La disseminazione del corpo. Oltre la danza contemporanea

di Massimo Marino

Harald Kreutzberg. Foto Robertson

Questo intervento è un esercizio di memoria. Che applico, procedendo per salti, utilizzando materiali che ho elaborato nel corso degli anni, mentre seguivo la scena contemporanea. Lo presento con la premessa che non sono un critico di danza: ho iniziato a occuparmi di questa disciplina quando la ricerca teatrale degli anni Novanta si è indirizzata verso una rottura dei confini disciplinari, rivolgendo il proprio interesse, in modo forte, al corpo e alle sue drammaturgie.


In principio era Ivrea (e non solo)

La crisi del sistema teatrale, quello basato sul «testo messo in scena da attori che interpretano altri da sé, ossia personaggi», e la necessità di allargare i criteri di inscrizione nei territori del teatro erano già ben presenti all’avanguardia degli anni Sessanta, che nel 1967 si chiamava a raccolta di riflessione a Ivrea, dopo quasi un decennio di assalti alla cittadella del teatro istituzionale e prima di un salto in cerca di nuovo fiato. Bisognerebbe rileggere il manifesto Per un convegno sul nuovo teatro e il susseguente tentativo di analizzare in dettaglio le nuove pratiche teatrali (furono pubblicati da Franco Quadri in L’avanguardia teatrale in Italia: materiali 1960-1976, Torino, Einaudi, 1977). Si scoprirebbe un catalogo di intuizioni che non sono riuscite a trasformarsi in cambiamento profondo e duraturo. Rimangono di grande attualità la richiesta di spazi adeguati a opere differenti da quelle della tradizione, la necessità di incontro fra pratiche artistiche diverse (il nuovo teatro, la nuova musica, il free jazz, il free cinema, le sperimentazioni nelle arti visive eccetera), l’accento posto sul gruppo, sul lavoro collettivo, sul corpo, sul bisogno di superare un sistema burocratico e inadeguato, la nuova funzione della critica teatrale, l’esplorazione di tecniche, forme, poetiche, il bisogno di gesti contemporanei e di una contestazione globale. Come pure sono suggestioni fertili nozioni quali “teatro laboratorio”, “teatro collettivo”, sperimentazione di nuovi materiali scenici, di una nuova scrittura drammaturgica capace di misurarsi con oggetti, corpi e immagini di una civiltà sempre più performativa e visiva, così come l’esigenza di ampliare il pubblico in direzioni più ampie, diverse da quelle degli abbonati alle stagioni teatrali o della minoranza culturalizzata.

Dopo il Living Theatre, dopo la scoperta della fisicità dell’attore applicata a una drammaturgia del montaggio e delle “attrazioni” del Teatr Laboratorium di Grotowski e dell’Odin Teatret di Barba, dopo i fantasmi di Kantor e gli attori che legano corpo e voce nel penetrare tutto lo spazio scenico di Peter Brook, dopo e parallelamente, la danza contemporanea rompe gli argini, per esempio con il teatro danza (danza e teatro, teatro e danza) di Pina Bausch e con esperienze di gruppo come quella di Carolyn Carlson, che riunisce intorno a sé, agli inizi degli anni Ottanta, giovani danzatori, che daranno poi vita a Sosta Palmizi. In quello stesso primo scorcio del decennio – parallelamente a quei fenomeni chiamati di nuova spettacolarità – provano a fondere teatro, danza, performatività, immagine, analisi e trasformazione degli spazi Parco Butterfly e Padiglione Italia. Esperienze di gruppo, che poi moltiplicano artisti solisti, in cerca di nuove aggregazioni, fattori di disseminazione.


Corpo – Anni Ottanta

Ossessione del corpo. Aspirazione di massa a una perfezione, a un’armonia che un tempo era delegata, forse, solo agli eroi sportivi, agli artisti del circo, agli eccentrici del varietà e alle étoiles del balletto, capaci di bucare le pareti della normalità fisica. Immaginario delle possibilità del corpo, che narra la nostra impotenza e la voglia di meraviglia, di realizzazione dell’impossibile.
Il corpo è il desiderio, l’ossessione, la paura dell’unica essenza che forse riusciamo a stringere e che svanisce. È una lotta con il limite, egotica, sviluppata, occidentale, come noi siamo, i veri nemici di noi stessi che per rassodarci, per essere ogni giorno più belli, o almeno per provare a esserlo, per tentare di diventare quasi eterni, andiamo distruggendo il mondo e teniamo nella miseria tre quarti dell’umanità, consumando e consumandoci incessantemente.

Il corpo del primo Novecento è il corpo urlante, il corpo appestato di Artaud. Il corpo malato, scandaloso e nascosto, occultato nei manicomi, rivelato per esempio dalle inchieste fotografiche su quei luoghi di reclusione e liberato dal progetto di Franco Basaglia. È il corpo assembleare e quello dei cortei; è il corpo delle minoranze che prendono coscienza di sé, le femministe, i gay; è il corpo-oggetto o il corpo tra gli oggetti delle neo-avanguardie. In teatro diventa il corpo majakovskijano della Rivolta degli oggetti della Gaia Scienza, il corpo patologico-analitico-esistenziale dei Magazzini Criminali in Crollo nervoso e in Sulla strada, il corpo danzante e graficizzato di Tango glaciale di Mario Martone. Poi diventa il corpo altro della Albe Nere, il corpo poetico di Teatro Valdoca e Mariangela Gualtieri, quindi il corpo autosufficiente e autistico di Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio, spettacolo nodale del 1992, un “mollusco” senza parole, se non affidate a scritte vergate spesso con deiezioni organiche, rinchiuso nell’utero materno della sua stanza, dove immagina, vive, soffre il rapporto con madre, padre, mondo. È un corpo enfatizzato, enfiato, mostrato nel suo essere assoluto, sciolto da legami sociali.
Scrivono Stefania Chinzari e Paolo Ruffini (Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima generazione, Castelvecchi, 2000), del nuovo corpo come lo configura il teatro tra anni Ottanta e Novanta:

«Non è il corpo sacrificale grotowskiano, non è il corpo reattivo dell’attore biomeccanico né, tanto meno, quello interiorizzato ed emotivo del metodo Stanislavskij. I riferimenti, caso mai, vanno al corpo “disfatto” professato da Carmelo Bene o ai personaggi nullificati e svuotati descritti da Beckett quando portava alle estreme conseguenze il dettato artaudiano di un “corpo senza organi”. L’attore del teatro anni Novanta, insomma, è in primo luogo un corpo che si definisce per sottrazione, per negazione. Non a caso discende da un patriarca autistico e “nullafacente” come l’Amleto messo in scena dalla Socìetas Raffaello Sanzio. È un attore che non recita. Ovvero che non costruisce un rapporto di comunicazione con l’osservatore-spettatore, ma esiste, costituisce sé stesso come oggetto d’arte.
Questo attore manifesta di sé un corpo che tenta di sfuggire da sé stesso, uno spasmo, secondo quanto scrive Deleuze, un corpo come plesso, e lo sforzo o l’attesa di uno spasmo. È un corpo che non sta fermo né si muove, ma fa entrambe le cose contemporaneamente: un corpo perciò deformato, malato».

Gli autori fanno riferimento ai corpi schizo di Masque Teatro e, in altre parti del libro, al corpo in schianto di Motus, in Crash e Catrame da James Ballard, con un occhio alle tavole di Muybridge e all’arte contemporanea, che taglia reperti di realtà fotografica e li trasmuta nella composizione del quadro (Serrano, Pierre & Gilles, Gilbert & George).
È un corpo che sente l’incombere di un’apocalisse, sociale, dell’ambiente naturale, e che prova a ribellarsi, magari costruendo ironici paradisi artificiali con in O.F. ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus. Il senso di una catastrofe incombente diventa, oltre che desiderio di rivolta, accennato o manifestato, proiezione in universi postorganici debitori delle spericolate sfide della body art.

Siamo in quell’orizzonte che è stato definito “Nuovi gruppi degli anni Novanta”, o “Terza ondata” dell’avanguardia. In continenti comunque che abbandonano la vecchia drammaturgia del testo, le vecchie modalità produttive dell’attore interprete e del regista demiurgo per sperimentare in (spesso piccoli) gruppi intersezioni tra le arti sceniche e altri media, con un occhio forte alle ansie generate dal mondo contemporaneo.


Non solo danzare il mondo

In questi tempi di coscienza infelice e di sperimentazioni trova nuove arie la danza contemporanea, italiana e europea. Il movimento è portato a una sapienza, a un virtuosismo estremo. Che non nasce dalla necessità di stupire, ma da uno studio su sé stessi, sul corpo, sulle sue possibilità e sui suoi confini. Uno studio che non si contenta di raggiungere risultati di eccellenza. Perché li mette subito in discussione, analizzando lo slancio e il peso, le resistenze, gli equilibri e le cadute, le rotture, le slogature; astraendo e raggiungendo folgorazioni di bellezza, che poi subito vengono destrutturate da narrazioni critiche, da insinuazioni, da esasperazioni dei limiti.
Il materiale, lo scarto, sono altrettanto importanti dell’acquisizione rifinita. Così come il dubbio, la crisi. Il corpo è mostrato con tutte le sue scorie e bloccato o potenziato dal nemico del movimento felice, il pensiero, quello che introduce questioni, che smonta le apparenze sulle quali non può non basarsi la danza. La stessa musica diventa un reagente chimico, una costellazione di materiali da esplorare, da estrarre dal flusso sonoro nel quale siamo continuamente immersi per saggiarlo con la resistenza o la trasparenza corporea. La parola e la narrazione, come il video e l’installazione artistica, entrano in spettacoli che rifiutano le descrizioni della pantomima, diventando voci dissonanti donate a corpi precedentemente, tradizionalmente, muti. La presenza viva viene costretta dagli spazi, da abitare, da esplorare, da svuotare, da inventare. L’accadimento imprevisto reagisce con percorsi predeterminati, i tragitti coreografici dati si confrontano e scontrano con altri materiali, filmici, narrativi, elettronici, immagini che saturano la nostra visione gonfia di apparenze per saggiare le strade dell’essenzialità interiore.
La nuova danza italiana (nuova da molti e molti anni ormai, in uno dei paesi più gerontocratici del mondo) innesta sulle rovine del balletto classico e moderno un’inquietudine che dai corpi dilaga al mondo, evocando reperti e detriti dell’accumulo mediatico che ci fa volteggiare senza posa, senza pensiero. A differenza di altre nuove scuole coreografiche europee, in genere non rifiuta la maestria del danzatore, il corpo che si misura con le libertà e le costrizioni del movimento. Salvo sorprendenti eccezioni, non si esaurisce totalmente nel concettualismo: ricerca motivi di libertà, di realtà, a partire da quella che una volta era considerata la specificità di quest’arte. Non riesco a dire se è meno radicale di altre neo-tradizioni che virano più decisamente verso il comportamento, la scultura, la performance, il meticciato espressivo, o se rimane abbarbicata per felice intuizione utopica a una differenza che ha reso, da sempre, Tersicore la musa più misteriosa, in fondo profondamente distante, con le sue pose artefatte, dalle seduzioni della mimesi e dell’esplicazione.
Quel modo di fare mondo per allusioni, per salti, per scarti, per resti, per irruzione di materiali fisici e astratti, per studi che saggiano le possibilità del corpo, del nostro esserci e scomparire, nello spazio, nella relazione, non nascondo che esercita un’attrazione fenomenale nell’osservatore semplice come chi scrive. E fa anche paura. Perché si mette alla prova per metterci in questione, senza rete, senza garanzie. È un offrirsi senza rimedio (il semplice non è anche un rimedio naturale a qualche disfunzione?). Non solo perché siamo di fronte e ci raccontiamo reciprocamente, con il movimento e con lo sguardo, l’impossibilità di vivere in una società di apparenze e di solitudini. Ma anche perché ci troviamo davanti a un fantasma doppio: a un gesto che scorre continuamente e che difficilmente possiamo fermare se non in un simulacro di immagine; a un’esperienza profonda che sembra costruita sul vento, perché sappiamo che quello che vediamo non ha case solide dove tornare a rivelarsi.
La danza italiana vive, come il teatro più radicale, principalmente all’estero. Troppo lungo sarebbe l’elenco della diaspora, di quelli che hanno scelto stabilmente di lavorare fuori dall’Italia. Coloro che sfidano in patria un sistema teatrale che sembra non avere luoghi se non precari per la danza, non hanno spazi dove provare, dove creare, dove ospitare, dove sviluppare laboratori e confrontarsi (ma qualche non rara eccezione si è creata da quando nel 2004 scrivevo queste note).
Dissoltisi i corpi di ballo, o costretti a vivacchiare, chiuse per lo più le porte degli enti lirici, la danza, si concentra in qualche centro di produzione o di eccellenza, ma corre (ancora) continuamente il rischio dell’eccezione e dell’estinzione. Accolta in qualche festival, sempre di più in stagioni, ma in modo occasionale e precario, bandita o malamente blandita dalle programmazioni più importanti delle città, vive spesso in non luoghi, creando in piccole stanze costruzioni mentali che appariranno nel momento del debutto, per poi replicare, con fatica, in situazioni quasi sempre di emergenza (è diversa oggi la situazione, da quel 2004?). Il concettualismo della nostra nuova danza sta anche molto qui: nel crearsi nel corpo e nella mente separati, l’esercizio, il passo, il movimento da una parte, il disegno dello spettacolo dall’altra, senza spazi e tempi per maturarsi reciprocamente e dispiegarsi pienamente. Condanna alla genialità di un popolo che continua a inventare nonostante tutte le avversità, professando l’artisticità come una maledizione fatta di sorprendenti felici riuscite e di tonfi inevitabili, senza mai stabilizzare una norma condivisa, una pratica costante, una certezza di condizioni.
La danza si moltiplica. Si “sporca” con il teatro, con il video, si trasforma, dilaga nei festival, inventa condizioni sperimentali, si sposta per le strade con la danza urbana, saggia il circo, si fa laboratorio permanente, azione che inventa formati e varca e ridisegna confini. Uno sguardo ingenuo non può non chiedere attenzione e cura per questo pullulare. E spazio per i grandi artisti che gli anni Ottanta e Novanta hanno prodotto da noi, e che ancora sono costretti, in molti casi, a elemosinare come debuttanti. Non esiste più una nuova danza italiana. Esiste una importante corrente di studio e di invenzione di un’arte contemporanea, che parte da una grande maestria conquistata nei territori del fare, del progettare, del rischiare danzando.


Per fare qualche esempio

Potrei raccontare del progetto multimedia di ALDES e Roberto Castello Il migliore dei mondi possibili. Lo ho già fatto nel volume collettaneo Nel migliore dei mondi possibili (edizioni ephemeria, 2021) e a quel saggio rimando (Maschere mostri suoni voci). Il migliore dei mondi possibili è un ciclo di dieci tra spettacoli e performance, con episodi in cui la danza scorre e con installazioni dove si può scomporre col microscopio un movimento, percorrendo sculture fisiche intrecciate a sequenze di immagini proiettate il loop, in affascinanti labirinti interiori. Il mondo esterno preme, come in La forma delle cose, dove agisce, come nelle sequenze di cadute di Otto di Kinkaleri, di quegli stessi anni degli inizi del Duemila, l’ossessione, l’ansia dell’11 settembre 2001. Ma tutto viene inserito in drammaturgie che alterano lo scorrere ordinato della narrazione, del tempo della vita, con accelerazioni, ritorni indietro, momenti di riflessione e di moltiplicazione dell’immaginario tramite figure o in un loro azzeramento nella stasi dell’assenza.
La parola, il corpo, l’immagine cooperano a un’enorme opera di decostruzione e critica delle apparenze.

Un altro esempio di danza che si mette in discussione, partendo da una critica del mondo quale è, che si va formando nei primi anni Duemila, è quello di Virgilio Sieni, in particolare nelle esperienze che mettono in scena gli amatori, i non professionisti, o gli artigiani, le nonne, adolescenti e bambini e bambine, rivendicando a tutti la possibilità dell’espressione corporea, della felicità coreografica. Si tratta di esiti di laboratori che, incentrati su parole poetiche, narrazioni, mostre del saper fare, miti, lavorando su parti del Vangelo o su anniversari di autori quali Dante o Pasolini, inseriscono il singolo danzante in ampi gruppi, cercando di fare arte del gesto e anche delle difficoltà fisiche di ognuno. Il concetto espresso negli anni dieci, durante la direzione artistica della Biennale Danza di Venezia, è quello di Agorà, di luogo dove diversità si incontrano.

Negli anni di cui parlo (tra i primi Ottanta del Novecento e gli anni dieci dei Duemila) si è visto che la danza è un alfabeto e un linguaggio “praticabile”. Caduto, per crisi del sistema, il muro del giudizio accademico, dello standard scolastico, la danza si è affermata come un (problematico) linguaggio del corpo, che mette alla prova la nostra presenza fisica in primo luogo, la nostra sostanza mutevole, il nostro esserci e provare la realtà; è diventata, così, praticabile fuori dei virtuosismi, come disciplina del sé, quanto mai adatta a questa nostra epoca di disperati e ingenui narcisismi per affermare il fragile bisogno di dimostrare di esserci. Molti ci provano da soli, svanita la necessità di prestazione; molti partono all’avventura dopo un rapporto con un maestro, magari anche breve, ma intenso. Si cercano per le strade dei gruppi, dei laboratori, dei seminari eccetera gli strumenti per un’arte del corpo personale, che spesso mette in dubbio la fiducia stessa nel corpo, quell’illusione novecentesca di poter ricomporre una frattura, cercando nell’esercizio e nello scontro tra diversi linguaggi una dichiarazione di posizione nel mondo. La danza si tramuta in concetto, nel senso di operazione e opzione mentale svolta attraverso il soma. O ritrova la radice della paura e del piacere in quello starci, esserci davanti, cercarsi, trovarsi. Si sogna come indagine d’ambiente, scultura, figura ritagliata o superfetazione, concentrazione di senso o dispersione di sé, slogamento o ricerca di cura. Si esplora come dubbio.
La danza si moltiplica perché, come il proletariato di Karl Marx, non ha nulla da perdere se non quel molto che non ha. È bisogno, utopia, prova; e perciò attrae giovani smarriti cavalieri e nobili damigelle in scarponi e sudatissime canottiere: per esperimentare la necessità di dare altri confini al possibile, per saggiare le menzogne di ciò che illudono come realtà.
È trasformazione, proiezione, moltiplicazione della realtà e astrazione da essa. È quindi, se volete, tradimento, travisamento: ma sappiamo che solo travisandoci si può accedere a quell’altro che è l’io e che è il noi (io è un altro, scriveva Arthur Rimbaud).

 

Massimo Marino

Massimo Marino è saggista, storico e critico teatrale. Scrive per la pagina culturale del “Corriere della Sera” edizione di Bologna e per riviste e pubblicazioni specializzate. Si occupa di problemi del teatro contemporaneo, di temi legati alla critica e alla storia del teatro, di attualità culturale. Conduce laboratori di critica teatrale. Ha insegnato al Dams di Bologna e al Master in Critica giornalistica presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. È docente di Drammaturgia musicale presso il Conservatorio «G.B. Martini» di Bologna.
Tra le sue pubblicazioni: Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Carocci, Roma 2004, vari articoli sul teatro in carcere, Teatro delle Ariette, Titivillus, 2017, Teatro del Pratello, Titivillus, 2019. Coordina la sezione “Teatro” della rivista www.doppiozero.com e il blog del Conservatorio «G.B. Martini» chorusmartini.it.