Retoriche del “green” e strategie di marketing

di Monica Di Sisto

Papa Francesco. Foto da www.paroladivita.org
Papa Francesco. Foto da www.paroladivita.org

«La decadenza etica del potere reale è mascherata dal marketing e dalla falsa informazione, meccanismi utili nelle mani di chi ha maggiori risorse per influenzare l’opinione pubblica attraverso di essi. Con l’aiuto di questi meccanismi, quando si pensa di avviare un progetto con forte impatto ambientale ed elevati effetti inquinanti, gli abitanti della zona vengono illusi parlando del progresso locale che si potrà generare o delle opportunità economiche, occupazionali e di promozione umana che questo comporterà per i loro figli. Ma in realtà manca un vero interesse per il futuro di queste persone, perché non viene detto loro chiaramente che in seguito a tale progetto resteranno una terra devastata, condizioni molto più sfavorevoli per vivere e prosperare, una regione desolata, meno abitabile, senza vita e senza la gioia della convivenza e della speranza; oltre al danno globale che finisce per nuocere a molti altri» (1).
Questo j’accuse senza sconti alla comunicazione “finto-verde” che accompagna molte grandi opere non è di un ambientalista estremista, ma di Papa Francesco. Il pontefice, nella sua più recente esortazione apostolica Laudate deum, individua nel “greenwashing”, cioè l’ammantare di virtù ambientaliste imprese, progetti o servizi che in concreto non ne hanno, uno dei fattori determinanti della colpevole assenza di risposte politiche e pratiche ai cambiamenti climatici. Un’esperienza empirica alla portata di tutti sull’ampiezza e l’intensità di queste specifiche attività di propaganda, è quella di digitare “green o social marketing” nei più comuni motori di ricerca. Il risultato è suggestivo: centinaia di agenzie e professionisti che propongono i propri servigi per «far emergere i contenuti verdi della tua azienda», «elaborare strategie vincenti per avvicinare consumatori sensibili», e vendere alle aziende «come distinguersi dalla concorrenza» scommettendo su valori e messaggi edificanti. Nel 2020 la Commissione europea ha condotto una ricerca molto estesa per individuare casi di greenwashing online, e ha rilevato che nel 42% del campione le virtù ambientali dichiarate erano esagerate, false o fuorvianti (2). Nel 2022 un’indagine condotta da «The Harris Poll» per Google Cloud (3) ha raccolto le voci di quasi 1500 membri dei vertici di aziende globali. Il 58% degli intervistati ha ammesso che la propria compagnia aveva promosso azioni di greenwashing, numero che balzava al 72% nel caso delle corporation nordamericane.

A cavallo del secolo, quando le Nazioni Unite lanciavano gli Obiettivi del Millennio con i quali i Paesi membri si impegnavano solennemente a sconfiggere la povertà, salvare l’ambiente e promuovere lo sviluppo umano, il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan aveva scommesso sul fatto che le grandi imprese per propria responsabilità e non costrette da specifiche regole, avrebbero contribuito in misura determinante, con capacità economiche potenziali maggiori di molti Stati, a rafforzare la comunità internazionale in quella impresa. Nel 1999, intervenendo al World Economic Forum di Davos, Annan invitò i leader dell’economia mondiale presenti a sottoscrivere con le Nazioni Unite un “Patto Globale” per affrontare insieme, politica e affari, gli impatti più critici della globalizzazione (4). Per gettare le fondamenta di una “prosperità globale” comparabile, per i Paesi emergenti, a quella raggiunta dai Paesi industrializzati dopo la II Guerra mondiale, «le aziende singolarmente e collettivamente attraverso le proprie associazioni di categoria dovranno assumere, sostenere e mettere in pratica un set di valori fondamentali nelle aree dei diritti umani, degli standard del lavoro e delle pratiche ambientali», propose Annan.
A luglio del 2000 il Global compact fu presentato ufficialmente, e da allora vi hanno aderito oltre 20.000 aziende di 162 Paesi nel mondo, assumendosi impegni pubblici sempre crescenti. Il Transnational institute, tra gli osservatori più attenti della governance globale e dell’impatto delle lobby sulla sua qualità, fa risalire a questa scelta l’indebolimento di tutte le iniziative legislative e regolatorie democratiche delle Nazioni Unite. Dall’annacquamento dei limiti vincolanti alle emissioni contenuti nel protocollo di Kyoto con gli impegni volontari nell’Accordo di Parigi, all’indebolimento delle Convenzioni internazionali, alla moltiplicazione di fondi e percorsi separati, dominati dalle logiche aziendali: il riconoscimento e il rispetto di diritti umani fondamentali dell’umanità si giocano oggi in larga parte su tavoli opachi e inaccessibili per le realtà della società civile, i sindacati, persino per i rappresentanti istituzionali democraticamente eletti (5).

A ottobre del 2022 il capitolo italiano del Global compact ha condiviso un documento dal titolo accattivante: La gestione sostenibile delle catene di fornitura: tra responsabilità e opportunità per le imprese (6). Il report, si legge nella sua presentazione, si pone l’obiettivo «di mostrare e valorizzare l’impegno delle aziende aderenti nella gestione delle proprie catene di fornitura in chiave sostenibile, individuando sfide e opportunità correlate, partendo da approfondimenti verticali». Tra le aziende in vetrina con le proprie buone pratiche di responsabilità sociale troviamo le ammiraglie nazionali delle risorse energetiche: Edison, Enel, Eni, Snam. Le priorità dichiarate nella presentazione delle loro buone pratiche sarebbero quanto di più prioritario, sulla carta, per una vera transizione ecologica, non più rinviabile: riduzione delle emissioni, promozione e tutela dei diritti umani e del lavoro dignitoso, gestione delle esternalità negative attraverso soluzioni circolari. In realtà, andando a analizzare le specifiche pratiche raccolte nel report, esse riguardano il finanziamento e il sostegno – nei casi più avanzati – di una maggiore tracciabilità, efficienza e riduzione degli impatti negativi delle loro stesse, vecchissime attività produttive. Attività che sono saldamente ancorate ai settori industriali fossili dai quali, in un’autentica transizione, ci dovremmo allontanare il più velocemente possibile.
A quasi un quarto di secolo da Kofi Annan, in effetti, l’attuale segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricondotto a inizio anno i vertici delle corporations, tornati a Davos per il loro forum strategico, alla cruda realtà della storia e della cronaca: «Oggi i produttori di combustibili fossili e i loro sostenitori continuano a correre per espandere la produzione, ben sapendo che il loro modello di business non è compatibile con la sopravvivenza umana. Questa follia – ha denunciato Guterres – appartiene alla fantascienza, eppure sappiamo che il crollo dell’ecosistema è un fatto scientifico freddo e duro». «Alcuni produttori di combustibili fossili erano ben consapevoli negli anni Settanta che il loro prodotto di punta avrebbe bruciato il pianeta – è stata l’accusa di Guterres – Ma come avvenuto per l’industria del tabacco, hanno ignorato la stessa scienza» (7).

Tra le aziende consapevoli del loro potenziale distruttivo, ma che avrebbero tirato avanti “business as usual”, ci sarebbe anche Eni che, come abbiamo visto, è tra i pionieri italiani dei programmi internazionali di responsabilità sociale delle imprese e investe sulla sua reputazione etica moltissime energie. Sulle bollette, come sulla comunicazione dell’azienda, da qualche mese si evidenzia, ad esempio, che l’intero gruppo Plenitude è certificato come b-corp. Nel mondo sono oltre settemila, più di 240 in Italia, le imprese benefit che dal 2013 si sottopongono alla verifica dell’ente no profit statunitense b-lab che quantifica la loro capacità di conciliare la sostenibilità economica della propria attività con l’etica, realizzando un impatto positivo sull’organizzazione interna, la società e l’ambiente (8).
Eppure le associazioni Greenpeace Italia e ReCommon (9) sono riuscite a ritrovare alcune pubblicazioni interne risalenti agli anni Settanta e Ottanta, quando Eni era interamente controllata dallo Stato, dove l’azienda metteva in guardia sui possibili impatti distruttivi sul clima del pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili. Nel rapporto Eni sapeva si riporta, inoltre, che fin dalla prima metà degli anni Settanta Eni ha fatto parte dell’Ipieca, un’organizzazione fondata da diverse compagnie petrolifere internazionali che, secondo recenti studi, a partire dagli anni Ottanta avrebbe consentito al gigante petrolifero statunitense Exxon di coordinare «una campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire le politiche internazionali sul clima». L’azienda ha proseguito e continua ancora oggi a investire principalmente sull’estrazione e lo sfruttamento di petrolio e gas. E non stiamo parlando di una società privata in balia di una dirigenza irraggiungibile. Spesso si dimentica, infatti, che è ancora lo Stato italiano il principale azionista di Eni: il ministero dell’Economia controlla direttamente il 4,41% delle sue quote azionarie mentre Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal ministero dell’Economia per l’82,77% del capitale, ne detiene il 26,21% del capitale azionario.

I giovani ambientalisti di Fridays for future contestano duramente da anni la presenza di Eni nelle scuole e nelle università con programmi di educazione ambientale nell’ambito di partenariati tra il ministero dell’Università e molte scuole, con evidenze non contestabili. «È tra le 30 aziende più inquinanti, è responsabile a livello globale di un volume di emissioni di gas serra superiore a quello dell’intera Italia anche se è controllata e finanziata dallo Stato Italiano – hanno dichiarato in numerosi presidi animati di fronte alle sedi della società – Nonostante Eni cerchi di costruirsi un’immagine pulita ed ecosostenibile, non c’è greenwashing che tenga davanti ai numeri e alla realtà dei fatti» (10). D’altronde anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha irrogato nel 2020 una sanzione di cinque milioni di euro a Eni s.p.a. per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose (11). Nel corso del procedimento la società ha avviato l’interruzione della campagna stampa e si è impegnata a non utilizzare più, con riferimento a carburanti per autotrazione, la parola “green”.

Quanto la corrispondenza tra pubblicità e fatti sui temi ambientali sarà elemento sempre più fondamentale per il successo di un’azienda oggi lo ha confermato l’edizione 2023 dell’Edelman trust barometer report (12) che valuta ogni anno la fiducia dei consumatori del mondo: il 63% degli oltre 32mila intervistati nei 28 Paesi-campione ha dichiarato di acquistare o sostenere un brand in base ai propri valori e ai propri credo, mentre l’82% si aspetta che i Ceo delle grandi aziende prendano una posizione pubblica sui cambiamenti climatici. Astenersi perditempo.


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  1. https://www.humandevelopment.va/it/news/2023/laudate-deum-esortazione-apostolica-di-papa-francesco.html
  2. https://www.un.org/en/climatechange/science/climate-issues/greenwashing
  3. https://cloud.google.com/blog/topics/sustainability/new-survey-reveals-executives-views-about-sustainability
  4. https://www.un.org/sg/en/content/sg/speeches/1999-02-01/kofi-annans-address-world-economic-forum-davos
  5. https://www.tni.org/en/article/the-corporate-capture-of-global-governance-and-what-we-are-doing-about-it
  6. https://www.globalcompactnetwork.org/files/pubblicazioni_stampa/pubblicazioni_network_italia/Paper-CATENE-DI-FORNITURA-web.pdf
  7. https://www.rainews.it/articoli/2023/01/clima-il-grido-di-dolore-del-segretario-generale-dellonu-vicini-alla-catastrofe-irreversibile-1bcf1755-e43f-4671-a909-b8ef478e995f.html
  8. https://bcorporation.eu/country_partner/italy/
  9. https://www.recommon.org/eni-conosceva-gli-effetti-delle-fonti-fossili-sul-clima-fin-dagli-anni-settanta-svela-ricerca-di-greenpeace-italia-e-recommon/
  10. https://fridaysforfutureitalia.it/perche-non-possiamo-eni/
  11. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/1/PS11400
  12. https://www.edelman.com/sites/g/files/aatuss191/files/2023-03/2023%20Edelman%20Trust%20Barometer%20Global%20Report%20FINAL.pdf

 

 

Monica Di Sisto

Giornalista di Askanews, esperta di commercio internazionale. Ha insegnato Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana e Advocacy del Terzo settore al Master di comunicazione istituzionale dell’Università Luiss Guido Carli di Roma. È la vicepresidente dell’Osservatorio italiano su Commercio e Clima Fairwatch.