Un salto di paradigma: la natura come un soggetto legale

di Andrea Staid

uomo-leone bn novantatrepercento.it
foto da: https://catania.liveuniversity.it/2017/04/21/unict-a-scienze-biologiche-conferenza-dal-titolo-tra-uomo-e-animale

Viviamo una contemporaneità segnata dai disastri ecosistemici, ogni giorno dobbiamo sempre di più fare i conti con il cambiamento climatico. Questa crisi ecologica e sociale è dovuta soprattutto ai nostri stili di vita non sostenibili ma anche al modo in cui ci vediamo come specie nel cosmo. Siamo una società estremamente antropocentrica dove tutti i viventi che ci circondano sono oggettificati, ovvero completamente svuotati da diritti e pensati come merce. Usiamo tutto solo per il nostro benessere e separiamo nettamente il nostro concetto di cultura dalla natura, senza renderci conto che ne facciamo parte. Questo conflitto tra natura e cultura che noi, abitanti dell’Occidente moderno, abbiamo preso a paradigma del mondo, è solo una delle visioni possibili, create dagli esseri umani per potersi adattare a vivere nell’ambiente che li circonda. Per questo risulta immediatamente comprensibile che il nostro modo di pensare l’ecologia, il concetto stesso di “preservare la natura” è una costruzione culturale relativa al suo contesto di produzione e di fatto non universalmente comprensibile.
Non è così semplice capire questa separazione natura/cultura al di fuori dell’Occidente, è importante comprendere che questa visione del mondo non caratterizza tutti i gruppi umani presenti sulla terra, ci sono tanti modi culturalmente specifici di pensare, immaginare e relazionarsi con il concetto di “natura”.
In contrasto con la cosmo-visione occidentale, che tratta spazi naturali come semplici e inerti fonti di risorse materiali a esclusivo vantaggio dell’essere umano, ci sono altri modi di concettualizzare il vivente, dove il mondo “naturale” è composto da soggetti e dalle relazioni comunicative che tali esseri intrattengono tra loro e con noi animali umani. «Il modo in cui gli altri generi di esseri ci vedono è importante. Il fatto che altri esseri possano vederci, cambia tutto. Se anche un albero o un giaguaro hanno una rappresentazione di noi, allora l’antropologia non può più semplicemente limitarsi a esplorare le rappresentazioni che le diverse società producono. Questi incontri con altri esseri ci spingono a riconoscere il fatto che vedere, rappresentare e forse conoscere, o persino pensare, non sono questioni esclusivamente umane» (1).
È proprio da una concezione miope della natura che pone homo sapiens al centro che inizia il disastro ecosistemico che caratterizza la nostra epoca storica, ovvero l’epoca dell’antropocene. Gli animali umani posti al di sopra di tutto, che per realizzare il loro “benessere” hanno trasformato il resto degli esseri viventi in oggetti, la cui unica funzione è quella di servire come mezzi per la vita dell’uomo.
Pensare che ci siano degli esseri culturali e altri naturali è una “nostra” specificità, ci sono comunità umane sparse per il globo che considerano gli animali e le piante come delle persone o meglio come dei soggetti piuttosto che come degli oggetti.
Nella mia esperienza nel Sud-Est Asia quando cercavo di capire insieme agli abitanti indigeni Hmong e Dzao di quei luoghi cosa fosse per loro la natura, mi veniva sempre descritta come una sorta di un unico insieme dove tutto è inserito, dove tutto ha spirito, perché gli spiriti abitano tutte le cose e possono controllare la vita sotto forma di energie, perciò devono essere interpellati, rispettati e propiziati in ogni momento importante per il gruppo e il singolo. Ci si deve muovere con attenzione e rispetto nell’ambiente che ci circonda perché tutto ha un’anima.
La mia ricerca etnografica negli ultimi anni si è concentrata attorno al tema della casa (2), quello che mi hanno insegnato le popolazioni indigene con le quali sono entrato in contatto è che anche le case sono vive, sono pensate e agite come organismi viventi che nascono, crescono, si possono ammalare e morire. Questo non significa che la casa è una persona, ma che la casa non può essere pensata solo come materia o meglio come merce. La casa nella maggior parte delle comunità indigene che ho conosciuto è un organismo elastico, aperto verso l’esterno, include non soltanto il costruito, ma l’ambiente di vita e i significati simbolici che le comunità vi iscrivono. Attenzione, comunità di viventi, non solo comunità di animali umani, ma società complesse abitate da animali, piante e montagne. Potremmo semplificare dicendo che è una casa di relazioni tra i viventi, o meglio che la casa è la natura.
L’uomo occidentale invece si sente e si è sentito il padrone e possessore della natura perché si è considerato superiore al mondo che lo circonda e ha smesso di percepire il mondo come un tutto. Stiamo cominciando a capire che il prezzo di questa cosmo-visione è un prezzo molto alto da pagare, che ha portato all’inquinamento e alla distruzione di tutto ciò che ci circonda e a una probabile estinzione della nostra specie.
Provando a semplificare le tante visioni culturali sulla natura potremmo dire che esistono quattro modi di concepire le relazioni con i non umani (piante e animali).

1. animismo, dove non c’è distinzione netta tra umani e non umani
2. naturalismo, solo gli uomini hanno un’anima e sono esseri superiori
3. totemismo, umani e non umani condividono una parte di caratteristiche
4. analogico, ogni essere umano e non umano è diverso da tutti gli altri

Come spiegato semplicemente da Descola, il primo modo consiste nel pensare che i non umani sono provvisti di un’anima o di una coscienza identica a quella degli umani, ma che essi si distinguono gli uni dagli altri grazie a corpi differenti che permettono loro di vivere in ambienti diversi, come è il caso dell’Amazzonia; il secondo consiste nel pensare che gli umani sono i soli esseri dotati di ragione, ma che essi non si distinguono sul piano fisico dai non umani, com’è il nostro caso da molti secoli; il terzo consiste nel pensare che umani e non umani condividono delle qualità fisiche e morali identiche che si distinguono da altri insiemi di qualità fisiche e morali condivise da altri gruppi di umani e non umani, com’è il caso dell’Australia; l’ultimo consiste nel pensare che ciascun umano è diverso da tutti gli altri, ma che egli è capace di intrattenere con gli altri rapporti di analogia come è il caso della Cina o del Messico (3).

Estrattivismo come paradigma del collasso climatico

L’estrattivismo è uno dei risvolti tragici della visione antropocentrica che il colonialismo ha imposto ed esportato praticamente in tutto il mondo. Estrattivismo e colonialismo sono strettamente collegati perché il motivo principale che ha portato all’espansione territoriale dell’Europa era la necessità di materie prime, un’impresa quella della ricerca di risorse che ancora oggi permane e anzi acquista sempre più forza, invadendo ogni territorio ancora libero e devastando con la sua impronta interi territori indigeni dal Perù al Brasile, dalla Colombia all’Argentina, dall’India al Myanmar, dalla Thailandia al Laos.
L’estrattivismo è stato una costante nella vita economica, politica e sociale di molti Paesi di quello che viene oggi chiamato “Sud globale”, sono proprio i paesi non occidentali a essere colpiti in misura maggiore da questa pratica predatoria.
Le foreste e la vegetazione sono state eliminate per fare spazio ad attività agroindustriali, mentre i deserti si sono diffusi e la fertilità del terreno si è ridotta a causa di troppi cicli di semina, pascolo e applicazione di prodotti chimici su larga scala.
Sappiamo che il mancato rispetto dei limiti del pianeta e delle sue risorse naturali ha un forte impatto sull’ambiente e contribuisce all’aumento delle emissioni di carbonio e del riscaldamento globale, ma non riusciamo a rinunciare a nessun tipo di comfort e preferiamo chiudere gli occhi davanti all’evidenza della crisi climatica che stiamo vivendo. Questa cecità, il non cambiamento delle nostre pratiche quotidiane, i nostri stili di vita, creano una significativa crisi ecologica che porta alla distruzione della terra, all’inquinamento dell’acqua e dell’aria, alla perdita di biodiversità e al deterioramento della qualità della vita delle comunità locali.
L’economia estrattiva è sicuramente una economia di conquista, di rapina e saccheggio, caratteristiche rese possibili proprio da questa separazione dell’umanità dalla natura; se homo sapiens è parte della natura, difficilmente può pensare e agire depredando territori, distruggendo montagne e uccidendo in modo seriale animali non umani. Nel corso della storia, il potere della legge di creare confini artificiali tra titolari di diritti e soggetti che ne sono privi, ovvero di delineare le divisioni tra chi conta come soggetto e chi no, è stato usato per rafforzare il dominio e il controllo sulle popolazioni e sui territori. La modernità, il colonialismo sono stati edificati sulla separazione giuridica tra l’essere umano come soggetto/padrone e l’essere umano come proprietà/schiavo, e da essa sono stati legittimati (4).

Animismo come resistenza al cambiamento climatico e all’ecocidio.

Pensare agli altri viventi come soggetti o dotati di un’anima può cambiare i nostri strumenti per difendere l’ecosistema del quale non siamo padroni ma partecipanti interconnessi agli altri viventi.
Fondare diritti della natura, per dichiarare soggetti giuridici gli ecosistemi, le foreste viventi, le montagne e i mari può essere una vera svolta nella comprensione di una “nuova” politica ecologica e sociale. Per esempio dopo anni di lotte delle popolazioni native in Ecuador oggi ai sensi della legge costituzionale, la natura, o Pachamama, è titolare di una serie di diritti inalienabili, come recita l’articolo 7 della costituzione: «il diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi».
Il punto cruciale è che, in difesa di questi diritti, gli individui, le comunità, e le nazionalità, possano agire legalmente di fronte a istituzioni pubbliche e tribunali. Nel mondo indigeno, la natura non ha mai preteso questi diritti, semplicemente perché essa è parte di un tutto più grande. Questi diritti servono come difesa, non come comprensione del vivente. L’attivista e giudice costituzionale Nina Pacari sottolinea che: «secondo la logica occidentale, è possibile concepire un contratto naturale. Nella visione del mondo delle popolazioni indigene, invece, non è necessario perché, secondo il pensiero olistico, violando i diritti individuali di una persona si violano i diritti della natura. Ne è un esempio lo sfruttamento petrolifero. Ma nel corso dei dibattiti gli ambientalisti hanno detto che era importante definire la natura come un soggetto dotato di diritti. Così ci siamo detti: troviamo un punto di incontro. Il risultato, dunque, è una norma di carattere interculturale, un concetto nuovo che può essere il paradigma per la conservazione della natura. (…) Diciamo che una persona o un individuo è un soggetto dotato di diritti; che i popoli o le identità come First Nations sono soggetti dotati di diritti; e che anche la natura è un soggetto dotato di diritti» (5).
L’incontro con visioni diverse dalle nostre, lo studio e la lettura delle etnografie degli ultimi decenni possono aiutarci a mettere in crisi le nostre monolitiche e occidentali convinzioni sul posto di homo sapiens nel mondo. Sono convinto che questo riposizionamento possa essere la base per costruire una società più ecologica ed egualitaria, senza confini di specie. Per farlo dobbiamo riuscire a decostruire le rappresentazioni precostituite che ci impediscono di concepire il cambiamento. Solo attraverso una sistematica messa in dubbio delle nozioni di certezza, verità e totalità possiamo rompere il muro di cemento armato che appiattisce il nostro possibile avvenire su un eterno, allucinato presente.


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1. E. Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, Milano 2021, p. 41.
2. A. Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi imparare a costruire, Add, Torino 2021.
3. P. Descola, Diversità di natura, diversità di cultura, Book Time, Milano 2011, p. 41.
4. U. Bienmann, P. Tavares, Forest Law-Foresta giuridica, Nottetempo, Milano 2020, p. 22.
5. Ivi, pp. 82-84.

 

 

Andrea Staid

Andrea Staid è dottore di ricerca PhD, È docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, di antropologia culturale presso Università statale di Genova, dirige per Meltemi la collana Biblioteca/Antropologia. Ha scritto: I dannati della metropoli (Milieu 2014), Gli arditi del popolo (Milieu 2015), Abitare illegale (Milieu 2017), Le nostre braccia (Milieu 2015), Senza Confini (Milieu 2018), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi 2018), Disintegrati ( Nottetempo 2020), La casa vivente (ADD 2021), Essere natura (UTET 2022) I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna, Cina, Portogallo, Cile. Collabora con diverse testate giornalistiche tra le quali Il Tascabile e Left.