Cosa ne pensa del petrolio la comunità indigena Urarina
di Emanuele Fabiano
Negli ultimi anni mi sono dedicato a un lavoro di ricerca etnografica nell’Amazzonia peruviana che si è avvalso dell’aiuto e della collaborazione di numerosi interlocutori Urarina, con i quali ho avuto modo di approfondire discorsi e rappresentazioni circa il recente avvicinamento delle comunità alle istituzioni dello Stato e il lento processo di negoziazione con l’impresa petrolifera attiva nella zona. Le risposte date dalla popolazione Urarina alla serie di drammatici sversamenti di petrolio occasionati da varie rotture nell’oleodotto che attraversa la regione, ha generato nuove forme di auto-organizzazione e una rinnovata sensibilità verso l’importanza di una più efficace vigilanza del territorio e di nuove strategie locali per affrontare le emergenze socio-ecologiche prodotte dalle politiche estrattiviste imperanti.
Da diverso tempo ormai gli ecosistemi amazzonici sono passati dall’essere considerati unicamente come fonti di materie prime a fattori decisivi nell’assicurare la vita umana e non umana del pianeta. Ciò ha favorito una maggiore attenzione verso i disastri ecologici risultanti dall’espansione delle frontiere estrattiviste, nonché il loro impatto a livello globale. Un risultato evidente di questa nuova sensibilità è stato quello di favorire una ridefinizione di molte delle questioni – social, economiche e ecologiche – attualmente dibattute riguardo i territori amazzonici, e di vedere in esse le principali sfide che affrontano le società indigene che li abitano. Cionondimeno, se è vero che numerose ricerche si sono focalizzate sulle implicazioni ecologiche, sociali, economiche e politiche dell’industria estrattiva, è altrettanto vero che non esiste un interesse equivalente per i vincoli che le società amazzoniche contemporanee stabiliscono con le dinamiche estrattiviste, o come queste contribuiscono a fomentare lo sviluppo a livello locale di conoscenze, pratiche e discorsi di ordine cosmologico circa le entità umane e non umane coinvolte. Nonostante il tema possieda un’enorme rilevanza, solo negli ultimi anni lo studio delle relazioni tra umani e il complesso bioma amazzonico è diventato un tema strategico all’interno del dibattito politico internazionale. Ciò ha permesso di riconoscere l’importanza degli aspetti culturali e sociali che caratterizzano la relazione che le società amazzoniche stabiliscono con il proprio territorio, favorendo allo stesso tempo la comprensione delle implicazioni relative a questa relazione di mutua dipendenza. A prova di ciò possiamo analizzare il discorso sciamanico e la rappresentazione del mondo non umano, grazie a i quali è possibile riportare alla luce discorsi e conoscenze che si sovrappongono alla mappa dei disastri socio-ambientali occasionati dallo sfruttamento petrolifero nella regione. Un caso emblematico lo offrono le comunità Urarina della regione di Loreto, nell’Amazzonia peruviana. Gli sversamenti di petrolio che nell’ultimo decennio hanno colpito la regione attraversata dal fiume Chambira – e che purtroppo continuano ancora oggi a mettere in pericolo la salute delle popolazioni indigene e non indigene che vivono in questa regione – hanno anche esercitato un profondo impatto sulla vita di queste comunità.
«Il petrolio tra gli Urarina arrivò dal cielo, o almeno così crede la gente», commenta ironico Julian, un anziano abitante della comunità nativa di Nueva Unión, fiume Chambira: «Nessuno sapeva del petrolio. Molti anni fa arrivò un aereo e che dopo essere atterrato sul fiume ci restò per qualche tempo. Gli ingegneri giravano nella zona. Dopo un mese arrivarono degli uomini, gli ingegneri, con un patrón, e iniziarono a segnalare alcuni luoghi […]. Dicevano che per il momento non c’era nulla per la gente; però con il tempo, anche i nostri figli avrebbero lavorato per la Compagnia. Gli ingegneri dicevano: “Voi sarete autorità e avrete la vostra terra. È per questo che siamo qui. Per il momento siamo noi i soli ad approfittarne, però arriverà il giorno nel quale perfino tra gli Urarina ci saranno dei giudici, e le persone andranno anche a votare…” Questo dicevano. E poi sparirono».
Tanto allora come oggi le promesse di autonomia e sviluppo compongono il vocabolario estrattivista e si accompagnano a modelli di sfruttamento che le ragioni amazzoniche, e tutti i suoi abitanti umani e non umani, sperimentano ininterrottamente da secoli. Per gli Urarina del Perù, così come per le altre società indigene contemporanee che vivono nelle regioni amazzoniche del Paese, il petrolio è solo uno dei tanti frutti avvelenati dall’ambizione di rendere questi territori lucrativi, progetti che classicamente coincidono con intese stagioni di sfruttamento e un occultamento sistematico delle gravi conseguenze ambientali per le comunità locali.
Il territorio Urarina è attraversato perpendicolarmente dalla “Línea A” del “Oleoducto Corrientes–Saramuro”, fino a pochi mesi fa amministrato dall’impresa Pluspetrol Norte S.A., parte di un’emblematica opera che alla fine degli anni Sessanta ha inaugurato l’inizio dell’attività petrolifera nell’Amazzonia peruviana e che, per la maggior parte degli abitanti Urarina che vivono nel bacino del Chambira e dei suoi affluenti, con il passare degli anni è di fatto scomparsa. Se da un lato l’oleodotto è diventato invisibile, grazie alla crescita di una fitta copertura forestale lungo tutto il suo percorso, dall’altro, la sua presenza si è normalizzata, al punto che queste installazioni sono diventate elementi perfettamente naturalizzati del paesaggio. In occasione della stagione asciutta, durante la quale il livello dei fiumi scende considerevolmente e le piogge si diradano, le sezioni di tubi che corrono sul suolo diventano estensioni dello spazio domestico o punti fisici di riferimento spaziale in un ambiente forestale spesso inaccessibile. Le condutture si trasformano in vie terrestri stagionali, utilizzate per coprire lunghe distanze e che permettono di evitare, per quanto possibile, inutili spese di tempo e carburante per i lunghi viaggi fluviali. Ciò spiega perché le testimonianze che riguardano i processi di sfruttamento del petrolio si limitano a pochi e precisi eventi legati alle prime fasi esploratorie e, successivamente, alla mesa in opera dell’oleodotto. Il petrolio quindi scompare dalla vista e dalle parole, per ritornare a correre sotto la superficie della terra, convogliato in tubi, disciplinato in una corsa invisibile lunga chilometri.
«Nessuno scopre nulla se già da prima gli antichi ne conoscevano l’esistenza», afferma risoluto Julian, quasi a dire che, secondo molti Urarina, il petrolio esiste da sempre. Prima ancora che i non indigeni ne reclamassero il possesso, già gli antichi ne conoscevano l’esistenza e la pericolosità; sapevano che, come tutto ciò che è vivo, anche il petrolio soggiace a un processo di crescita e maturazione, una sostanza che associano alla linfa e alla quale conferiscono caratteristiche simili alla sua equivalente vegetale. Così come per le distinte fasi di crescita di un frutto o, più in generale, di un qualsiasi corpo organico, anche il petrolio passa per un processo di maturazione: è “verde” quando ancora acerbo e “maturo” quando finalmente acquisirà una consistenza viscosa. In modo analogo a qualsiasi altro vegetale, il ciclo di vita del petrolio seguirà le fasi lunari, che ne determineranno la produzione, crescita e maturazione. Il discorso cosmologico Urarina, inoltre, spiega come questa sostanza sia costantemente secreta dalla terra e di quanto sia necessaria per il funzionamento del mondo, dal momento che assicura l’alternanza tra il giorno e la notte, ovvero il movimento del sole e della luna attraverso la superficie terrestre:
«Il petrolio serve. È come se si trovasse dentro una macchina che usa olio: quando il sole e la luna girano, la terra funziona perché ha l’olio, e per questo stesso motivo si dice che questo mondo gira e si muove. Quando qui è giorno, dall’altra parte, sotto terra, è notte: è il petrolio che impedisce l’usura della terra nonostante il movimento».
Gli sciamani Urarina sostengono che all’interno della terra vi sia un’enorme cavità, un alveare poroso, le cui dimensioni coinciderebbero con quelle della superficie terrestre: «Gli antichi dicevano che il mondo è come un nido di vespe, che al suo interno ci sono molte cose che non si vedono, e che non si capisce perché siano nascoste. Il mondo è come un nido di vespe ed è fatto a strati. Si trova tutto [all’interno della terra] e quando il sole e la luna scompaiono, in realtà stanno illuminando questi luoghi. Il sole e la luna entrano nel lago di petrolio».
A impedire che la parte superiore di questa enorme cupola sotterranea collassi, inghiottendo tutto ciò che si trova in superficie, è l’esistenza di migliaia di colonne di pietra, costantemente immerse nel petrolio, che ne reggono la volta e assicurano il movimento degli astri. Tuttavia, nonostante le proprietà lubrificanti di questa sostanza: «Se si estrae troppo petrolio, come sta avvenendo oggi, [l’intero della terra] si consuma o si rompe. Ecco perché è sbagliato estrarre il petrolio. Anche se si sente dire che il petrolio potrebbe esaurirsi, questo non deve accadere perché in questo modo si consumerebbero anche le colonne di pietra delle case degli spiriti del petrolio che tengono separata la terra da ciò che c’è sotto. Se [le colonne di pietra] cadono o si consumano, tutto cade».
Se quindi alcuni tra i miei interlocutori Urarina affermano che gli antichi già conoscevano il petrolio, è solo con l’inizio della stagione estrattiva che alcuni tra gli spiriti più aggressivi, chiamati nijniaeene, hanno iniziato a manifestarsi anche sulla superficie della terra con il proposito di espandere il proprio territorio. La pericolosità di queste entità è indicata chiaramente dall’impossibilità di stabilire con esse una relazione all’interno di un margine di negoziazione, che d’altra parte caratterizza qualsiasi interazione con il mondo non umano. Il rifiuto di questo dialogo si esprime inoltre con l’adozione da parte degli spiriti del petrolio di elementi che rivelano una separazione netta con la foresta. La specificità di questi agenti non umani, che li differenzia di spiriti selvatici appartenenti a categorie analoghe, sta proprio nel revisionare i loro schemi di attacco, aggiornandoli con nuove strategie e conoscenze tecnologiche provenienti dai contesti urbani. I nijniaeene sono quindi descritti come spietati, avidi, molto aggressivi e più vicini al mondo dei non indigeni e degli abitanti delle città che all’ambiente della foresta condiviso con gli Urarina, al punto che anche l’abbigliamento e gli oggetti da loro posseduti servono a esplicitare questa prossimità.
Nonostante il luogo di origine degli spiriti del petrolio resti occulto, inaccessibile ai visitatori umani, da molti viene descritto come una sorta di enorme città sotterranea nella quale: «essi vivono con molta gente, lungo le rive di fiumi. Il petrolio si trova in un grande lago. Quando questi spiriti si trovano nella loro città pare stiano nuotando, però non vivono all’interno del petrolio, bensì sulle rive dei fiumi che si originano dal lago, come noi viviamo lungo il corso dei fiumi qui sulla terra. […] Però tutto questo non si vede, tutto sembra petrolio. Quello che gli spiriti fanno è usarlo per muoversi, come pesci che nuotano in un fiume».
La maggiore incidenza di sversamenti e rotture dell’oleodotto dipende una buona sostanza da queste entità. La concentrazione di un gran numero di nijniaeene di grandi dimensioni in uno spazio assai ridotto fa sì che ognuno dei essi voglia utilizzare il petrolio incanalato nei tubi che corrono in superficie per muoversi, il che necessariamente produce un aumento della pressione del petrolio che corre al suo interno e conseguentemente la rottura dell’oleodotto. Maggiore è l’aggressività dei nijniaeene, incoraggiata dalle attività estrattive all’interno del loro territorio, maggiore è la quantità di petrolio espulsa da ogni fuoriuscita e l’incidenza dei loro attacchi agli umani.
Se tale interpretazione si dimostra coerente con il discorso cosmologico Urarina, sarebbe incorretto affermare che il dibattito circa le conseguenze di una gestione negligente dell’oleodotto siano assenti dal dibattito che le comunità Urarina stanno animando con le istituzioni o che esse non siano consapevoli delle responsabilità che gravano sulle entità statali incaricate di monitorarne il funzionamento. Tuttavia è possibile affermare che il discorso sciamanico Urarina rivela l’ampiezza delle ideologie associate al pensiero cosmopolitico indigeno, la cui peculiarità è quella di estendere il campo delle relazioni a un piano socio-cosmologico non antropocentrico estremamente articolato e plurale. Ciò dimostra come le rappresentazioni degli effetti dei disastri ambientali funzionino come strategie di adattamento e, contemporaneamente, producano forme di resistenza impiegate dalle comunità indigene, anche quando queste non sempre coincidono con i modelli elaborati dalle agenzie governative o dagli strumenti di intervento che le organizzazioni internazionali identificano come prioritari. In questo senso, il discorso Urarina associa una serie di fattori di grande impatto per la vita comunitaria, quali la contaminazione dell’acqua, il cambiamento di destinazione d’uso del territorio o l’individualismo, agli effetti di una rottura di un modello di diplomazia cosmica che deteriora i modi umani di pensare, comunicare e agire con i non umani. Gli indicatori della gravità dello stato di queste fratture si rivelano con precisione non solo nella frequenza con cui si registrano effetti associati all’attività di entità non umane dannose, ma anche nell’adozione passiva da parte degli esseri umani di comportamenti considerati una minaccia per la vita comunitaria e sociale, fattori che accelerano la perdita delle “parole”, dell’interruzione di un dialogo interspecifico, che alimentano il Disastro costantemente sul punto di divenire irreversibile.
Emanuele Fabiano
Dottore di ricerca in Antropologia ed Etnologia presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales de Paris (EHESS), è ricercatore posdoc del progetto “ECO – Animals and Plants in Cultural Productions about the Amazon River Basin” finanziato dal European Research Council of the European Commission (ERC Consolidator Grant nº 101002359) e ricercatore presso il Centro de Investigaciones Sociológicas, Económicas, Políticas y Antropológicas – CISEPA (Perú). Attualmente lavora nell’Amazzonia peruviana con comunitá urarina, shipibo, tikuna e kukama.