Rompere le scatole

di Graziano Graziani

Resti della statua di Lenin, Berlino
Resti della statua di Lenin, Berlino. Foto credit: BERND SETTNIK/AFP/Getty Images. Fonte: https://www.fanpage.it

Cosa ci spinge a considerare “scandaloso” un gesto artistico? E cosa ci scandalizza di un gesto irriverente o addirittura distruttivo rivolto all’indirizzo di un’opera d’arte? Qual è il portato simbolico che l’oggetto d’arte, sia esso storico o contemporaneo, riesce a smuovere dentro di noi – e come viene usato, politicamente, questo portato simbolico? Sono solo alcune delle questioni che questo numero di «93%» prova a sondare per indagare il filo rosso che collega la dimensione politica dell’opera d’arte con il gesto di provocazione che, nel corso del Novecento, è stato al centro della riflessione e della pratica dei movimenti d’avanguardia storica.
Nel nostro contesto secolarizzato l’arte, nelle sue varie incarnazioni, ha occupato lo spazio che un tempo era del sacro. Non è una novità quella di accostare l’arte alla religione, non solo perché la storia dell’arte europea (e non solo) vede tra i due mondi una connessione intensa, di temi, commissioni e mecenatismo, ma anche perché nel panorama contemporaneo ci riferiamo all’oggetto artistico – e al suo “creatore” – come a un elemento di valore ultimo, verso il quale mostrare riverenza e adorazione, oppure sdegno e contestazione. Il sistema dell’arte ha i suoi mistici pauperisti e i suoi crassi venditori di indulgenze, c’è chi pensa di trovare redenzione nel gesto artistico e chi, pur ammettendo che l’arte non redime nulla, non smette di rovistare nel suo campo per trovare significati ed inventare pratiche che possano spiegare e interagire con il presente. Alle volte l’aura dell’opera d’arte, irrimediabilmente perduta nell’era della riproducibilità tecnica degli oggetti, viene recuperata dal sistema della comunicazione, che brandizza artisti e opere, e che trasferisce dall’oggetto all’autore, oppure dall’oggetto alla sua immagine, quel surplus di senso (e seduzione) che l’opera d’arte esercita sul suo fruitore.
È alla luce del ruolo sacrale dell’arte, oggetto di mostre “celebrative” e di vere e proprie esegesi, che possiamo leggere l’indignazione del discorso pubblico di fronte ai gesti dimostrativi degli attivisti climatici di Ultima generazione, che imbrattando tele di Van Gogh e Monet (senza assolutamente danneggiarle) per attirare l’attenzione sui temi urgentissimi della catastrofe ecologica hanno scatenato reazioni scomposte, rivelatrici di quel sistema di valori edificato attorno all’arte e alla sua celebrazione. I giovani attivisti hanno messo il dito nella piaga del simbolico, laddove – in contesti radicalmente diversi – lo avevano già fatto gli avanguardisti di inizio secolo, ma anche quelli contemporanei (Banksy che fa battere all’asta da Sotheby’s un quadro che si autodistrugge); e persino il fondamentalismo islamico, che ha scagliato la sua furia contro oggetti del patrimonio storico-artistico mondiale come Palmira, parzialmente distrutta da Daesh in Iraq, e i Buddah di Bamiyan, fatti saltare in aria dai talebani afgani, tutte azioni consapevoli dello sguardo scandalizza dell’Occidente, adoratore e conservatore delle reliquie del passato. Anche laddove l’oggetto d’arte non è particolarmente pregevole ma ha una mera funzione celebrativa, come la statua di Edward Colston abbattuta a Bristol dal movimento Black Lives Matter o quella di Indro Montanelli imbrattata durante le manifestazioni di Non una di meno, le reazioni sono sempre accese e divisive. Perché nel tema della conservazione si annida il valore che noi attribuiamo all’edificazione del senso che istituti – come quello sempre più sfrangiato dell’arte – continuano malgrado tutto ad operare. L’edificazione del senso è un’opera collettiva, che può verificarsi nello sperimentalismo artistico ma anche nella conservazione istituzionale, e che descrive non solo l’arco di significati in cui una società si riconosce, ma anche i rapporti di potere che li definiscono. Per questo il gesto iconoclasta, pur essendo stato sussunto dal marketing che ha trasformato il “ribellismo” e il “genio artistico” in narrazioni ad uso e consumo della vendita, resta un atto che nelle sue nuove incarnazioni è sempre in grado di svelarci la trama di significati in cui ci muoviamo, e le implicazioni che questa trama ha con il potere e con la definizione delle nostre identità individuali.
È proprio questa continua ridefinizione di significati e valore che indaga Francesco D’Isa ragionando sull’arte e la ricerca dello scandalo, dall’avanguardia a oggi. Mentre Sergio Lo Gatto prova a interrogare e interrogarsi sulle azioni ambientaliste che hanno preso di mira le opere d’arte e sulle relative reazioni. Chiara Pirri Valentini ripercorre l’ondata emozionale e simbolica che ha investito l’Occidente di fronte alle distruzioni del patrimonio storico perpetrato dai fondamentalismi. E Paola Granato riflette su alcune pratiche contemporanee che tornano a mettere il “gesto di rottura” al centro delle pratiche artistiche, con l’obiettivo di evidenziare i rapporti di forza e ridefinire le narrazioni, all’interno di un “teatro pubblico” che è il landscape urbano. Sguardi e prospettive differenti per provare a interrogarci sul complesso di simbolismi e relazioni che costituiscono i “frame” attraverso cui guardiamo l’oggetto artistico, la scatola in cui inscatoliamo le pratiche estetiche e politiche. E provare così a “romperle”, decostruendo con esse anche i rapporti di forza che le governano.