Cronaca di un convegno sulla danza e sul senso del tempo

di Rodolfo Sacchettini

Valeska Gert Atelier Leopold, München 1918
Valeska Gert Atelier Leopold, München 1918

Il 6 e il 7 settembre tra Capannori e Porcari si è tenuto il convegno «Il senso del tempo – Danza contemporanea, 40 anni di movimento», organizzato da ALDES in collaborazione con AIDAP e con la collaborazione del Comune di Capannori. Un’occasione importante per provare a ricostruire e a condividere, in maniera dialogica, la linea che connette il presente con il contesto storico e culturale in cui è nata la danza contemporanea italiana negli anni Ottanta. Le sessioni di lavoro si sono aperte con gli interventi di Massimo Marino, Dora Levano, Fabio Acca, Gaia Clotilde Chernetich, introdotti e moderati da Roberto Castello, a cui sono seguiti momenti ampi di discussione e dibattito. Erano presenti i rappresentati di: Balletto del SUD, BTT – Balletto Teatro di Torino, COB Compagnia Opus Ballet, Compagnia Art Garage, Compagnia GDO/UDA, Compagnia Zappalà Danza / Scenario Pubblico Centro di Rilevante Interesse Nazionale, Company Blu, Estemporada, KinesiS Contemporary Dance Company, Nexus, NINA, Pin Doc, Spellbound Contemporary Ballet, VAN, ZEBRA e ALDES.

Tornare agli inizi è un ottimo modo per ragionare sulle questioni essenziali e formulare le domande primarie. Nel caos del contemporaneo potrebbe funzionare da bussola. L’apertura di Roberto Castello a queste due giornate di studio suona quasi come un’esortazione: cercare di capire l’origine della danza contemporanea in Italia, per comprendere meglio le trasformazioni del presente, interrogarsi sulla sua condizione di emarginazione, per trovare il modo di farla uscire da quell’angolo di quasi irrilevanza in cui sembra relegata.
Naturalmente il gioco dei raffronti può essere pericoloso. Soprattutto se le parole d’ordine sono utopia, sogno, immaginazione. L’attuale presente sembra declinarle tutte al contrario: distopia, incubo, pesante realtà. Dora Levano porta l’esempio di un suo giovane studente di scuola che le ha confessato di «sognare di avere un sogno». Come se tutto fosse bloccato e irrigidito. Impossibile sognare, nel senso di prefigurare un’immagine, proiettarsi nel futuro. La danza contemporanea italiana nasce però non nei magnifici anni Sessanta, decennio di utopie, e nemmeno nei Settanta, decennio dell’io, secondo Tom Wolfe, e di tragici conflitti. Bensì nell’edonismo degli anni reaganiani, dei weekend postmoderni di Tondelli, nel pensiero debole di Gianni Vattimo. Un decennio comunque complesso, che non deve essere appiattito, secondo Massimo Marino, in formule, pur se convincenti, sempre un po’ abusate. Gli anni Ottanta sono ad esempio il periodo durante il quale arriva Pina Bausch in Italia e un gruppo di giovani danzatori compie una serie di esperienze internazionali. La scia lunga del Nuovo teatro dura negli anni e si intreccia con la danza autoriale. A emergere non è il singolo danzatore, ma piccoli collettivi, perché è opinione comune che la crescita personale non possa essere svincolata da una condivisione di gruppo. L’invenzione di un linguaggio passa attraverso pratiche e metodologie che, in linea di principio, non invecchiano. Rimane tuttavia ancora oggi valida l’idea che il danzatore, nel suo percorso, anche se lavora da solo o come interprete, non sarà mai un mero esecutore: «cercare di essere un evento, con la matrice culturale degli happening», ricorda Levano, «e non la rotella di un prodotto commerciale». Deve essere una traversata in un campo vivo di apprendimenti e di scambi energetici. L’improvvisazione rimane un’area d’azione fondamentale: improvvisazione come fase processuale, improvvisazione durante la rappresentazione, improvvisazione come rigenerazione dello spettacolo. La possibilità di creare qualcosa di originale con le tecniche del contemporaneo è l’eredità più importante che lasciano gli artisti degli anni Settanta e Ottanta, insieme alla consapevolezza dello spirito ludico e a un certo benessere, dimensioni fondamentali di cui oggi troppo spesso ci si dimentica.
La spinta del “nuovo” arriva come vento che soffia dagli anni Sessanta, ricorda Marino, dagli «assalti alla cittadella del teatro» a una serie di punti fondamentali su cui insistere, tra cui la forza del gruppo e la centralità del corpo. I fili tra la scena degli anni Sessanta e la nuova danza degli anni Ottanta esistono e sono più forti di quanto appaiono. Ovviamente gli immaginari mutano e si mescolano con nuove sensibilità. Negli anni Ottanta c’è una vera e propria ossessione del corpo: quello più narcisistico ma anche il corpo ferito e marginale. Esemplare secondo Marino è l’Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio, rappresentato come un mollusco senza parole che scrive con deiezioni organiche. Una sorta di patriarca autistico della scena degli anni Novanta, segnata dal post-organico e dai personaggi nullificati di Beckett. Una ricchezza di percorsi artistici che riformula l’idea di corpo. Ma tutto questo come ha inciso? Ha avuto un influsso positivo sulla danza? Negli ultimi vent’anni è aumentato lo spazio della danza? Secondo Castello la danza è rimasta fortemente minoritaria, perché si vive in una società strutturata sulla scrittura, mentre la danza si trasmette oralmente ed è lì che risiede il suo valore e la sua fragilità. La danza è poco rilevante anche nei media storicamente dedicati alla cultura ed è per questo che bisognerebbe aprire uno spazio di riflessione critica per organizzare un pensiero specifico. Secondo Marino invece negli ultimi vent’anni, anche solo a guardare i programmi dei festival, la danza è cresciuta moltissimo, soprattutto se si vanno a individuare gli incroci con altre arti e valorizzando l’aspetto “indisciplinato” di quest’arte, come scriveva agli inizi del Duemila il critico francese Jean-Marc Adolphe. Anche se il nuovo secolo è stato segnato dalla scomparsa di molti corpi di ballo, la danza contemporanea si è diffusa in tanti ambiti, coinvolgendo ad esempio non professionisti di tutte le età, come nel caso dei progetti di Virgilio Sieni. Pure negli studi accademici si sono verificate delle aperture significative. Levano ricorda che quando, una quindicina di anni fa, chiese la tesi di dottorato sulle origini della danza contemporanea fu un problema, mentre oggi si parla abbastanza di frequente di “corpo scenico”. Fabio Acca ricorda che pure sul fronte dei finanziamenti l’autonomia della danza all’interno del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) è relativamente recente: nel 1997, dodici anni dopo la sua istituzione. D’altronde la danza contemporanea è un’assoluta novità nel panorama italiano e la nuova generazione degli anni Ottanta in realtà ha una genealogia tutta straniera, riconducibile a tre aree ben distinte: teatro danza tedesco, scena americana, “nouvelle danse” francese. Secondo Acca la scena degli anni Ottanta è molto ricca e piena di incroci possibili, compresi quelli con la scena teatrale italiana. Non è un caso che nel progetto RIC.CI a cura di Marinella Guatterini sia stato riproposto Tango glaciale, spettacolo iconico degli anni Ottanta, ma non legato alla danza, bensì alla nuova spettacolarità, con una cura però molto particolare al movimento e al corpo.
Forse la differenza più saliente che si riscontra in un difficile parallelismo con il presente è il ridimensionamento della controcultura e di luoghi più selvatici, a causa di un processo di forte istituzionalizzazione che ha permesso dal 2015, cioè con la riforma dei finanziamenti allo spettacolo dal vivo, secondo Valentina Marini, un riconoscimento della danza, ma ha determinato pratiche sempre più produttive e aziendalistiche, lasciando poco spazio all’imprevisto e a ciò che esce fuori dai margini definiti. Sembra impossibile oggi parlare di danza senza inserirla in una cornice più ampia che comprenda le logiche delle istituzioni e i cambiamenti sociologici, come ad esempio la necessità crescente di associare la pratica artistica a una finalità sociale, nell’ottica di welfare culturale. Secondo Acca, che cita Vito Di Bernardi, la danza rischia di essere affrontata sempre di più come oggetto culturale piuttosto che nella sua specificità di linguaggio artistico. Danza e mondo è un binomio ormai inscindibile, come ha dimostrato la pandemia, periodo durante il quale la danza è emersa come espressione per ricucire uno spazio di prossimità, di vicinanza fisica, a tratti anche in maniera antagonista. La novità degli ultimi anni deriva forse dal presentare il corpo del danzatore o della danzatrice come “archivio vivente”, cioè portatore di segni, immagini, suggestioni culturali… La principale fonte è il web, per cui di solito i riferimenti procedono in modo orizzontale, senza particolari gerarchie, con un intreccio di rimandi che non ha più senso rinviare a una cultura “alta” o “bassa”, perché tutto è mescolato e sovrapponibile, al massimo si distingue un’area “mainstream” da un’area più “minoritaria”. Questa natura anfibia della danza, capace di assorbire anche linguaggi artistici e codici differenti, secondo Acca è riconducibile proprio al periodo tra gli anni Novanta e gli anni Zero, una cerniera culturale, nella quale entra anche una più netta dimensione performativa che spinge oggi a parlare più propriamente di progetto coreografico che non di danza.
Dagli anni Novanta agli Zero il panorama è assai cambiato. La crescita istituzionale, secondo Gaia Clotilde Chernetich, invece di favorire in molti casi ha creato ostacoli. Certe aree sono rimaste separate come le scuole di danza, un bacino enorme di giovani e giovanissimi che molto spesso non dialogano con la scena contemporanea, ma sembrano vivere dentro bolle autoreferenziali. E l’autoreferenzialità anche nel caso di alcuni danzatori sembra paradossalmente l’unico appiglio a disposizione. All’inizio del percorso i danzatori, lavorando spesso da soli, hanno come unico referente il proprio corpo ed è abbastanza naturale che le riflessioni rimbalzino a volte in maniera chiusa e limitata. Maneggiare troppo presto la parola “io” può essere controproducente. Anche se è un “io” che immediatamente viene “socializzato” e “mediatizzato”. Negli ultimi anni però ci sono state anche nuove strade di grande importanza, riconosciute in tutta Europa come eccellenze tipicamente italiane, ad esempio quelle legate alla disabilità. Anche se, sempre secondo Chernetich, ormai ha poco senso parlare di “danza italiana”, visto che si ha a che fare con una generazione che fin da subito ha cercato e continua a cercare sponde internazionali.
I due giorni di seminario non potevano non finire con una seria discussione sul ricambio generazionale, questione quanto mai delicata in tutti i settori del nostro paese. La danza senza corpi freschi non può vivere. Ma da più parti si sente la mancanza di un discorso organico per offrire non occasioni sporadiche, ma affidare responsabilità a una o più generazioni di giovani. Quello che manca sembra una complicità anche tra artisti, mentre prevale una forte competizione. In generale il vento che soffia è quello ovunque di uno “spensierato nichilismo”, si preferisce condurre lotte individuali e con poca convinzione, dal momento che il sistema sembra inscalfibile. Pensare ai giovani significa fare uno sforzo di immaginazione e di progettazione: dove mi troverò tra dieci o vent’anni? Cosa potrò fare? Cosa sarà giusto fare? Domande che possono fare male, ma che servono a portare avanti una discussione necessaria sul passato, sul presente e sul futuro. Tre dimensioni da tenere assieme e da interrogare, non da soli, ma in gruppo, come in questi due giorni ricchi di riflessioni.

 

 

Rodolfo Sacchettini

Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Firenze, Documentario audio alla Naba di Milano e Musica, media e tecnologia al Conservatorio di Bologna. La sua più recente pubblicazione è “Il teatro dentro la Storia. Opere e voci dalle Torri Gemelle alla pandemia” (Anthology Digital Publishing, 2023).