Il rapporto tra arte e scandalo

di Francesco D’Isa

Andy Warhol all'inaugurazione della mostra del 1968 al Moderna Museet davanti a 500 Brillo Boxes. Ph: Lasse Olsson / DN / SCANPIX / DN / SCANPIX
Andy Warhol all’inaugurazione della mostra del 1968 al Moderna Museet di Stoccolma davanti a 500 Brillo Boxes. Ph: Lasse Olsson / DN / SCANPIX / DN / SCANPIX. Fonte: www.artandobject.com

Se ogni linguaggio ha i suoi cliché, frutto di cristallizzazioni concettuali e mancanza di originalità linguistica, per quel che riguarda l’arte sul podio della banalità siede spesso l’espressione “artista dissacrante”. Gli stereotipi però hanno talvolta una qualche verità statistica e la costante associazione tra arte e scandalo potrebbe essere uno di questi casi – è dunque lecito chiedersi da dove proviene e quanto sia legittima. La prima cosa che viene in mente sono le avanguardie del Novecento, sebbene millenni prima di Duchamp esistessero già figure come Socrate e Diogene, sommi filosofi che amavano trascorrere il tempo a scandalizzare e infastidire i propri concittadini, anche a rischio della vita… Ma che cos’è uno scandalo? Nell’omonimo saggio Barthes risponde che: «[…] è per essenza ciò a cui non partecipiamo. Uno spettacolo non è soltanto ciò che occupa la scena, ma ciò che respinge lo spettatore nell’ombra della galleria o della platea, e lo convince di una differenza di natura tra quello che vede e quello che è, tra quanto accade e quanto gli accade» (1). Ci scandalizza quel che non siamo, ed è vero, ma non è dato sapere se si tratta anche di ciò che non vogliamo. La coerenza diserta spesso il cuore e non sempre sappiamo distinguere tra battiti d’odio e d’amore; lo scandalo è una frequenza troppo alta del sentire che si tramuta in rabbia, ma non necessariamente una forma di ripulsa. È un segnale che ci avvisa di una diversità che va oltre un impercettibile discrimine, il confine di un non-io che giace al di là della nostra empatia. Lo scandalo è il momento in cui definiamo l’immondo.

Delimitare il confine tra sacro e profano è un tratto che accomuna arte e religione, la cui più chiara esemplificazione si trova forse nella costruzione degli intricati mandala di sabbia del buddismo tibetano, che vengono spazzati via poco dopo il loro scrupoloso completamento. In un certo senso è la ritualizzazione del processo artistico, la demarcazione del confine del sacro (dell’arte) e della sua distruzione. Chi traccia un cerchio perfora l’infinito: c’è un’arte che costruisce il proprio confine e una che lo distrugge, o più correttamente lo trasfigura – c’è poi un’arte più rara dove le due cose accadono contemporaneamente. La dissacrazione è parte integrante della pratica artistica, ma non va assimilata allo scandalo. Quest’ultimo infatti non gioca con gli infiniti limiti dell’arte ma con le più piccole staccionate del consesso sociale, in modo più o meno pretestuoso ed efficace. Il rapporto con lo scandalo è infatti legato all’etica in voga al momento in cui deflagra: se oggi ci scandalizziamo (giustamente) davanti a episodi di razzismo, un secolo fa, o ancora adesso in molti sfortunati contesti, capita l’esatto opposto. L’esistenza di un’etica assoluta a tempo, luogo e circostanza è un quantomeno dubbia e dal punto di vista empirico pare che l’uomo sia dotato di una notevole plasticità morale in base al contesto in cui si trova, tanto da rendere talvolta leciti dei radicati tabù come l’omicidio (in guerra) o persino il cannibalismo (se spinto dalla fame). Se esistono semi-costanti etiche legate a norme la cui assenza distruggerebbe ogni forma di socialità, inoltre, difficilmente entrano in gioco in ambito artistico.

Così l’Origine del mondo di Courbet, che destò indignazione all’epoca, oggi non turberebbe nessun francese – sebbene scandalizzerebbe qualche statunitense – e lasciano tiepidi anche i casi che sembrano fatti apposta per indignare, come il Piss Christ di Serrano, che raffigura un piccolo crocifisso immerso nell’urina dell’autore. Ma lo scandalo non si limita a sesso e blasfemia e può coinvolgere anche la definizione stessa di opera d’arte, come dimostrano le opere di Duchamp, del dadaismo e della loro eredità più contemporanea, dalla Pop Art all’arte concettuale. L’arte dopotutto è un’etichetta umana e dopo la novecentesca rottura degli argini di quel che può essere considerato parte di questo insieme, la regola è diventata capricciosa: appena escludiamo qualcosa dall’“arte”, infatti, decretiamo che ne può far parte.

Prima ho citato un celebre quadro di Courbet che in alcuni contesti potrebbe ancora far scandalo, ma anche tra i più puritani difficilmente qualcuno si lamenterebbe per un’altra opera del pittore francese, Les demoiselles des bords de la Seine (1857). Lo sguardo dei suoi contemporanei invece intercettò in quest’immagine qualcosa di disturbante; secondo l’etichetta della borghesia dell’epoca infatti, le due donne ritratte nel quadro non sono in una posa decorosa e potrebbero di conseguenza essere identificate con due prostitute – come suggerito anche dalla presenza di un cappello da uomo nella barca adagiata sulla riva. Come ha scritto il critico d’arte Thierry Savatier, «otto anni dopo, il filosofo Pierre-Joseph Proudhon evocava ancora queste donne come portatrici di una seduzione satanica, le chiamava “vampire” e metteva in guardia il pubblico: “Scappate se tenete alla vostra libertà, alla vostra dignità, se non volete che questa Circe vi trasformi in bestie”. Pablo Picasso, per cui le istanze morali nell’arte erano prive di senso, individuò in questo dipinto un’importante opera del XIX secolo, cosa che fece scandalo agli occhi dei suoi compagni comunisti. In seguito confidò alla sua amante Françoise Gilot di vedere in questo quadro l’origine della modernità nella pittura e dedicò al dipinto una reinterpretazione magistrale e molto personale, Les Demoiselles des bords de la Seine, dopo Courbet (1950, Basilea, Kunstmuseum)» (2).

Spostiamoci nell’ambito di uno scandalo di tutt’altro tipo. Come scrive Eileen Kinsella, c’è un film in bianco e nero del 1964 in cui è possibile vedere Andy Warhol di fronte alla sua celebre scultura Brillo Box. Mentre Warhol risponde alle domande del giornalista col suo consueto fare pseudo-naif, l’intervistatore gli pone questa domanda: «un portavoce del governo canadese ha detto che la tua arte non può essere descritta come scultura originale. Sei d’accordo con questa affermazione?».
«Uhhh, sì», risponde Warhol.
«Perché è d’accordo?», chiede la donna.
«Beh, perché non è originale», risponde Warhol.

D’altra parte la grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol (cosa che oggi forse desterebbe lo scandalo degli zeloti del copyright) era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte», scrive Danto (3). Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». D’altra parte ogni artista sa che ogni opera d’arte vive di reciproci furti e ispirazioni – ogni artista, appunto, ma gli altri? Fedele al gioco sacralizzante-dissacrante dell’arte, Andy Warhol portò avanti lo scandalo iniziato da Duchamp e lo rese un canone, tanto che ora non destabilizza più nessuno.

Sembrerebbe che lo scandalo sia ormai impossibile, eppure non è così. Sebbene il mondo dell’arte si sia fatto smaliziato, le società continuano a delimitare i confini dell’immondo con la consueta fluidità geografica e temporale. Accade così che da una parte del mondo c’è chi si scandalizza per la nudità di una statua del millecinquecento e dall’altra chi lo fa per via del turbamento altrui, a dimostrazione di come lo scandalo sia soprattutto un gioco di costumi – in questo senso quasi letteralmente. Vediamo ancora troppo poco del mistero del mondo in cui siamo immersi, ma col tempo abbiamo imparato a conoscere abbastanza il nostro pianeta e i suoi abitanti, al punto da aver interiorizzato il fatto che siamo una specie che si può organizzare attorno a diverse idee di sacro, e che, di conseguenza, quel che chiamiamo profano è dal punto di vista statistico un confine arbitrario. Eppure il sacro resta una necessità psicologica e si tira dietro il pesante traino della costruzione di un’identità personale e collettiva; tutti e tutte, in fondo, ci scandalizziamo, tranne forse quelle poche persone fortunate che hanno toccato la saggezza che va oltre la definizione dei confini.

Se lo scandalo per la presenza di un’alterità va di pari passo con la definizione della propria però, questo non spiega necessariamente la nostra ostilità, almeno non nei confronti di qualcosa che nel sottrarsi non ci toglie nulla: perché ci scandalizzano condotte sessuali diverse e consenzienti, ad esempio, se non intaccano la nostra? Perché ci irritano altri modi di parlare, di gestire la propria vita, o addirittura di fare arte? Ho detto che sono cose che non ci tolgono nulla, ed è vero, ma forse dovremmo capovolgere la questione e vedere che cosa ci danno. Perché sebbene sia vero che nulla viene tolto dalla diversità, questa ci definisce più di uno specchio, dando forma come in un calco alla nostra figura. La tua identità è il confine della mia ed è proprio questo esile bordo a definirmi: ecco perché lo scandalo non è solo repulsione, ma anche frustrazione, per tutto quel che non siamo né possiamo essere. Tornando a Barthes, «uno spettacolo non è soltanto ciò che occupa la scena, ma ciò che respinge lo spettatore nell’ombra della galleria o della platea, e lo convince di una differenza di natura tra quello che vede e quello che è». L’identità è un punto cieco che ricostruiamo per negazione, accogliendo o rifiutando quel che non fa parte di noi: ci scandalizza ciò che non siamo perché ci imprigiona in quel che siamo.

 

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1. Barthes R D’Angelo F. Cos’è Uno Scandalo. Testi Su Se Stesso L’arte La Scrittura E La Società. Roma: L’orma; 2021.
2. Savatier T. L’origine Du Monde: Histoire D’un Tableau De Gustave Courbet. 5E édition revue corrigée et augmentée ed. Paris: Bartillat; 2019.
3. Danto AC Poo N. Che Cos’è L’arte? 1. Ristampa ed. Monza: Johan & Levi; 2017.

 

 

Francesco D’Isa

Francesco D’Isa di formazione filosofo e artista digitale, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017), mentre per Edizioni Tlon è uscito il suo saggio filosofico L’assurda evidenza (2022). Direttore editoriale della rivista culturale L’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.