Il motore della danza è avere un sogno
di Dora Levano
Mentre Roberto Castello mi parlava del convegno che stava organizzando e mi raccontava delle sue prospettive nel lavoro, nell’arte, nella vita, a un certo punto della telefonata gli ho detto: «Queste cose le sto segnando, sto prendendo appunti…». Cito un suo pensiero che, più o meno, risuona così: «Penso a qualcosa come quella che era la logica dell’Avanguardia, immaginare utopie utili a tutti, perché il mondo fosse migliore; […] fili di motivazione che diano valore “politico” all’arte, in questo senso; motivazione che si sta perdendo». Diceva della volontà di stimolare nelle nuove generazioni la coscienza verso queste possibilità, portandole a comprendere anche le esperienze che ereditavano da chi le aveva temporalmente precedute; far capire ai giovani artisti che ci si può formare, lavorare, diventare ‘professionisti’ più che “produttori”, nel senso che il proprio lavoro non sia solo l’assicurarsi un guadagno, ma una competenza d’azione che possa realmente aiutarci a cambiare le cose per il bene sociale attraverso quello che si fa.
Mi capita spesso – lavorando in scuole di Napoli Est – di proporre una domanda agli adolescenti: «Quali sono il tuo sogno più grande e la tua paura più grande?».
Nell’ambiente da cui provengo la risposta sembra più facile sulle paure che sui sogni. Tra le paure ho registrato: fallire, deludere, i ragni, la miseria, qualche serpente (pure se mai incontrato), la solitudine (cosa diversa dallo stare soli, alcuni specificano), essere abbandonati, perdere una persona cara, morire nel sonno. Per i sogni le risposte sono legate spesso a qualcosa di molto concreto: avere un lavoro, riuscire economicamente, soddisfare le aspettative degli altri in questo senso; sono pure sogni che rovesciano quelle paure: «Sogno di non fallire, di non deludere». Poi c’è la famiglia, sia pure non modello, a cui si chiede un riferimento, in questo mondo, che non tradisca. Sul sogno spesso devo insistere per una risposta oltre il “non lo so”; per me che vengo da una generazione di sognatori ciò sembra strano. Non mi dilungo sul perché (socialmente) risulti difficile esprimere una risposta, trovarla, o non si riesca o voglia esprimerla. Una giovane un giorno, dopo aver pensato a lungo, mi ha detto: «Sogno di avere un sogno». Questo è stato davvero interessante.
Torniamo a noi. Quando si cominciò a parlare di “nuova danza”, credo che una caratteristica comune a molti artisti fosse proprio quella di avere dei sogni, nel senso del desiderare di realizzare qualcosa che da loro stessi poteva emergere, che potevano generare, svincolandosi dalla subordinazione a degli schemi; qualcosa che si interconnettesse con l’esistente, con le sue rappresentazioni in senso antropologico, ma che fosse pure originale; che fosse la manifestazione di una ricerca tra il proprio sé, il mondo com’era, com’è, e come lo vorrei, come lo sogno (questo mantenendo il senso del reale, talvolta l’ironia, con tutta la potenza immaginifica, straniante, ma anche con l’imprevedibilità del costruire sogni ad occhi aperti, e del fare qualcosa di vivo; talvolta anche con la difficoltà di una precarietà economica). Attraverso le pratiche artistiche (siamo tra gli anni Settanta e Ottanta con la Nuova danza) ci si poneva di fronte alla possibilità di manifestare il proprio stato di viventi. Ciò necessitava di un riconoscimento, che fosse pure burocratico, se vogliamo. La tendenza ad etichettare queste nuove esperienze fu una risposta (favorevole o meno favorevole). Ma, attenzione alle etichette: hanno la loro utilità nel focalizzare eventi, cose, persone, in un ambiente, traghettarle nell’opinione pubblica e nel tempo storico, quanto hanno un certo limite rispetto alla complessità e alla mobilità dei fenomeni. Una di queste etichette fu Nuova danza. “Nuova” in che senso? Pian piano a “nuova” si affiancò una specie di sinonimo o idea di sviluppo: “danza autoriale”. Ancora oggi sono termini in uso.
Negli anni Settanta e Ottanta erano spesso dei gruppi, dei “collettivi”, a testimoniare questa cifra d’autorialità. “Collettivi”, in un certo senso, come era stato detto già per alcune aggregazioni del “nuovo teatro” con cui i rapporti erano spesso di mutuo scambio, anche d’appartenenza, di provenienza, di collaborazione.
I giovani artisti della Nuova danza (e non solo giovani) erano eredi delle diverse esperienze di “teatro di ricerca” che animavano e circolavano a livello internazionale. Erano eredi delle Avanguardie (sia quelle “storiche” che quelle del dopoguerra); così come delle manifestazioni di danza non più collocabili esclusivamente nei canoni del balletto classico o di altre danze storicizzate; manifestazioni quali: le danze espressioniste, il teatrodanza, la modern dance e la postmodern dance, i gruppi di danza moderna italiana a gestione autonoma (rispetto agli enti lirici) degli anni Settanta, le discipline orientali, le danze africane, lo stesso balletto “moderno”, e così via. Parlo di circolazione e di circolarità d’esperienze a livello sia dei linguaggi, degli strumenti, dei modi, delle pratiche, sia a livello di visioni della vita, delle persone. Il concetto di “contemporaneità” potrebbe essere riformulato rispetto a questa interazione, che c’era, “intergenerazionale” e tra “linguaggi” diversi, culture diverse, individui diversi. Le linee di confine tra cose, i margini, non smettono d’esistere, ma sono come le frontiere, qualcosa attraverso cui si deve passare e che può anche cadere, trasformarsi. A questo punto mi viene da riflettere (e qui fermare il mio intervento) su quali elementi della Nuova danza degli anni Ottanta restano o potrebbero restare, consapevolmente quanto meno consapevolmente, ad animare gli impulsi creativi e le pratiche degli artisti della Danza autoriale di oggi. Alcuni li ho già oggi indicati. Procedo sulla falsariga di miei vecchi articoli.
*Nuova.
Nuova danza ha il senso forte di una proposta dove la “novità” sta nel riconoscere che la danza è non solo il processo stesso del danzare, ma una rigenerazione interminabile. Il lavoro artistico nasce da processi tecnici d’elaborazione scenica e di scrittura del corpo tesi a esperire, riformulare, continuamente il proprio universo di segni, i materiali usati o emersi, le proprie pratiche metodologiche, comunicative, al di là di una rigida cristallizzazione estetica dei codici, di una partitura prestabilita, dell’acquisizione di una tecnica. Il punto d’osservazione si sposta in una dimensione mobile dove generi e comparti artistici non sussistono come imperativi categorici. E dove le persone, direi, se si incontrano, s’incontrano per conoscere ricreando, e per generare qualcosa. L’indagine, la pratica artistica, si colloca in quella zona liminare dove, in modalità diverse, si sospende la settorializzazione delle arti e si attuano contaminazioni, sfaldamenti, arretramenti a un pre-codice, confronti e andirivieni tra quanto di elementale è nel corpo (scenico) e quanto il vissuto, il vivere, il contesto personale, geostorico, sociale, comportano, sedimentano. Siamo in sistemi d’elaborazione artistica che ogni autore costituisce, che si autorganizzano e modificano rispetto alle proprie necessità poetiche, e alle necessità di ogni specifico lavoro, specifico momento, genius loci; e che mirano qui ed oltre.
*Autorialità, o meglio: co-autorialità
L’autorialità si fa percorso condiviso, convissuto, al di là di un possibile o meno gioco di ruoli, di gerarchie (es. coreografo/danzatore, pittore, musicista, tecnico, e così via… – spettatore, aggiungerei). In questo senso nessun danzatore sarà solo esecutore o solo interprete di una coreografia. Si tratta di co-autorialità che si sviluppa in autonomia e in sinergia. Anche laddove un confine tra coreografo e danzatore sussista, nella Nuova danza il danzatore non è mai inteso come l’esecutore o l’interprete (per quanto espressivo e originale) della coreografia costruita dal coreografo o di una coreografia rivisitata, perché è partecipe in processi laboratoriali “attualizzanti” che richiedono per principio una risposta poietica e interattiva agli artisti coinvolti nel lavoro e la loro attenzione sensoriale, il loro spirito critico.
La “messa in danza” è attraversamento di una rete di stratificazioni connesse all’esistenza d’ogni autore. Questa traversata, questo viaggio, non si conclude nel prodotto realizzato, ma nel suo farsi evento per un pubblico che, frontale o direttamente chiamato in causa, va sempre stimolato, va reso partecipante, attivo, più che convinto di qualcosa, più che persuaso. È l’evento, in questo senso, a mettere in campo un potere aggregante (non importa se per consonanze o conflitto); mi verrebbe da dire: ha qualcosa di “democratico”, se non fosse troppo fraintendibile come concetto e troppo umanizzato.
*Improvvisazione.
Potremmo intenderla in vari modi, tutti validi; spesso compresenti.
“Improvvisazione” riferendoci alle diverse metodologie per creare un evento.
Improvvisare direttamente durante la rappresentazione; improvvisare come fase laboratoriale preventiva. […] Improvvisazione, in ogni caso, e in ogni modalità, come stato costante di chi in scena sa che sta attualizzando o riattualizzando, ripercorrendo passaggi creativi.
*Contemporaneità.
La consapevolezza di muoversi in una dimensione contemporanea che è pure, l’ho detto, intergenerazionale, non escludendo il futuro, l’ignoto, se volete, con quel senso di responsabilità che ciò comporta (si parla tanto di sostenibilità), non mancando nello spirito “ludico” dell’arte, fondamentale nella vita per il benessere.
Dora Levano
Nata a Napoli nel 1978. Frequenta il liceo scientifico. Nel 2003 si laurea in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” nel settore spettacolo. Nel 2013 consegue il titolo di Dottore di ricerca in Storia del Teatro Moderno e Contemporaneo all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Ha frequentato corsi di danza. Attualmente insegna Lingua e Letteratura Italiana presso l’I.S.I.S. Archimede di Ponticelli per l’indirizzo “Grafica e Comunicazione”. Si dedica alla scrittura poetica e studia sassofono.