Non esiste una danza “autoctona”, ma spazi di condivisione

di Fabio Acca

Martha Graham in "Strike"
Martha Graham in “Strike”, primi del XX secolo. Foto di Soichi Sunami © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS. Da: https://photographmag.com

PASSATO

È importante fare una premessa, per situare lo sguardo di chi parla in un orizzonte specifico di indagine. I concetti di danza e coreografia sono, infatti, molto vasti e storicamente dettagliati ed è dunque opportuno cogliere il punto di osservazione quando si parla di questi fenomeni.
Per motivi del tutto personali, il mio è uno sguardo parziale e non totalizzante, interessato da anni soprattutto alla danza che potremmo definire “d’autore e di ricerca”, ed è dunque da questa prospettiva che il mio discorso prende le mosse. Questo punto di vista, evidentemente, non esaurisce la danza contemporanea italiana come fenomeno, ma ne coglie semmai alcuni accenti che reputo significativi e importanti.

Posso dare inizialmente qualche spunto rispetto alla cornice storica proposta per questo primo incontro, a rivelare una genealogia che ci porta a pensare alla possibilità di individuare una danza contemporanea italiana a partire dagli anni Ottanta. Anche se l’aggettivo “italiana” è in realtà una parola abbastanza problematica sul piano storico, se dunque esista o meno una danza contemporanea italiana, cosa l’ha connotata alle origini e cosa la connota oggi. Si tratta di una domanda ancora molto aperta, perché effettivamente se da un lato possiamo coglierne una specificità nei rapporti con le istituzioni, nelle estetiche e nella realtà degli artisti che popolano il panorama coreografico italiano, dall’altro non sono pienamente riconoscibili delle matrici “autoctone” che la contraddistinguono rispetto ad altre tradizioni del contemporaneo.

Infatti, se osserviamo il primo vero tentativo di emancipazione politica della Nuova Danza italiana – in una logica di non troppo singolare simmetria con le vicende del Nuovo Teatro e del Convegno di Ivrea, e in una prospettiva di consolidamento percettivo da parte del pubblico e soprattutto delle istituzioni – coincide con il Manifesto del 1992 Danza come Arte Contemporanea. Elaborato nel corso di alcuni incontri dai firmatari (Donatella Capraro, Compagnia Efesto; Enzo Cosimi – gruppo Occhésc; Lucia Latour, Altroteatro; Massimo Moricone, Teatro Koros; Marcello Parisi, Compagnia Efesto; Giorgio Rossi; Virgilio Sieni), voleva essere soprattutto una dichiarazione artistica di indipendenza e una denuncia dei disagi su alcuni aspetti della politica culturale italiana verso quella che a quell’altezza cronologica era stata battezzata “danza d’autore”. Ebbene, in questa cornice di rivendicazione e auto percezione, il documento parla di una identità italiana allargata, declinata in relazione alla cultura del mediterraneo.


A partire dagli anni Ottanta, nasce dunque una generazione di artisti che non si misura tanto con una specificità italiana della danza, ma ragiona soprattutto in una dimensione di contaminazione internazionale. Questa generazione si catalizza non tanto intorno a valori ed esperienze che trovano in Italia un loro specifico carattere estetico, ma perché osserva con grande interesse le dinamiche internazionali che già dagli anni Sessanta agiscono in maniera potente e che diventano delle cornici di pensiero, di estetica, di modalità di osservare e reinterpretare la tradizione della danza stessa, di abitare la danza attraverso nuovi principi di scrittura scenica. Non è un caso che molti degli artisti protagonisti di quegli anni in Italia, coreografi o danzatori, si siano formati prevalentemente all’estero o a contatto con maestri internazionali, e abbiano riportato quelle esperienze nel proprio lavoro. Potremmo individuare almeno tre insiemi: il teatrodanza tedesco; la danza contemporanea americana, nelle sue linee che da Cunningham, a Nikolais, alla postmodern (Ryner, Brown, ecc.) si propongono come patrimonio di riferimento; la Nouvelle Danse francese. Sono queste tre polarità che costituiscono il bacino di maggiore interesse della generazione degli anni Ottanta. In queste tre polarità c’è molto, quasi tutto ciò che animerà, nelle stagioni anche successive agli anni Ottanta, la danza contemporanea italiana.

Nella tanto piccola quanto bella mostra che il Mambo di Bologna ha dedicato recentemente a Yvonne Ryner, c’è già, per esempio, l’idea che oggetto di attrazione coreografica possa essere una palla che rotola in uno spazio neutro, oppure una mano che si muove su uno sfondo bianco senza alcun riferimento all’intensità espressiva e individuale di un soggetto danzante. Si tratta di opzioni che ancora oggi, in altro modo, troviamo nelle creazioni di quegli artisti che spingono l’acceleratore sul piano della ricerca. E che ci inducono a riposizionare le nostre categorie.

Inoltre, la danza contemporanea italiana, per lo meno quella non legata alla reinvenzione del balletto e delle contaminazioni con la sua tradizione anche in chiave modern, nasce ibrida, o anfibia, come spesso ho avuto modo di ricordare in altre occasioni. Chi da anni si occupa di questo ambito della scena si ricorderà, ad esempio, il progetto R.I.C.C.I. curato a partire dal 2010 da Marinella Guatterini, dedicato alla rigenerazione di una memoria della danza contemporanea italiana attraverso la riproposizione di creazioni che, prevalentemente tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno costituito un patrimonio importante e iconico di saperi. Ebbene, tra le ultime proposte spiccano Tango Glaciale, di Falso Movimento, con la regia di Martone; e La rivolta degli oggetti, di La Gaia Scienza. Entrambe le creazioni non nascevano come spettacoli di danza, piuttosto come operazioni che mettevano insieme quelle istanze di trasformazione della scrittura scenica, all’insegna vuoi della contaminazione con l’immaginario pop e tecnologico di quegli anni, vuoi con la relazione sempre più stretta tra gesto, azione, parola e immagine, con al centro il corpo, oggetto e soggetto della nuova spettacolarità che caratterizzava il teatro italiano di ricerca. Per comprendere le radici della danza contemporanea italiana è dunque necessario vincolarla anche a un punto di ibridazione profonda col Nuovo Teatro.

In ogni caso, per capire la nascita e l’evoluzione, fino a oggi, della danza contemporanea italiana, è indispensabile attivare una analisi che contempli non solo le estetiche artistiche, ma anche le trasformazioni avvenute sul piano del riconoscimento istituzionale e relative economie. Sia sul piano nazionale sia nel rapporto con i territori regionali, e quindi come le politiche locali ne hanno interpretato i valori e i processi in rapporto alla politica nazionale.

Proviamo a dare anche qualche data. Nel 1985 nasce il FUS, il fondo unico per lo spettacolo, ma la danza nel FUS non esiste. O meglio, esiste nella misura in cui è ancorata alla musica. La riconoscibilità istituzionale (e dunque il riscontro economico) della danza passa attraverso il fatto che viene finanziata in rapporto alla musica. Sarà solo nel 1997 che ci sarà un affrancamento istituzionale, perché la maggiore istituzione culturale italiana, ovvero il Ministero della Cultura, possa individuare la danza con una sua specificità disciplinare e quindi economica.


Nel 1989, è tramite una circolare ministeriale che 13 compagnie vengono riconosciute come “complessi sperimentali”, su scala nazionale, in una percezione istituzionale dove non esiste ancora lo spacchettamento di azioni a cui noi oggi siamo abituati. A quel tempo esisteva sostanzialmente l’idea che “il portatore sano” della danza rispetto all’istituzione dovesse essere la compagnia. Sarà solo alla fine degli anni Novanta che, grazie a delle pressioni dal basso, il MIC recepirà progressivamente gli impulsi nati dagli artisti e dai territori al fine di articolare diversamente le necessità progettuali e autoriali di chi opera nel settore della danza.

Un terzo livello di analisi per comprendere i processi sottesi alla nascita e all’evoluzione della danza contemporanea italiana sarebbe è quello legato alla critica. Così come per il Nuovo Teatro italiano è nata una Nuova Critica che raccontava i processi e che si faceva interprete di quello spazio di relazione tra artisti e comunità. Ebbene, bisogna interrogarsi sulla critica, su quale critica ha reso possibile il racconto di quegli anni, e come essa si è trasformata, non senza problemi, fino a oggi, nell’evoluzione sistemica del contesto in cui la critica oggi opera. Anche nei rapporti tra quest’ultima e l’Università, in relazione ai temi dell’interpretazione dello spettacolo dal vivo e della sua memoria. Ricordiamo che in particolare il DAMS di Bologna è stato il primo corso di laurea in Italia, nato nel 1971, dedicato alle discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, in cui la componente teatrale e performativa aveva un ruolo strategico.


PRESENTE

Parto dal presente, per poi magari andare a ritroso. Oggi la danza e la coreografia sono oggetto di un vivacissimo confronto tra studiosi. Al centro di questo dibattito si colloca l’idea che la danza sia un fenomeno estesamente culturale, cioè qualcosa che comunica al di là della sua specificità, al di là delle tecniche che ne regolano la creazione, diventando così qualcosa attraverso il quale interpretare delle dinamiche politiche e sociali, più ampie dell’orizzonte disciplinare nel quale la danza si colloca. In questo senso, ritengo interessante condividere una dichiarazione del 2020 di Vito Di Bernardi, storico studioso della danza in Italia e fondatore insieme a Eugenia Casini Ropa della disciplina in ambito accademico: «Si corre […] il rischio che la riflessione sull’arte della danza di oggi (come quella di ieri, per effetto retro-attivo) venga assorbita dalle analisi culturologiche, socio-mediologiche o altrimenti ideologizzate, a discapito di quelle di pertinenza più specifica come l’analisi estetica e storica dello spettacolo dal vivo». Di Bernardi ci dice, dunque, che oggi si sta correndo un rischio molto forte, quello di far evaporare la collocazione della danza in un orizzonte di riconoscibilità disciplinare. Perché sono così tante le convocazioni disciplinari “altre” dalla danza, che ci si allontana da quello che è lo specifico della danza e, di conseguenza, dalla sua corretta lettura.

Ma cos’è la specificità della danza? Quante volte ci siamo posti questa domanda, nell’osservare le creazioni contemporanee soprattutto delle ultimissime generazioni, dove la danza è sempre più “esausta”, sempre più messa in discussione come rapporto tra movimento del corpo e creazione.

Per ragionare su questo aspetto, vorrei ricordare dove eravamo qualche anno fa, nel 2020. Eravamo in piena pandemia, e la danza, durante i mesi che ci hanno visti costretti a stare chiusi in casa, è stata l’arte che più di tutte ha problematizzato il momento storico che stavamo vivendo, con anche forti pulsioni antagonistiche. Perché si è fatta portatrice dei rapporti di prossimità che regolano le relazioni tra individui e la vita sociale, soprattutto negli spazi pubblici che si concentrano nella dimensione urbana delle città. La danza, nella percezione collettiva, ha assunto anche in alcuni casi una funzione conflittuale, nel desiderio di ricucire, nel contesto urbano, il rapporto con quello spazio dell’esistente che potremmo definire “solido”, in contrapposizione all’escalation dei rapporti immateriali istituiti e mediati dall’uso di dispositivi tecnologici e in virtù del distanziamento fisico e sociale. Cioè, improvvisamente si è palesata la possibilità che potesse esistere un mondo “senza danza”. E questo non era l’esito di un viaggio distopico e fantascientifico, era un dato di realtà.

Ci sono stati tanti casi, più o meno mainstream, in cui la danza si è fatta interprete di una critica dell’esistente, per richiamare l’esigenza di ritornare quanto prima a una dimensione di prossimità e riconquistare lo spazio della realtà: attraverso decine di flashmob, per esempio, oppure con azioni più piccole e meno spettacolari come le danze clandestine di Cristina Rizzo.

Questo ci dice che la danza oggi è qualcosa di più del suo specifico, riguarda la possibilità di uscire dal suo specialismo per generare delle domande sulla realtà. Fino a porsi come condizione di svelamento, per esempio, di cosa c’era veramente in gioco durante la pandemia, che oltrepassava la questione sanitaria per divenire un’azione di carattere politico. Non un politico ideologizzato, semmai post-politico e post-ideologico, e in quanto tale oggetto culturale al di là della sua presunta specificità tecnico-disciplinare.

Con un ribaltamento concettuale, se abbiamo sperimentato che cosa può essere un mondo senza danza, può esistere una danza “senza mondo”? Sì, la possiamo intendere nella misura in cui pensiamo alla coreografia e alla danza come un universo dell’estetico che esiste e resiste malgrado il mondo. In altre parole, tutte le forme di scrittura corporea che negano l’approccio culturale, come un’arte tarata su competenze esclusive e non disponibile alla esperienza diffusa della conoscenza come pratica della percezione e dell’incorporamento. Se noi pensiamo che la danza debba essere riconoscibile in una condizione esclusivamente radicata nelle tecniche e nelle competenze ascrivibili alla stessa danza, cioè in una filiera riconoscibile, anche del contemporaneo, escludiamo la possibilità di accedere alla danza a quello che in realtà è: qualcosa che ci mette nelle condizioni di “navigare” il mondo. Perché è nel mondo, cioè nel principio di incorporamento e di lavoro sulla percezione che la danza contemporanea oggi lavora.

In questo senso, faccio mie le parole di Alessandro Pontremoli, che afferma che la danza «è un’arte quando produce opere che si configurano come una particolare messa in forma dell’esperienza. […] Un coreografo iscrive infatti sul corpo dell’interprete la sua azione artistica per renderla sociale e condivisibile, affidandola a un supporto memoriale (il corpo appunto) che non solo porterà sulla scena tale iscrizione, ma ne diverrà un archivio vivente».

È soprattutto questa la dimensione in cui – più del teatro, oggi – opera la danza contemporanea italiana d’autore e di ricerca, sull’embodiment, sulla a-specificità e la paradossale capacità che ha di aprirsi alle grandi domande del mondo e del reale, e all’idea che il corpo sia un mezzo di archiviazione di segni potentissimo. Assolutamente oltre l’impostazione che vuole la danza vincolata alla trasmissione di saperi generata dai maestri, sostituiti sempre più spesso da esperienze e impulsi alle volte anche molto personali, oppure più semplicemente dalle infinite possibilità che la rete, per esempio, ha di creare connessioni e rendere possibile l’accesso a fonti plurime, rielaborate attraverso processi corporei.

Questo posizionamento della danza come oggetto culturale complesso possiamo rinvenirlo retroattivamente in quella cerniera che va dagli anni Novanta agli anni Zero. In quella dimensione della danza “indisciplinata” che si configurava al tempo come zona di confine fra le arti sceniche. La scrittura coreografica in quegli anni si caricava di una concezione critica ed elastica del performativo, senza tuttavia rinunciare a valori riconducibili a una sensibilità direttamente organica al sistema della danza.

Sono gli anni in cui in Italia viene definitivamente portata a sistema la nozione di “danzautore”, introdotta all’inizio degli anni Novanta in virtù della urgente necessità dei coreografi di sviluppare metodi di scrittura sempre più personalizzati, non necessariamente come esito di una tradizione riconoscibile, ma cercando sempre più di indagare un linguaggio che nascesse dal corpo stesso del danzatore/autore. Per tanti anni questa idea è stata un importante grimaldello interpretativo che ha tradotto le originalità e le necessità espressive di più di una generazione, che sottoponevano il proprio corpo, e quanto il corpo emanava in termini di senso, a forme di indagine coreografica. Ma nelle ultime ondate si è presentato per certi versi il superamento di questa nozione, per ampliare anche la libertà stessa d’azione dell’artista, andando a cercare delle connessioni performative sempre più estreme. Per esempio, lavorare da un punto di vista coreografico sul principio del salto della corda, quanto si inscrive nella dimensione della danza piuttosto che della coreografia o della performance?

Ecco, dobbiamo forse fare anche questo passo concettuale, oggi dobbiamo sempre più parlare di coreografia piuttosto che di danza. Dove non è lo spettacolo-evento del danzatore, o del mover, cioè di “chi si muove”, a esaurire la dimensione esperienziale, ma è qualcosa di più ampio e articolato che riguarda il posizionamento dell’autore rispetto ai saperi corporei ingaggiati e alla modalità con cui questi vengono elaborati e condivisi in contesti e ambienti relazionali non esclusivamente funzionali alla spettacolarizzazione del corpo.

Tale approccio è stato così rilevante da condizionare anche i cambiamenti legislativi che regolano la ripartizione a livello nazionale e regionale delle risorse pubbliche e la modalità con cui le istituzioni leggono i processi “autoriali” legati alla danza. Infatti, a partire almeno dal 2007 e poi in particolare nel 2014 e fino ai giorni nostri, sono nati “dal basso” degli impulsi che hanno contribuito a una riflessione intorno alla ripartizione delle risorse relative al comparto danza del FUS, inteso come pluralità di azioni (circuitazione, promozione, formazione, produzione, ecc.) ispirate a criteri di riconoscimento della qualità, dell’innovazione, del riequilibrio territoriale, del coinvolgimento delle forze sociali, ecc.

In conclusione, credo che per leggere la contemporaneità si debba davvero abbandonare il termine ombrello “danza”, a favore di un concetto più ampio, inclusivo e allargato, che ha nel “coreografico” il proprio punto di fusione.


DIBATTITO

Per capire i processi di cambiamento che hanno pervaso la danza e il teatro di ricerca in Italia, non possiamo non fare un discorso che potremmo dire “antropologico”, rispetto a come sono mutate le necessità degli artisti e delle artiste e il loro modo di agire.

Come giustamente accennava Valentina Marini, bisognerebbe sempre mettere in campo una riflessione rispetto al tema degli spazi e come questi hanno fecondato i processi artistici. Ciò però non significa interpretare gli spazi come dei contenitori, ma come ambienti nei quali una “scena” ha la possibilità di prodursi ed emergere. Per esempio, le “cantine romane” degli anni Sessanta e Settanta non erano degli spazi, erano contesti di elaborazione politica e culturale; il Link a Bologna, nato negli anni Novanta su impulso del movimentismo giovanile generato a partire dalla Pantera e come espressione dell’onda lunga del Settantasette bolognese, è stato lo stesso, un ambiente sintonizzato con altre realtà analoghe a livello europeo in cui si elaborava l’immaginario collettivo di una generazione, incubatore di Teatri Novanta e di una percezione performativa del teatro italiano (da Motus a Kinkaleri a Fanny & Alexander ecc., sono tutti passati da lì…). È in questi contesti che uno spazio si trasforma in un vero laboratorio di idee, nato in rapporto a un lavoro collettivo e legato a una visione politica del fare artistico. L’Angelo Mai a Roma è forse una delle ultime realtà di questo tipo.

Fino a un certo punto in Italia sono esistiti degli spazi indipendenti e dei contesti di elaborazione collettiva legati al fare artistico come espressione del politico, ideologico e post-ideologico. In principio, nella loro fase pionieristica, con un forte tratto antagonistico rispetto alle politiche di stampo capitalistico e neoliberista e alle istituzioni dei propri territori di riferimento, per poi in seguito aspirare a un progressivo riconoscimento, sebbene sempre in un difficile equilibrismo tra salvaguardia dell’indipendenza e integrazione istituzionale. In Europa, soprattutto al nord, diversamente che in Italia, c’è una capacità di dialogo e di accoglienza di tali realtà; nel nostro Paese, invece, c’è un momento – e sarebbe interessante indagarlo – in cui l’istituzione ha attivato un processo di cattura del Nuovo. Se prima il Nuovo si autodeterminava in questi ambienti grazie soprattutto alle urgenze e allo spirito delle nuove generazioni, oggi e almeno da 10/15 anni ci troviamo in una fase inversa, in cui è l’istituzione che si occupa immediatamente dei giovani, indirizzandoli da subito verso un contesto pacificato ad essa funzionale. Il giovane, dunque, al netto di alcuni, pochi, percorsi di co-progettazione e di reale salvaguardia produttiva, viene perlopiù interpretato come una “risorsa”, l’under 35 diventa il principale destinatario di presunte opportunità: attraverso i bandi e tutti gli strumenti oggi a disposizione, tecnici ed economici.

Questo depotenzia la spinta generazionale che prima si affermava nella conquista di uno spazio di relazione, nella creazione di un ambiente, nell’indicare un luogo prima inesistente nel quale costruire qualcosa che equivale a una espressione collettiva e generazionale, in rapporto a un territorio e a un contesto sociale. Oggi il “giovane” non è più portato ad occupare uno spazio ma a entrare in un meccanismo tendenzialmente soggettivo e immediatamente produttivo, alienato e autoreferenziale. L’imperativo categorico è: partecipare al bando! Lo strumento principale che, secondo me, da molti punti di vista ha svuotato di senso l’interesse dei giovani a ragionare invece sulla realizzazione di un ambiente che si colloca anche in uno spazio fisico, e che da lì crea una complessità di connessioni, relazioni, estetiche, politiche, risorse nella misura in cui intercetta e interpreta i valori di una generazione.

 

Fabio Acca

Fabio Acca è curatore, critico e studioso di arti performative. Dal 2001 al 2022 ha svolto attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo (poi delle Arti) dell’Università di Bologna. Dal 2022 è ricercatore presso il dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, dove insegna Teatro sociale. Ha pubblicato articoli, saggi, curatele e monografie, in un orizzonte di interessi centrato soprattutto sugli aspetti storici del Nuovo Teatro e della Nuova Danza in Italia. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Fare Artaud. Il Teatro della Crudeltà in Italia 1935-1970 (Editoria & Spettacolo, 2019); Scena anfibia e pratiche coreografiche del presente (in “Culture Teatrali”, n. 30, 2021); con Lucia Amara, Danzare con le gambe e con la testa. Scuola, ballo e composizione nell’arte coreografica di Claudia Castellucci, in “Acting Archives”, n. 25, 2023).