Minestra su tela. Cosa ci scandalizza delle proteste di Ultima Generazione
di Sergio Lo Gatto
«Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci». È una delle frasi più celebri – e più citate – del Mahatma Gandhi, che fotografa al meglio quattro fasi fondamentali di una specifica lotta, quella per l’indipendenza dell’India, molto più sanguinosa di quel che immaginiamo, e che però, con una strategia di azione nonviolenta, aveva saputo ribaltare lo stato delle cose. La domanda è se quella lezione sia stata anche in grado di ribaltare i fondamenti di una (tra molte) mentalità coloniale. Di certo la consecutio contenuta in virgolette potrebbe (o, quanto meno, vorrebbe) disegnare il diagramma di flusso di ogni tipo di azione che pur minimamente si scosti dal pensiero comune. In particolare di quel pensiero comune impegnato in obiettivi che, per la loro gigantesca portata, finiscono presto per mettere in secondo piano alcune conseguenze. E più grande è l’obiettivo, più grandi saranno le conseguenze. Se pure si riesce nell’intento di ribaltare uno stato di cose, il nuovo verso potrebbe non contenere la soluzione. Non per tutti, almeno.
Distribuito in dieci paesi e tre continenti, il network A22 forma «una rete internazionale di campagne di disobbedienza civile nonviolenta che lotta per esigere dai propri governi misure di contrasto al collasso ecoclimatico». Così è descritto sul sito web di Ultima Generazione, il nucleo che da un anno a questa parte porta avanti nel nostro Paese il claim “Non paghiamo il fossile” – che mira allo stop del sussidio pubblico ai combustibili fossili – attraverso azioni dimostrative che vanno dal blocco temporaneo del traffico alla depressurizzazione delle gomme dei SUV. Aggiunti gli incatenamenti alle sedi dei partiti in campagna elettorale, i cortei e brevi scioperi della fame (queste ultime senza successo), si tratta di dimostrazioni tutto sommato innocue, ottime per attirare l’attenzione e per «preparare le società – scrivevano i sociologi già troppo tempo fa – ad affrontare il cambiamento climatico».
Come dichiarato in un’intervista a L’Indipendente (curata da Valeria Casolaro, 13 febbraio 2023), nell’invocare uno scarto di consapevolezza e un conseguente cambio di rotta politico-economico gli attivisti intendono «polarizzare l’opinione pubblica, generando conflitto e disturbo». In effetti in questi due sostantivi può stare il cuore controverso della questione. Non solo della questione climatica, di cui da troppo tempo si reclama invano l’urgenza, ma della questione strettamente “politica”, contenuta nella nostra capacità di percepire, interpretare, comprendere e condividere un certo tipo di ingresso nel dibattito pubblico.
In documenti e dati offerti da Ultima Generazione viene sottolineato come azioni circoscritte e richieste ragionevoli possano portare, pezzo dopo pezzo, a ripulire dalle scorie il modo di pensare dei regnanti. Non che ancora si possa parlare di un ribaltamento dello stato delle cose, ma l’effetto c’è: un lento ma graduale ripensamento del governo rispetto a certi investimenti. C’è però un’azione del network A22 che, sopra tutte le altre, di recente ha generato «conflitto e disturbo» e che interessa direttamente la questione politica (e non solo governativa e amministrativa): l’imbrattamento di opere d’arte e di alcuni palazzi del potere.
Solo qualche esempio: Il seminatore di Van Gogh a Palazzo Bonaparte a Roma ha ricevuto una dose di passato di verdura, come era toccato ai suoi Girasoli alla National Gallery di Londra sotto l’“attacco” del gruppo britannico Just Stop Oil; il nucleo tedesco Letzte Generation si è occupato di scagliare purè di patate contro Il pagliaio di Monet al Museo Barberini di Potsdam e liquido nero lavabile sul Morte e Vita di Klimt al Museo di Vienna. Otto chili di farina imbiancano la BMW dipinta da Andy Warhol nel 1979, esposta alla Fabbrica del Vapore di Milano; la Fontana della Barcaccia a Roma si annerisce di carbone vegetale e quella delle Tredici Cannelle ad Ancona viene coperta da un velo bianco; un getto di vernice arancione lavabile colpisce il portone di Palazzo Madama; toni giallo-arancio tinteggiano temporaneamente anche la sede del Ministero di Economia e Finanza di Firenze e la scultura Il Dito di Cattelan, di fronte al Palazzo della Borsa a Milano.
Dunque da un lato l’arte, dall’altro il potere, a volte raccolti in monumenti e simboli che lo testimoniano, che lo indicano, che lo rappresentano. Una domanda è se si tratti di azioni davvero iconoclaste (quale arte, in fondo, non è iconoclasta?, risponderebbe il Pop) o se questa definizione non risulti ingombrante per un tipo di intervento che, a detta di chi lo rivendica, si aggrappa con unghie e denti a una precisa funzionalità, diretta al risveglio delle coscienze, dunque più ad affermare che a negare.
In altre parole, sembrerebbe che l’atto di fare dell’opera d’arte il bersaglio non abbia poi finalità speculative riguardo alla sua ontologia o al suo status estetico, ma – anche a giudicare dai toni netti eppure concilianti dei portavoce che lo illustrano – si metta piuttosto in cerca di quella famosa “giusta attenzione”, rimandando il discorso al centro della questione di responsabilità economiche dei governanti. Se la campagna “Non paghiamo il fossile” mira a spingere questi ultimi a investimenti più rispettosi delle generazioni che verranno, la questione potrebbe rispondere a questa metafora: una famiglia neanche troppo benestante preferisce acquistare oggetti costosi che preservino, arricchendolo, il tenore di vita attuale degli adulti piuttosto che investire nel futuro dei figli. Un giorno i figli si ribellano e sabotano i beni costosi dei genitori, obbligandoli a scegliere tra ricomprarli o devolvere lo stesso denaro in risparmi per garantire loro un’educazione universitaria che ne garantirà il futuro. E fin qui tutto chiaro.
Ci sono però ancora alcuni aspetti da approfondire. Innanzitutto quello a cui la storia del Novecento ci ha abituato: la riscoperta del potenziale dirompente del corpo nel suo incarnare il terreno di conflitto. Le lotte per il lavoro, per i diritti umani o di genere, quelle contro la segregazione, la pena di morte, la tortura, gli oppressivi precetti religiosi, quelle ancora per la liberazione dei costumi e per la parità occupazionale hanno avuto tutte al centro il corpo. E veicolo primario ne è stata spesso proprio l’arte, quella performativa soprattutto, ma anche quella plastica, visiva e architettonica, se si include la manipolazione di materiali, colori e spazi entro la maglia larga del termine “corporeità”. Manifestazioni, cortei, scioperi d’orario e di fame, ma anche riqualificazioni urbane, performance parassitarie, blitz, agit prop, parate, tableaux vivants, happening e spettacoli di massa che dai luoghi deputati si riversavano nelle strade, film documentari che finalmente mostravano altre facce di un prisma opacizzato dal consumismo, dal perbenismo o dalla retorica di potere. E lì il corpo di pochi è stato maestro di rivoluzione, esponendo la propria forza totemica.
Nei suoi Lehrstücke, i “drammi didattici”, Bertolt Brecht fondava la retorica del discorso politico (filtrata attraverso la rappresentazione) su due fondamentali operazioni simboliche, entrambe dirette a ripensare il peso specifico della caratterizzazione di personaggi e situazioni: la prima riduceva al minimo la presenza umana sulla scena (in una sineddoche, due attori rappresentavano due battaglioni in guerra); la seconda, detta di “de-corporazione”, la livellava agli altri strumenti di azione scenica, programmaticamente basici, espliciti, chiari. Il successo del “pezzo” stava nel suo tramutare la didascalia in didattica, arricchendo la sensazione di disturbo data dalla semplificazione con la virtù di una comunicazione fertile e funzionale.
Scorrendo video e foto delle azioni di A22, protagonisti sono i corpi vivi delle persone che agiscono. Corpi giovani e guizzanti, rapidi e reattivi, corpi incollati al proprio stesso ideale prima ancora che a qualsiasi altra superficie, sia l’asfalto delle strade o la pietra delle statue. Poi ci sono i corpi di chi resta bloccato nel traffico, di chi osserva, scatta, filma e posta, di chi assume quel ruolo di fruizione/testimonianza che alla performance (come al rituale) è necessario per la sua stessa esistenza e che può garantirne resistenza e persistenza. Se una relazione tra corpi è la più potente in natura, Majakovskij scriveva che «la prima e ultima rivoluzione è però quella del linguaggio». E tradurre un’azione di corpi vivi in un enunciato del logos richiede specifica competenza intellettuale e determinate condizioni comunicative.
Nell’intervista citata, secondo Ultima Generazione quel disturbo «crea polarizzazione, non solo tra chi lo subisce ma anche tra chi lo vede narrato». Ma è forse proprio la polarizzazione a essere rischiosa. Compressa nello stream di una cronaca quotidiana che sempre più appiattisce il vero, distanzia e distorce le reali ragioni dell’altro (fosse anche un corpo simile al nostro) o ridotta alle stoccate di like, emoticon e commenti, la notizia scagliata in fondo a un TG o ridotta a un lancio d’agenzia finisce nel campo minato dello slittamento semantico, aprendosi a suscitare sdegno.
Azioni che si professano inoffensive e impermanenti (che dunque si aggirano nel reame del simbolo) vengono percepite come – cito dai social media o dai comunicati di partito – «offensive e degradanti», come «ragazzate di cui sarebbe bene vergognarsi, oltre che chiedere formali scuse». In preparazione di queste righe, raccogliendo impressioni anche di conoscenti e colleghe, emerge che prendersela con monumenti e palazzi storici può venir letto come un affronto ingiustificato e autoritario, tramutando conflitto e disturbo in irritazione, se lo si avverte come una brusca sterzata al senso unico su cui dovrebbe instradarsi un discorso per risultare davvero dimostrativo e chiaro. Specialmente se si tratta di una richiesta d’intervento fattuale che contrasti un collasso.
Tornando a Brecht, se il simbolo non si realizza in una sineddoche, si ha la sensazione che resti solo un dito, senza più luna a cui puntare. In questo caso l’azione e il discorso che la muove sembrano perdere la propria “aura”, quella che Walter Benjamin assegnava come qualità dell’arte, una «lontananza per quanto vicina»; una narrazione comune disorganica e omologata li appiattisce ponendo il corpo vivo e il suo portato dinamico-politico in secondo piano rispetto a quello statico-conservativo che certe società (di certo la nostra) sempre di più impongono al patrimonio artistico e ai beni culturali. Si veda a questo proposito i recenti Stati Generali della Cultura Nazionale indetti dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, proverbialmente intitolati “Ripensare l’immaginario italiano”.
E infatti sullo skyline tra arte e potere si erge presto il grattacielo dell’immaginario, da cui si dovrebbe poter scorgere l’orizzonte culturale e distinguere il valore di ciò che vi è compreso.
In maniera tutto sommato convincente, la filosofia del secolo scorso aveva imbracciato le armi nel confronto tra lo sguardo e l’opera a cui esso avalla un determinato statuto nel mondo della riproducibilità tecnica e della spettacolarizzazione. Proprio Benjamin chiariva che lo spostamento d’accento dal valore culturale dell’opera a quello espositivo non è lineare né irreversibile: proprio in questo mutamento di funzione dell’opera sta la radice di una possibile funzione politica dell’arte. Benjamin identifica come possibile conseguenza due diverse strade, in fondo egualmente generative rispetto a uno specifico ruolo dell’arte e però sempre più a rischio di fallimento. L’attacco è sferrato da una mediatizzazione incontrollata che oggi promuove omofilia tra le opinioni e che, secondo le teorie più aspre, neutralizza l’agire comunicativo di un gruppo umano riducendolo a una somma di istanze individuali.
La prima via indicata dal filosofo è la possibilità per certi canoni e categorie estetiche di innescare, nel proprio mutare forme e strategie mentre il mondo evolve, un processo di «estetizzazione della politica». La seconda – ed è forse qui che l’irritazione fomentata dall’attuale mediasfera sloga il polso a quel “fertile disturbo” brechtiano – è una reale emancipazione dell’arte che si realizza nel suo riuscire a recuperare l’aura come elemento di enunciazione, guadagnando una rinnovata autonomia che vivrebbe nell’apertura dell’opera a essere esposta e pure riprodotta.
Laddove un’opera perde il proprio valore di hic et nunc rivive nella possibilità di essere simbolo di uno slancio di elaborazione estetica della realtà che testimonia il passaggio di quell’aura posizionato in qualche momento storico reso preciso da ciò che dell’arte resta. E nei monumenti, come nei palazzi del governo, è questo tipo di aura che oggi sembra vada preservato, come se una qualsiasi offesa, pur innocua, pur reversibile, destinasse nuovamente a un pericolo di estinzione non tanto l’opera d’arte in sé, né la testimonianza di una data produzione d’ingegno dell’umanità in grado di lasciare un segno e di ispirarne altri, quanto piuttosto la possibilità per chi la offre alla fruizione di farne strumento di controllo del senso d’appartenenza a una determinata cultura dell’immagine.
In questo senso, se la salvaguardia del futuro ne è l’istanza fondamentale, le azioni discusse qui dovrebbero risultare realmente dimostrative: puntando il dito su un’emergenza di carattere economico e di forma mentis, attivisti e attiviste – che se ne rendano conto o no – in verità portano alla luce una nostra debolezza, una corazza di bias che ci fa immaginare i nostri sforzi di autorappresentazione separati dalla ragione che li produce: preservare la possibilità stessa di generare pensiero, immaginando un futuro sostenibile.
Ma ancora la comunicazione spalanca delle trappole: in un tempo in cui i dispositivi portatili imperano come estensione tecnologica del nostro sguardo e del nostro corpo, qualcosa di esposto e riproducibile – soprattutto se espressione di una certa tradizione o patrimonio culturale – diviene oggetto di immediata appropriazione dei singoli individui, di condivisione tra questi, di posizionamento e affermazione di un individuo in un flusso di vissuto sempre più finemente spettacolarizzato. E in cui tutte e tutti dobbiamo renderci conto di quanto fortunati siamo ad avere ciò che abbiamo, prima ancora di preoccuparci che quel che abbiamo l’avranno altri dopo di noi. Ce lo dice la recente campagna del Ministero del Turismo, con la Venere botticelliana in tenuta da influencer a farsi i selfie con le meraviglie del Belpaese sullo sfondo, costata nove milioni di Euro. Più di un terzo del costo di installazione di una centrale idroelettrica.
E allora una ciotola di zuppa non colpisce solo e non tanto il contenuto di una cornice (protetta da un vetro antigraffio), ma colpisce un pezzo della nostra identità. E chissà se attiviste e attivisti si rendano conto di quanto questo fenomeno, loro malgrado, sposti radicalmente il fuoco del loro discorso, trasformando un’invettiva funzionale (didattica alla maniera di Brecht) alla costruzione di un futuro migliore in un affronto a quel che la società sembra spingerci a celebrare come il valore intoccabile: un fiero passato da preservare senza ammettere troppe provocazioni.
Come in altre battaglie radicali, dovremmo forse ricordare che ogni azione “resistente”, ogni disobbedienza civile si realizza a pieno se ci si occupa innanzitutto di segnalare con perizia il sentiero che dall’ascoltare una voce porta, se non a condividerla a pieno, a pieno a comprenderla.
Affilando gli strumenti d’analisi e d’uso dei mezzi di divulgazione che pure sono necessari a far circolare una campagna di protesta, si dovrebbe forse governarne la potenza e la pervasività, mai così grandi e problematiche come ora. Occorre programmare un ribaltamento dello stato delle cose che non inciampi su una sistematica e ormai radicata museificazione dell’arte né su un’intoccabilità degli oggetti e delle immagini attraverso cui ci rappresentiamo o altri desiderano rappresentarci; creare, con corpo e per dare voce, un’arte in cui etica ed estetica si ritrovino in un’azione congiunta, autosufficiente, problematica ma inequivocabile. Un’arte che, da bersaglio, diventi obiettivo.
Tornando alle parole di Gandhi con qualche forzatura, potremmo augurare all’opera d’arte: «ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è studioso e critico di teatro e di danza. Ha pubblicato articoli e volumi, scritto per diverse testate e periodici in Italia e all’estero e collabora come consulente nelle attività culturali di teatri e festival. Insegna discipline di spettacolo alla Sapienza Università di Roma e all’Università di Bologna. Attualmente è ricercatore presso il DAMS della Link Campus University di Roma.