Tracce di altre immagini. Cosa ci ha colpito della distruzione di Palmira e dei Buddha di Bamiyan.

di Chiara Pirri Valentini

Due donne passano davanti all'enorme cavità dove si trovava uno degli antichi Buddha di Bamiyan. Foto del sergente Ken Scar, 2012. Fonte: flickr.com/photos/dvids/7408738172
Due donne passano davanti all’enorme cavità dove si trovava uno degli antichi Buddha di Bamiyan. Foto del sergente Ken Scar, 2012. Fonte: flickr.com/photos/dvids/7408738172

Il 2001 è ricordato come l’anno dell’attacco alle Torri Gemelle e dell’inizio della guerra tra il mondo islamico e quello occidentale. Ma è anche l’anno della distruzione in Afghanistan, da parte delle forze talebane, dei Buddha di Bâmiyân, statue giganti intagliate nella roccia, simboli di un passato in cui il regno Hindu di fede buddhista si estendeva dall’India Settentrionale al Pakistan fino all’Afghanistan.
Ma la portata del valore simbolico di queste statue, in seguito all’inasprirsi del regime talebano e delle tensioni religiose, muove Mollah Omar, allora capo di stato afghano, a definirle come simboli idolatri, permettendo quindi ai talebani di distruggerle (era appunto il 2001). Ci volle quasi un mese di bombardamenti intensivi, ad opera di esplosivi e di mitragliatrici, per erodere le statue dalla roccia in cui erano state scavate.
L’attenzione occidentale verso questo evento drammatico precede la distruzione stessa dei simboli buddhisti e il grande vuoto che lasciarono, in senso metaforico e didascalico. Ci furono diversi tentativi a livello internazionale per scongiurare l’avverarsi di questo evento: oltre a quelli di conciliazione sul piano politico e diplomatico, anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), su iniziativa dello scrittore e reporter francese Olivier Weber, organizzò un colloquio internazionale dal tema: I Buddha di Bâmiyân, un patrimonio in pericolo. A poco valsero queste mediazioni, pochi giorni dopo i bombardamenti contro questi beni di culto e di alto valore culturale iniziarono per durare a lungo.
Spostandoci un po’ più a ovest, qualche anno più tardi, è il 2015 quando parte del sito archeologico di Palmira crolla sotto i bombardamenti degli estremisti islamici. Il sito di Palmira risale al tempo ellenico, e ad essere distrutto da Daesh è in particolare il tempio di Bel, che godeva allora di un ottimo stato di preservazione, oltre ad altre parti dell’antica città. Tra il 2014 e il 2015 Daesh distrugge circa 24 monumenti storici, operando attraverso un’unità speciale dedicata alla cancellazione del patrimonio culturale non conforme ai principi dello Stato Islamico, e motivando le azioni ideologicamente e questo nonostante la Siria, come l’Iraq, siano tra i firmatari della Convenzione dell’Aia dal 1957 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (ricordiamo che Daesh è una forza di occupazione, quindi non vincolata giuridicamente alla convenzione firmata dagli Stati).
Nel primo come nel secondo caso la reazione occidentale è stata colossale: personalità della cultura, dei media così come comuni cittadini hanno condiviso immagini, espresso la propria rabbia, disappunto e dolore.
Attacchi violenti a dei simboli religiosi come quelli sopra citati oggi, in una società secolarizzata, perdono la loro valenza iconoclasta per essere letti come atti di distruzione di beni apprezzati e ammirati per il loro valore storico, artistico e quindi culturale.

«(…) What we call Modern period can be described as the replacement of the religion by culture» (1).


Forse un sentimento simile, anche se diverso, è ciò che il mondo ha provato di fronte alle immagini della cattedrale di Notre Dame di Parigi che prendeva fuoco non per un atto terroristico bensì per un incendio nell’aprile 2019. Lo scalpore e l’emozione hanno permesso di raccogliere più di 900 milioni di euro in pochissimi giorni, cifra mai raccolta per nessun’altra operazione umanitaria.
Un attentato a dei beni considerati come appartenenti all’umanità, qualcosa che ci appartiene anche se lontano geograficamente e culturalmente. In questo articolo riflettiamo dunque su cosa muova la nostra reazione, personale e collettiva, di fronte alla distruzione di monumenti o siti storici appartenenti a luoghi geografici e culture lontane, come quelle sopra-citate, cosa ci permetta di provare un senso di appartenenza e di comunione con oggetti d’arte che appartengono ad un passato lontano e che portano con sé reminiscenze religiose, di fedi lontane da noi.

UN PATRIMONIO CULTURALE DELL’UMANITÀ

Nonostante questi come gli altri atti violenti contro il patrimonio culturale nei territori controllati dallo Stato Islamico (pensiamo, oltre a Palmira, ai siti archeologici di Nivine e Hatra e alle città di Mossoul e Racca) siano rivendicati come atti ideologici, vi è certamente anche un movente economico (il mercato nero che gira attorno alle antichità, nonostante le regolamentazioni che mirano a contrastarlo) ma anche e soprattutto mediatico. La consapevolezza della ripercussione sull’attenzione internazionale è sicuramente ciò che muove, in primo luogo, simili atti di violenza contro beni e siti culturali. L’essere sicuri che atti del genere non passeranno inosservati, come a volte capita con atti di violenza interni contro cose o persone.

«Genocidio culturale», così fu definito dall’attuale direttrice generale dell’UNESCO la distruzione di Palmira nel 2015. Palmira apparteneva e appartiene ai siti protetti dall’UNESCO come «patrimonio culturale dell’umanità». Cosa si intende con questa definizione? Da dove ha origine e quale valenza assume oggi?
L’origine del riconoscimento dell’esistenza di un “patrimonio culturale dell’umanità”, che appartiene all’uomo a prescindere dalla sua relazione di prossimità con il sito culturale in questione, è da rintracciare storicamente, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Questo conflitto senza pari, portò gli stati a riflettere, oltre che riguardo la necessità di assicurare la pace futura, sul rischio che correva il patrimonio culturale durante i conflitti armati. Da tale consapevolezza e a seguito di accordi internazionali che riguardano la necessità di protezione dei siti e dei beni culturali, ma anche di condivisione e sviluppo di saperi e conoscenze, nasce l’Unesco, come agenzia delle Nazioni Unite, nel 1945.
Bisogna attendere l’inizio degli anni Settanta affinché attraverso la “World Heritage list” si riconosca il valore in quanto bene dell’umanità, di siti culturali e naturali sul territorio mondiale, aldilà della loro appartenenza geografica, politica, culturale, religiosa. Oggi questa lista contiene più di 1.150 siti, tra cui Palmira.
Questo concorre a far si che anche siti o opere che nascono come espressioni religiose siano oggi percepiti come simboli di una cultura globale, a cui tutti apparteniamo e da cui tutti discendiamo.

«Comme si l’humanité dans le trefonds de son inconscient réalisait enfin qu’une de ses richesses essentielles était minacée, à savoir: la mémoire» (2).

Palmira così come i Buddha o Notre Dame, rispondono per noi oggi alla domanda: chi siamo, da dove veniamo?
Ma perché l’uomo è così legato agli oggetti d’arte? Quali sue caratteristiche fanno sì che in questi oggetti, testimonianze del passato riconosciamo un valore inestimabile?
John Henry Merryman (Portland, 1920-2015), giurista americano e fondatore della disciplina di Art Law, ricostruisce quali siano i diversi valori di cui i beni culturali sono portatori, e che richiedono (e giustificano) il loro mantenimento e protezione.
Innanzitutto, negli oggetti risiede “verità”. La verità come certezza di qualcosa che si è concluso e non può più essere modificato emana da ogni opera che giunge a noi dal passato come immobile testimonianza di ciò che è stato. «Il passato è apprezzato perché è finito. La fine da un senso di completezza, stabilità, permanenza, che manca al presente» (3).
L’oggetto d’arte che permane è il simbolo di qualcosa che va aldilà del tempo, che supera la volatilità della vita e vince la morte, avvicinandoci a chi ci ha preceduto, colui che ha creato o anche solo fruito dell’oggetto in questione.
Una forte emozione può provenire dall’essere di fronte ad un’opera del passato con tale consapevolezza. «There is pathos in objects» scrive Merryman, gli oggetti provenienti dal passato portano con sé un sentimento di nostalgia verso chi li ha prodotti e per il fatto di essere stati in grado di sopravvivere a tutto ciò che il tempo ha portato con sé, continuando a testimoniare di una stessa inquietudine umana, uno stesso questionarsi su domande comuni. Seguendo il pensiero dello studioso americano, dal singolo giungiamo dunque al collettivo, poiché l’oggetto artistico nutre un senso di comunità, ci permette di riconoscerci in una finalità comune.


Immagini & pathos

All’inizio, si dice, fu “il verbo” ma la memoria delle epoche più lontane, come l’era della pietra o l’epoca paleolitica è silenziosa. Solo l’immagine permane.
E cosa rimane di Palmira e dei Buddha afghani? Immagini stampate nella memoria, sulla carta o swippate sul web. Il potere delle immagini: è forse lui l’artefice di tanto clamore? Esisterebbero la distruzione di Palmira o dei Buddha se non ce ne fossero giunte testimonianze visive? Lo stesso ragionamento che produco di fronte alla guerra, esisterebbe se non ne fruissimo immagini quotidiane? E se le parole non fossero accompagnate dalla vista di ciò che è accaduto, proveremmo lo stesso pathos o la stessa com-passione?

Parlando del potere dell’immagine non possiamo fare a meno di tornare a Aby Warburg, colui che cambiò il corso degli studi sull’arte, identificando nell’opera non un’immagine emulativa della realtà o una espressione estetica, ma la realtà essa stessa. In tal senso l’immagine artistica è capace di emanare un paesaggio di emozioni e inquietudini che ci ricollegano da una parte all’animo dell’artista, al suo gesto creativo, e dall’altra a qualcosa che appartiene al patrimonio espressivo dell’umanità.
Né imitazione della natura, né esigenza formale, né tanto meno opera al servizio di un messaggio unilaterale: l’opera d’arte, l’immagine è la rimanenza di un interrogarsi metafisico dell’uomo e per questo universale.
In una conferenza del 1912 a Roma, Warburg afferma che: «(…) ascoltare le immagini, cedere ad esse, e da lì in poi seguirne le tracce, i percorsi, interrogarsi sulla loro provenienza, sulla loro persistenza, sulla loro scomparsa, sul loro risorgere, così come sul momento in cui hanno luogo: in questo modo, l’approccio unilaterale, il pregiudizio estetico dell’”arte” si dissolvono nell’emergere dell’immagine come documento antropologico, significativo del rapporto fobico, mimetico o esplicativo con la realtà» (4).
Nella sua opera maggiore, l’Atlante Mnemosyne, Warburg raccoglie su grandi tavole immagini di opere d’arte e altro materiale visivo attenente a epoche diverse. Molti dipinti, affreschi o sculture del Rinascimento e dell’Antichità, ma anche rappresentazioni di riti divinatori etruschi, foto di cronaca, mappe del mondo o del cielo. Epoche, stili e forme si incontrano sulle tavole dell’atlante e disegnano nuove relazioni, nuove linee di conoscenza. Viene così messo a nudo un intero processo di memoria dell’immagine.
Le tavole di Mnemosyne sono organizzate secondo “temi” che rompono la classificazione canonica del sapere. Famose sono le tavole su quelle che Warburg definiva «formule di pathos» (pathosformel), cioè espressioni visive di dolore o di vittoria, che trovano traduzioni diverse in immagini di epoche differenti.
Con questo capovolgimento dell’approccio agli studi della storia dell’arte e delle immagini, che trova un nuovo successo in temi recenti, Warburg sembra indicarci la strada della modernità: la possibilità di leggere la storia dell’arte fuori da schemi temporali e da regole estetiche, cogliendo l’esperienza umana di fronte all’immagine, quella che ci permette di sentirci uniti in una medesima espressione di pathos.

La lettura di Warburg sembra indicarci una nuova lettura di quelle che sono le immagini e le opere del passato o le immagini della distruzione di queste stessi oggetti d’arte. L’idea secondo cui ogni immagine porta con sé tracce di altre immagini: ogni opera d’arte ha in sé le tracce di un’altra opera, ogni testimonianza visiva di guerra o distruzione porta con sé l’esperienza, anche solo visiva, di un’altra guerra o di un’altra rovina. In un’epoca di sovra-esposizione all’immagine, in cui ogni dimensione privata dello sguardo è privata a favore di una dimensione collettiva, questo processo porta ad uno stato di emozione condivisa e ad una catarsi pubblica.
Le immagini di distruzione sono forse i nuovi pathosformel, le formule del pathos, immagini in cui si può rintracciare un elemento di ripetitività, un canone, qualcosa che riporta alla memoria un sentimento, una emozione, uno stato d’animo doloroso del passato.

CONCLUSIONI

Abbiamo rintracciato le ragioni che ci portano ad identificare queste opere non solo come patrimonio nazionale, ma come “beni appartenenti all’umanità”, che diventano il simbolo di una identità culturale condivisa o condivisibile. Importante è ora anche riconoscere come spesso tali beni o siti siano a molti ignoti fino al momento della loro distruzione. Come se solo nel momento della loro “di-sparizione” questi oggetti d’arte diventassero simboli in cui riconoscersi. Quando non resta che la memoria di quanto è stato, le immagini o il vociferare che se ne fa, tali opere dell’umanità diventano il nostro ingresso nella Storia che ci indica chi siamo attraverso le tracce di chi ci ha preceduto.
Non possiamo non pensare però, che dietro l’afflato che tali eventi portano con sé, da una parte non vi sia anche un senso di vergogna e di colpa nei confronti di conflitti e tragedie che avvengono in terre lontane ma vicine, con cui intratteniamo relazioni economiche e condividiamo interessi finanziari, quindi politici. Luoghi in cui abbiamo cercato di esportare la democrazia con strategie fallimentari.
La distruzione di quei simboli religiosi, che diventano oggi simboli culturali, per le ragioni che abbiamo potuto evidenziare, ci dimostra il nostro fallimento. E d’altronde il regista cinematografico e militante iraniano, Mohsen Makhmalbaf, nel 2001 scrisse un libro per affermare che «le statue di Buddha non sono state distrutte; sono crollate per la vergogna dell’indifferenza dell’Occidente nei confronti dell’Afghanistan (…)» (5)

«Si tu lis ce carnet en entier, cela te prendra une heure de ton temps. Sache que durant cette heure, plus de 14 personnes seront mortes en Afghanistan, à cause de la guerre mais aussi de la faim, et 60 autres seront devenues des réfugiés afghans hors de leur pays. Ce carnet tente de décrire la raison de cette mortalité et de cette émigration. Si ce sujet amer est trop dur pour ta douce existence, s’il te plaît, évite de lire ce qui suit» (6).


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1. Alain Finkielkraut, What is Europe?, N.Y. Review of Book, 5 dicembre 1985.
2. P. De Lagarde, La mémoire des pierres, in J.H. Merryman “The Public Interest in Cultural Property”, California Law Review, March 1989 (Come se l’umanità, nelle profondità del suo inconscio, si fosse finalmente resa conto che una delle sue ricchezze essenziali era minacciata: la memoria.)
3. D. Lowenthal, The Past is a Foreign Country, 1985, in J.H. Merryman “The Public Interest in Cultural Property”, California Law Review, March 1989. Tradotto dall’inglese dall’autrice.
4. Aby Warburg, in “Aby Warburg et le pouvoir des images” par Hicham – Stéphane Afeissa, SLATE : https://www.slate.fr/story/94575/aby-warburg-pouvoir-images
Tradotto dal francese dall’autrice «Ecouter les images, leur céder, et dès lors suivre leurs traces, leurs trajets, interroger leur provenance, leur persistance, leur disparition, leur résurgence, ainsi que le moment où elle a lieu: ainsi l’approche unilatérale, le préjugé esthétique de ‘l’art’ se dissolvent-ils dans l’émergence de l’image comme document anthropologique, significatif du rapport phobique, mimétique ou explicatif à la réalité».
5. Mohsen Makhmalbaf, En Afghanistan, les bouddhas n’ont pas été détruits, ils se sont écroulés de honte, edition Mille et Une Nuit, 2001.
6. IVI, traduzione dal francese dell’autrice: “Se leggerete questo breve libro per intero, impiegherete un’ora del vostro tempo. In quell’ora, più di 14 persone saranno morte in Afghanistan, sia per la guerra che per la fame, e altre 60 saranno diventate rifugiate afghane fuori dal loro Paese. Questo breve libro cerca di descrivere le ragioni di queste morti e emigrazioni. Se questo argomento amaro è troppo duro per la vostra dolce esistenza, evitate di continuare a leggere”.

 

 

Chiara Pirri Valentini

Chiara Pirri Valentini (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, project-manager e giornalista, capo redattrice “arti performative” per Artribune. Interessata allo studio delle pratiche performative e al dialogo tra i linguaggi coreografici e le arti visive, ha scritto per numerose riviste, in Italia e all’estero, e curato progetti multimediali per festival e istituzioni, tra cui Centrale Fies, il Macro di Roma e Romaeuropa festival. Per quest’ultimo cura i contenuti dei programmi di sala fin dal 2016, sotto forma di interviste agli artisti. Nel 2019 da vita a VoicesOfOthers, progetto on-going e sito-archivio di interviste e conversazioni con artisti, curatori, direttori artistici, tecnici e addetti ai lavori provenienti da diverse aeree geografiche e campi dell’arte, attraverso cui l’autrice nutre il desiderio di ascolto che da sempre caratterizza la sua ricerca teorica. Nel 2021 pubblica per Bulzoni “Dialoghi con artisti di teatro” e co-cura “Nel Migliore dei mondi possibili. Intorno alla danza di Roberto Castello”, Ephemeria edizioni. In Francia ha collaborato con curatori e agenzie di comunicazione per la realizzazione di progetti artistici per aziende e istituzioni (Dior, Renault, Loewe, Unesco…).