L’invisibile ideologia del “carino”
di Lucia Tozzi
Nel mondo dei geografi urbani, degli urbanisti, degli studiosi, la critica alla gentrificazione è un argomento dibattuto da decenni fino all’usura. Al punto che ormai la parola è quasi diventata un tabù: chi preferisce utilizzare upscaling, come Sharon Zukin, chi propone la messa a bando di tutte le parole che finiscono in –ation (gentrification, beautyfication, studentification).
Non sono d’accordo, anche se riconosco che il rischio dello svuotamento di significato, come per tutte le parole abusate, da “inclusività” a “sostenibilità”, è reale. Ma in questo momento storico il lemma gentrification ha ancora ancora il potere di evocare in maniera abbastanza semplice e precisa a una platea di persone piuttosto ampia – ai non studiosi – il concetto di espulsione di abitanti fragili a opera di classi più abbienti, o di funzioni turistiche e commerciali destinate comunque a chi è in condizioni di spendere soldi.
Che poi alla produzione di questo fenomeno concorrano moltissimi fattori diversi, in combinazioni che si evolvono nel tempo, è vero: mode, passaparola, comunicazione, marketing, progetti artistici, progetti immobiliari, progetti di riqualificazione, migrazioni, la vicinanza di strutture come ospedali, università, centri culturali, stabilimenti balneari, parchi. Persino le metropolitane contribuiscono ad alimentarlo. Però cercare di venderlo come il frutto di un “naturale” processo di competizione è una falsificazione evidente, perché la gentrificazione è sempre, in ogni caso, il risultato della scelta politica di nutrire la rendita.
Una scelta politica che è ormai resa esplicita da una diversa parabola linguistica, quella che ha segnato la progressiva sparizione dal nostro vocabolario della parola urbanistica a favore di “rigenerazione urbana”. In anni di fuoco incrociato da parte dell’ideologia neoliberale e della critica radicale, l’urbanistica è stata connotata come autoritaria, disumana, vessatoria, mentre la rigenerazione è associata a visioni ridenti, a nuove energie, forme di collaborazione, cura del corpo, dello spirito, della società e dello spazio.
Per fortuna un’abbondantissima letteratura critica internazionale è all’opera da anni per smantellare pezzo per pezzo l’uso di linguaggi e politiche ambigui e manipolatori, e una miriade di movimenti urbani e territoriali contesta sempre più spesso operazioni di “rigenerazione” dall’alto e dal basso, ottenendo persino qualche vittoria.
Come per esempio nel caso di San Siro a Milano, uno dei tanti progetti scaturiti dalla pessima legge sugli stadi, che prevedeva di abbattere la cosiddetta “Scala del calcio”, una delle più monumentali e funzionali strutture sportive d’Europa, lo stadio Meazza, per ricostruirne uno più piccolo, più commerciale e più di lusso a pochi metri di distanza, sullo stesso sito. Milioni di metri cubi di cemento armato portato a discarica da decine di migliaia di camion, milioni di litri di cemento nuovo colati, cantieri lunghissimi giustificati da un unico scopo: ottenere un enorme surplus di denaro per due società calcistiche (Inter e Milan) di cui non sono neppure note le composizioni proprietarie, in gran parte estere. Dopo avere respinto ricorsi, vincoli e persino un referendum cittadino, l’amministrazione ha visto andare in frantumi ogni certezza sulla fattibilità del progetto grazie all’ostinazione degli oppositori, che sono riusciti a forza di proteste a scardinare la narrazione green: i rendering fitti di alberi e prati intorno a edifici iconici e luccicanti, i mirabolanti racconti sul futuro radioso di un quartiere smart rigenerato sono sbiaditi, mentre i giornali e la popolazione cominciavano a prendere coscienza che nel nome di puri interessi finanziari si stava spacciando per rigenerazione del quartiere San Siro l’accaparramento di una struttura eminentemente pubblica per mezzo di lavori ad altissimo impatto ambientale. La partita, tra ricatti e ulteriori ricorsi, è ancora aperta, ma la crescente instabilità dei mercati e degli equilibri internazionali, unita alla cattiva reputazione che il modello Milano si è attirato addosso negli ultimi tempi, gioca a favore dei milanesi.
I fallimenti, del resto, cominciano a moltiplicarsi: è fallita la trista Disneyland del food messa in piedi da Oscar Farinetti a Bologna, FICO, che era stata venduta gli italiani come una geniale unione di turismo e cultura alimentare che avrebbe rigenerato l’area del CAAB, ovvero i Mercati Generali agroalimentari. È fallita prima di nascere l’inutilmente devastante Pista da Bob di Cortina, una delle grandi opere concordate per le Olimpiadi invernali 2026 che fortunatamente non ci rimarrà sul groppone a fine evento. Sono i primi segni di un cedimento strutturale, di una nuova crisi del dogma della crescita a tutti i costi che ci è stato imposto dal regime economico dominante.
Prima si comincia a riconoscere questi eventi come propizi, come punti di partenza su cui impostare nuove politiche trasformative, meglio è. Lo sviluppo urbano contemporaneo, contrariamente a quello che le retoriche della transizione ecologica cercano di affermare, è più vorace di quello passato: si fonda sul consumo di suolo mascherato (per mezzo di espedienti burocratici che ne cancellano l’evidenza o attraverso la piantumazione di piante sul cemento), sulla densificazione del costruito, sul ciclo abbattimento-ricostruzione, sulla sostituzione continua di materiali edilizi, e quindi la produzione di enormi quantità di scarti, in nome di un presunto efficientamento energetico. Si fonda anche, e soprattutto, sull’ingiustizia spaziale, concentrando le risorse e la ricchezza prodotta nelle mani di una minoranza sempre più esigua ed espellendo gli abitanti. Per spezzare questo circuito mortale è necessario che il meccanismo si inceppi, che i fallimenti, letti nel modo corretto, mostrino ai dominati che le alternative esistono e vanno perseguite, e ai predatori che i rischi aumentano.
Attualmente uno dei più grandi ostacoli alla costruzione delle alternative urbane, alla capacità di lottare per fermare questo modello di rigenerazione suicida, è l’introiezione collettiva della cultura del “carino”, rappresentata magistralmente da Giovanni Semi nel suo Breve manuale per una gentrificazione carina. Il carino non è la bellezza in senso proprio, non è il semplice decoro, non è il puro pittoresco, ma è una forma passivo-aggressiva di estetizzazione dell’ordine sociale, al tempo stesso conformista e personalizzata, o meglio customizzata, che in qualche modo riguarda tutti. Ognuno si fa un’idea, in base alla propria bolla culturale, di come una città o un quartiere potrebbero essere più piacevoli, e ne proietta l’immagine sulla realtà, indignandosi se il reale si allontana troppo dall’ideale. Ne scaturisce un vero e proprio giudizio morale, l’inadeguatezza viene assunta come un tradimento, un’offesa. Per alcuni il carino coincide con il lusso, per altri con i segni della cultura underground, per altri ancora con un’estetica della partecipazione, della solidarietà: semplificando, gli uni magari desiderano più grattacieli e aiuole sponsorizzate, gli altri più muri dipinti e bowl, gli ultimi i tavoli da ping pong e le ciclabili. Ma, aldilà delle sfumature, quasi tutti converranno oggi che una piazza pedonalizzata è comunque meglio di un disordinato ammasso di auto, anche se caccia i poveri. Che un parco privatizzato è sempre meglio di un vuoto urbano, anche se magari nel frattempo era diventato un bosco pieno di biodiversità. Che un palazzo mediocre ma nuovo e in classe A è preferibile a un edificio di case popolari fatiscente, anche se quello era stato progettato da un bravo architetto e ospitava abitanti che avevano ottenuto il diritto di viverci. Che un marciapiede occupato da tavolini, dehors e funghi è un luogo di socialità più accogliente di una strada libera, anche se chi ci vive perde il diritto al sonno e al passeggio. Che la moltiplicazione degli eventi è un fatto positivo, anche se gli eventi sono privi di qualsiasi interesse culturale. Che un museo della Resistenza è sacro, anche a costo di sacrificare le lotte dei cittadini contro l’ennesimo “attrattore” che spiana un giardino condiviso di quartiere.
È incredibile come le stesse persone che partecipano alle manifestazioni LGBTQI+, o che si battono contro i lager libici e l’esternalizzazione dei confini europei, o che sono in grado di argomentare sulle teorie più oscure, si blocchino di fronte alla prospettiva del carino. All’improvviso la loro capacità di comprensione politica viene meno, lo sguardo si spegne e inesorabilmente replicano: vabbè, ma riqualificare è buono, no? Mica si può rinunciare alla bellezza per principio? Certo non si può gioire per un fallimento, che poi resta il cantiere! Piazzale Loreto viene trasformato in un centro commerciale Auchan? Pazienza, ora in fondo è solo una brutta rotonda. Il prezzo al metro quadro all’Isola ha raggiunto i 10mila? Ma ti ricordi i tossici che c’erano prima in giro?
Ripetere ossessivamente che quello che conta è per chi si rigenera non è sufficiente. Neppure la strada della discussione estetica funziona: i tentativi di dimostrare che il perenne taglia e incolla dell’High Line newyorkese produce solo dei parchi tamarri zeppi di graminacee non sortiscono alcun effetto.
La rivolta non ha altra scelta, per esistere, che partire dal ripudio del carino. Rivendicare la sciatteria estetica dell’urbano, nel suo senso più ampio, costituisce forse l’arma più potente contro le politiche della rendita. La miglior cura delle città e delle persone che le abitano consiste nel lavorare contro la promozione dell’immagine, nell’opacizzare la comunicazione, costringendo chi è responsabile a lavorare sui contenuti, sulla sostanza. Per rompere con il realismo capitalista, per impedire la cattura dei desideri e la loro cristallizzazione in forme, è necessario diventare esteticamente inafferrabili.
Lucia Tozzi
Lucia Tozzi (Napoli 1974) è una studiosa indipendente di politiche urbane. Dopo anni di giornalismo freelance nel campo culturale e più specificamente dell’architettura e delle città, in cui ha scritto per Domus, Abitare, Architectural Design, il manifesto, la Stampa, Alfabeta2 e altre testate, ha pubblicato, tra le altre cose, City Killers. Per una critica del turismo (libria 2020), Dopo il turismo (nottetempo 2020), Contro il panorama (Nottetempo 2022), L’invenzione di Milano (Cronopio 2023) e, con Luca Rossomando e Stefano Portelli, Le Nuove recinzioni (Carocci 2023).