Conservazione, rappresentazione e potere

una conversazione tra Giulia Grechi e Andrea Staid

La Gioconda di Leonardo da Vinci al Museo del Louvre di Parigi. Foto di Mika Baumeister, unsplash.com
La Gioconda di Leonardo da Vinci al Museo del Louvre di Parigi. Foto di Mika Baumeister, unsplash.com

Giulia Grechi è un’antropologa attiva nel campo degli studi decoloniali, tra le voci più autorevoli di quel processo di decolonizzazione che, tra ritardi e colpevoli amnesia, sta interessando l’Europa e anche il nostro paese. Nel 2021 ha pubblicato per Mimesi Edizioni un volume intitolato proprio «Decolonizzare il museo», dove si è concentrata sui rapporti tra museo, identità nazionale e colonialismo, rintracciando gli elementi di continuità che le istituzioni del presente conservano, spesso iscritte nella propria identità più profonda, con il passato coloniale. Di questo studio, presentato in varie sedi, ha discusso anche con Andrea Staid, anche lui antropologo (che più volte è intervenuto negli approfondimenti di «93%»). Per gentile concessione di entrambi riportiamo qui una trascrizione di quella conversazione.

 


ANDREA STAID: Giulia perché secondo te il museo è un luogo cruciale per il dibattito culturale odierno? Nell’epoca contemporanea potrebbe sembrare un luogo residuale, invece dal tuo studio si evince in modo evidente come il luogo “museo” sia paradigmatico dal punto di vista dei rapporti di potere.

GIULIA GRECHI: Questo libro nasce da un’esigenza: cominciare a porsi delle domande su quello che abbiamo intorno nella nostra società contemporanea. Interrogarsi sui nodi, sulle urgenze, sulle difficoltà di pensare e di vivere in questo presente, che è un presente acceso di conflitti ma anche di possibilità, di contaminazioni e di sperimentazioni. I musei sono un luogo cruciale se vogliamo interrogarci sulla nostra identità contemporanea, non solo a livello individuale ma a livello collettivo e comunitario, in un momento in cui la narrazione basata su un discorso nazionale o nazionalistico da un lato si accende di nuovi sovranismi (o appunto nazionalismi), dall’altro lato si situa invece un discorso transnazionale potente, che agisce a livello politico e culturale.
Perché i musei sono un luogo cruciale per interrogarci sulla nostra identità? Perché sono uno dei dispositivi che hanno contribuito all’edificazione di questa identità. I musei nascono con la vocazione di riempire di contenuti un’identità immaginata che è la “nazione”, e lo fanno attraverso la relazione tra spazio, oggetti e corpi delle persone. Parlo dei musei in generale, non soltanto di quelli etnografici. Dentro questa dinamica entrano anche i musei etnografici, che portano una dimensione ulteriore, quella legata alla nostra necessità di definire la nostra identità in contrapposizione all’identità di altri popoli e di altre culture. Il museo quindi, come giustamente sottolineavi tu, è un’operazione che riguarda il potere di raccontare e di costruire una narrazione, il potere di definire un’identità per gli oggetti mostrati, sugli oggetti mostrati, ma anche sulle persone a cui stiamo parlando. Il museo costruisce non solo l’identità degli oggetti, ma anche l’identità del proprio pubblico. A seconda di come confeziona il proprio mostrato si costituisce come “luogo di potere”, inteso sia nel senso “negativo”, o comunque in senso foucaultiano ma anche contemporaneamente di potenzialità. Perché qualunque spazio di enunciazione è in definitiva uno spazio abitabile: anche quando è attraversato da dinamiche di potere molto forti; poiché rimane uno spazio di enunciazione, è sempre possibile abitarlo e contestualmente interrompere quelle dinamiche.

STAID: Sarebbe importante lavorare sulle possibilità del museo come uno spazio di risignificazione. Quando parliamo di narrazione dominante ci riferiamo, genericamente, all’Occidente che ha inventato e pensato i musei. Volevo allora sottoporti una riflessione, a partire da quanto rilevato da Walid Raad, artista, e Jalal Toufic, critico, che ci parlano delle opere esposte nei musei come di “opere incarcerate”.
Come se i musei occidentali, oltre ad aver creato narrazioni funzionali al paradigma coloniale, avessero “rinchiuso” le opere che derivano da quel processo all’interno della narrazione dominante. Fagocitandole letteralmente. Un esempio tra tutti: il Louvre di Parigi. Secondo te è possibile scarcerare tali opere?

GRECHI: Non solo è possibile, ma è necessario e urgente farlo. Però per questo c’è bisogno di un atto di immaginazione radicale da parte di chi dentro i musei ci lavora, perché qui si tratta di mettere in discussione alcuni presupposti della stessa “grammatica museale”, come ad esempio la conservazione. La conservazione è davvero una priorità? La conservazione implica anche tutta una serie di presupposti che riguardano poi l’esposizione: il fatto che gli oggetti non si possono toccare; il fatto che devono stare appunto “incarcerati”, cioè chiusi dentro una teca; riguardano certe modalità di esposizione degli oggetti – la luce ad esempio; riguardano a cascata tutta una serie di implicazioni.
Si tratta di un’incarcerazione non solo fisica, ma anche concettuale. Questo se lo pensiamo soprattutto nei musei etnografici è ancora più forte, nel senso che è come se quegli oggetti fossero stati in qualche modo immobilizzati e depotenziati rispetto alla loro “vitalità”. Nei musei etnografici infatti non parliamo di opere d’arte ma di oggetti, artefatti della vita quotidiana delle persone, e noi sappiamo bene la relazione che abbiamo con i nostri oggetti d’affezione nella nostra vita domestica e quotidiana. Gli oggetti sono dei nodi relazionali potentissimi, a volte parlano di noi molto meglio di quanto facciamo noi stessi, per citare Daniel Miller. Anche l’antropologia ha tanto riflettuto sulla cosiddetta cultura materiale, però è come se nei musei tutta questa riflessione si irrigidisse, soprattutto nei musei etnografici, dove tra l’altro una parte del patrimonio è frutto esplicito di espropriazioni ed espoliazioni di matrice coloniale. È come se avessimo sentito in qualche modo l’esigenza di congelare questi oggetti dentro la rappresentazione museografica, per rappresentare delle culture, come se l’altra cultura non fosse un processo ma fosse essa stessa un oggetto.
Questo è estremamente problematico. Quindi scarcerare gli oggetti ci può aiutare anche a scarcerare le nostre epistemologie dall’ossessione in primo luogo dell’accumulazione, in secondo luogo della fissità e dell’immobilità, e in terzo luogo anche di una concezione del tempo dove i musei si pongono all’interno delle nostre città come luoghi che contengono diverse temporalità (Foucault parlava di eterotopie), e dove però l’istituzione stessa, il dispositivo che li mostra, vuole sfuggire dal tempo, rendersi in qualche modo eterno.
Questa dimensione di scala sulla temporalità – che trova la sua concretizzazione nelle collezioni permanenti – va rovesciata. Occorrerebbe invece lavorare su una temporalità diversa, più a misura dell’umano: più mostre temporanee, meno mostre permanenti. Perché di permanente c’è poco, comprese le narrazioni dei musei.

STAID: Cosa significa, in concreto, decolonizzare il museo? Significa cambiare le pratiche sia di esposizione che di pensiero sul rappresentabile. È un processo molto importante, perché ad esempio ci spinge a ragionare sul senso stesso della pratica di rappresentare “ciò che è fuori” dall’Occidente. Decolonizzare il museo significa far capire, ad esempio, che tutti i popoli sono inseriti nel flusso della storia. Significa relazionarsi con gli eredi delle popolazioni indigene che stiamo rappresentando.
Se voglio fare un museo etnografico, o un museo di arte contemporanea, un museo di design degli oggetti della popolazione yanomami, non posso pensare di non relazionarmi con chi oggi vive nelle comunità yanomami, e quindi capire anche che cosa è stato quel processo di cambiamento, di incontro e di contatto. Ad esempio, se io parlo di popolazione yanomami in un museo a Milano, non posso non dedicare una parte del mio discorso all’estrattivismo, al colonialismo, alla distruzione di quelle terre da parte del mondo coloniale occidentale. Si possono portare mille esempi. Come si può, secondo te, rappresentare in un modo non coloniale una comunità, una quotidianità o un mondo come quelli di una popolazione indigena?

GRECHI: Questa è una questione molto complessa. Così a caldo, la mia risposta è: io non farei proprio un museo. Nel senso che secondo me il gesto stesso di fare un museo è problematico. Nell’introduzione al libro cito molto Achille Mbembe, che in sostanza dice: forse abbiamo bisogno di pensare un’istituzione di un altro genere. Un’istituzione che cambi il suo presupposto, perché il museo nasce in un certo periodo storico ed è espressione dei bisogni di quel preciso periodo storico. Ha creato un dispositivo che continua in maniera pressoché inalterata a esistere ancora oggi, ma è legato ad un concetto di patrimonio – cioè di possesso dell’oggetto – che è estremamente problematico, soprattutto quando parliamo di oggetti di altre culture. Perché io dovrei possedere un oggetto che appartiene ad un’altra cultura? Come l’ho avuto quell’oggetto?
Dobbiamo ragionare su due piani: uno è l’esistente, cioè quello che abbiamo ereditato nostro malgrado, frutto di un approccio fondamentalmente coloniale, e l’altro piano è immaginare una modalità diversa di relazione fra le culture, che tipo di istituzione o non-istituzione possiamo immaginare. Per quanto riguarda il primo aspetto dobbiamo innanzitutto fare un’operazione seria e condivisa sul patrimonio: a chi appartiene? Chiediamocelo, facciamoci questa domanda. Se la stanno ponendo tanti paesi in Europa (la Germania e la Francia soprattutto, che da diversi anni si stanno interrogando sulla questione delle restituzioni, che è una questione etica e politica che non possiamo più rimandare), però va fatta aprendo un processo di dialogo trans-nazionale. Non è una questione che nasce ora, è dagli anni Sessanta-Settanta che ci si interroga su questo, ed è una questione che nasce soprattutto in alcuni paesi africani. Non è una questione dell’immediato presente, non nasce nel 2017 con le promesse di restituzione da parte di Macron (fatte, immagino, a fini di interesse squisitamente politico); è qualcosa di più profondo, che interroga l’Europa da decenni.
Per affrontare questo nodo è necessario innanzitutto metterci noi, per una volta, in ascolto. Lasciare da parte l’idea per cui dobbiamo essere sempre noi a rappresentare gli altri, a dare loro voce – che è un gesto essenzialmente coloniale. Provare invece ad ascoltare le richieste che arrivano dalle comunità dei discendenti, le source communities, quelle di cui conserviamo il patrimonio, i cui appartenenti visitano i nostri musei e chiedono conto del modo in cui gli oggetti sono esposti e narrati.
Esistono movimenti come «Decolonize our museums» che stanno rivendicando a livello internazionale una narrazione che espliciti la dimensione coloniale nell’acquisizione del patrimonio, e che chiedono ai musei di farsi carico del modo in cui questi materiali vengono esposti, di come sono scritte le didascalie, anche di quelli che non vengono esposti. È un processo utile non solo per i discendenti, ma anche per noi.

STAID: Il tuo libro è suddiviso in tre parti. La prima si chiama «Il museo, nostro specchio colossale», la seconda si chiama «Dentro lo specchio», la terza è «Oltre lo specchio, gettare il corpo nella lotta». In questo movimento si delinea una pratica di contestazione che tu chiami “trasgressione della colonialità”. Come può essere messa in pratica?

GRECHI: I musei sono delle macchine complesse, a volte elefantiache, e vivono con estrema difficoltà un cambiamento che non riescono a metabolizzare facilmente. Per di più oggi sperimentiamo un assetto in cui le politiche culturali sono sempre più improntate alle logiche del mercato e assai meno a quelle della ricerca. Tutto, quindi, diventa ancora più difficile. Per parlare del museo, allora, ho usato la metafora dello specchio, prendendola in prestito da una riflessione di George Bataille: «Il museo, nostro specchio colossale» è una sua citazione, che evidenza in modo anche ironico come il museo non sia un dispositivo che mostra, ma un dispositivo che riflette. Anche Mbembe dice qualcosa di simile, quando afferma che l’archivio non crea solo visibilità, ma anche un’illusione di realtà, che è una cosa ben diversa dalla rappresentazione e dal mostrare.
Il museo crea una sorta di incantesimo per cui chi vi si rispecchia si sente appartenere a una comunità, ma d’altra parte ti senti di appartenere a una comunità solo se ti riconosci in quello che lo specchio ti mostra. Si tratta quindi di un’operazione tautologica che crea delle forme di esclusione potenti. Tutto il libro si snoda intorno a questa metafora: prima riconosciamo il museo come uno specchio e ci interroghiamo su che cosa significa; poi cerchiamo di vedere cosa c’è dentro, come si è costruita la grammatica museale; alla fine, però, è necessario anche uscire dallo specchio, perché forse abbiamo bisogno di un’immaginazione più radicale.
Forse, cioè, il museo non basta, non è più sufficiente, non è il luogo migliore per interrogarsi sulla nostra identità. È un luogo che deve diventare spazio, cioè che deve essere abitato, risignificato, ad esempio attraverso la pratica critica di artiste e artisti che mettono in campo pratiche di trasgressione della logica e del linguaggio coloniali, proponendo pratiche di ri-mediazione radicale.

 

Giulia Grechi

Giulia Grechi è prof.ssa di Antropologia all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Si interessa di studi culturali e post/de-coloniali, museologia, con un focus sulle eredità culturali del colonialismo e sulle arti contemporanee che ridiscutono questi immaginari. Co-cura la rivista on line roots§routes e il collettivo curatoriale Routes Agency/Attitudes_spazio alle arti. Ha partecipato a progetti europei e internazionali. Ha recentemente pubblicato Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati (Mimesis, 2021).

Andrea Staid

Andrea Staid è dottore di ricerca PhD, È docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, di antropologia culturale presso Università statale di Genova, dirige per Meltemi la collana Biblioteca/Antropologia. Ha scritto: I dannati della metropoli (Milieu 2014), Gli arditi del popolo (Milieu 2015), Abitare illegale (Milieu 2017), Le nostre braccia (Milieu 2015), Senza Confini (Milieu 2018), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi 2018), Disintegrati ( Nottetempo 2020), La casa vivente (ADD 2021), Essere natura (UTET 2022) I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna, Cina, Portogallo, Cile. Collabora con diverse testate giornalistiche tra le quali Il Tascabile e Left.