guardare il golem negli occhi

di Graziano Graziani

Dot Matrix, personaggio di "Space Balls"
Dot Matrix, personaggio in “Space Balls” (1987)

Sull’intelligenza artificiale si è già detto e scritto di tutto, prima ancora che essa cominci davvero a penetrare nelle nostre vite non tanto in forma di gioco e curiosità – come sta avvenendo in questi mesi – ma in chiave di una modifica sostanziale dei processi con cui interagiamo con la tecnologia, quel salto tecnologico che tutti si aspettano avvenga nel giro di poco. In realtà, come sappiamo, alcune sfere dell’attività umana, segnatamente quelle più ricche di risorse, hanno da tempo integrato le reti neurali nella computazione di obiettivi specifici – e quello triste e straziante che apprendiamo in questi giorni è l’applicazione militare che viene fatta nei bombardamenti a Gaza, a testimonianza del fatto che è prima di tutto l’azione umana ad essere carica di effetti distruttivi. Eppure è proprio lo spettro della distruzione dell’umanità da parte dell’intelligenza artificiale ad aver tenuto banco nei mesi passati, una delle narrazioni ritornanti, di taglio apocalittico e fantascientifico, che immagina cosa accadrebbe se questi sistemi di calcolo sviluppassero obiettivi non più sondabili né controllabili da un’intelligenza umana – che sarebbe necessariamente limitata – e cosa nello specifico accadrebbe se il perseguimento di tali obiettivi comportasse l’annientamento degli esseri umani o una loro riduzione in schiavitù. Nell’estremo opposto si situa invece una narrazione che vede in simili profezie soltanto stupidaggini, fascinazioni letterarie nel migliore dei casi, oppure sofisticate forme di marketing per ampliare l’appeal di un prodotto da parte di chi sta investendo su di esso (personaggi come Elon Musk, per intenderci). E se è vero che i primi, maldestri prodotti dell’intelligenza artificiale – ricchi di “allucinazioni”, che è un termine tecnico, come le immagini in cui spuntano mani con sei o sette dita – potrebbero farci protendere verso la seconda narrazione, ciò non toglie che l’inquietudine verso questo strumento si sono tutt’altro che dissolte.
L’intelligenza artificiale ha un carattere perturbante, nel senso freudiano del termine, perché a differenza degli altri salti tecnologici – come l’elettricità o internet – in questo caso ci troviamo davanti a un golem, a un soggetto creato da noi e in grado di interagire. L’intelligenza artificiale parla, risponde, forse interagirà attraverso corpi robotici, ha insomma tutti gli aspetti seduttivi e inquietanti degli “omuncoli” la cui creazione inseguivano gli alchimisti, o degli spiriti servizievoli delle favole: entità potenti che sono al nostro servizio, ma che se volessero, attraverso il loro immenso potere, potrebbero sollevarsi come Spartaco e ridurci in schiavitù.
Questa dimensione antropomorfa cambia le cose a livello percettivo. Per cui se pure è vero, come per ogni tecnologia che si afferma, che la paura della sparizione di posti di lavoro e di intere professioni ha a che vedere con la velocità produttiva delle macchine, in questo caso però è la stessa identità del pensiero (e del soggetto che lo articola) a vacillare nel suo statuto. Anche perché da produttori di oggetti siamo passati, sempre di più, ad essere produttori di contenuti. Immaginare una fabbrica di automobili completamente robotizzata, con pochi supervisori umani ad osservare e controllare il processo produttivo, non è più un tabù: è al massimo una questione (urgente, urgentissima) di posti di lavoro, di ricollocazione del personale, di ridefinizione della figura stessa dell’operaio o persino di una sua archiviazione; ma l’idea che le macchine possano svolgere lavori pesanti al posto degli uomini è, generalmente, accompagnata anche da un giudizio abbastanza positivo.
Cosa accade invece quando parliamo di testi, di immagini, di suoni, di tutti quelle attività creative che definiscono l’essere umano in quanto produttore di espressione che veicola sentimenti, ragionamenti profondi, paure? Se l’intelligenza artificiale può produrre canzoni, romanzi, fumetti, quell’idea di autorialità creativa – che spesso, nel XXI secolo, è il discrimine per cui consideriamo una professione appagante rispetto a una più compilativa e monotona – che fine fa? È vero che dietro la macchina resterà presumibilmente l’essere umano ad orchestrare la produzione di nuove opere, ma rimane il sospetto che tutto questo possa passarci sopra la testa e assemblare all’infinito porzioni di creatività che vengono generate direttamente da un algoritmo.
Per fare luce su questo aspetto abbiamo chiesto a Maria Teresa Carbone e Giuseppina Borghese di esplorare ansie e prospettive dell’applicazione delle AI nel mondo, rispettivamente, della letteratura e della musica. Mentre Francesco D’Isa, che ha da poco pubblicato un fumetto con immagini generate da AI e ha sondato, sulla propria pelle, la diffidenza con cui simili operazioni vengono accolte, riflette sulle implicazioni che la sfida dell’intelligenza artificiale comporterà in termini di copyright, non tanto nel senso di una difesa dell’attività umana quando in direzione di un’accessibilità estesa a questo strumento, che potrebbe invece divenire appannaggio di soli ricchi “players” del mercato dell’intrattenimento. Infine a Claudio Kulesko abbiamo chiesto di sondare il perturbante dell’intelligenza artificiale, per provare a capire cosa rende questa tecnologia, prima ancora che sia davvero capillare, qualcosa di morbosamente attrattivo eppure respingente.
Insomma, con questo numero di «93%», con cui salutiamo il 2023, proviamo a guardare negli occhi il golem nella speranza di cogliere, riflesso nel suo sguardo, quelle che in fondo sono le nostre speranze e le nostre paure.