The Passenger Oceano, Iperborea

di Sarah Gainsforth

Canale di Beagle, foto di Lorenzo Pavolini, 2015
Canale di Beagle, foto di Lorenzo Pavolini, 2015

«Conosciamo meglio la geografia della Luna che quella degli oceani» scrive Björn Larsson nell’ultimo contributo contenuto nel numero di «The Passenger» dedicato all’Oceano, il secondo numero tematico pubblicato da Iperborea, dopo quello sullo Spazio. «Non sarebbe forse ora di costruirci un nuovo Nautilius, sull’esempio di Jules Verne? O, ancor meglio, di riadattare le navi militari del mondo e mandarle a esplorare l’ultimi orizzonte degli oceani?» domanda l’autore svedese.

Perché in effetti ignoriamo, con la nostra visione antropocentrica del mondo, ciò che non si vede perché è sotto la superficie del mare. Mancano la conoscenza e la riflessione, manca l’empatia, «quella facoltà che consideriamo a torto solo umana», per la vita marina. Il volume è allora uno strumento di esplorazione dell’oceano, attraverso una varietà di storie, sguardi e linguaggi, tra cui grafici, fotografie e schede, per rimediare alla «cecità del mare» che ci affligge.

Aprono il volume le parole dalla pioniera Sylvia Earle, l’oceanografa più famosa del mondo, prima persona a camminare in solitaria sul fondale oceanico, intervistata da Kerstin Forsberg, biologa della conservazione, in Un’educazione oceanica. La nostra esplorazione del mare inizia con le voci di due donne che raccontano l’origine del proprio interesse, del proprio amore, e poi del proprio percorso professionale dedicato all’oceano, «la biblioteca della vita», come lo descrive Earle («quando t’immergi sott’acqua, è come immergersi nella storia della vita sulla terra»). Per entrambe l’origine della curiosità per il mondo sott’acqua è collegata alla figura della madre. Un libro donato a una, un’onda che travolge l’altra. Earle ha tre anni, la madre – che «aveva un grande senso di empatia» – avrebbe potuto ripescarla, racconta. Invece la vede sorridere e la lascia saltare di nuovo dentro l’oceano. Non sa che nel 1970 Earl guiderà una spedizione di acquanaute che resteranno sott’acqua, studiando l’oceano, per due settimane.

Oggi, racconta, abbiamo perso tantissimo: centinaia di milioni di tonnellate di animali catturati, uccisi, «considerati come massa e come prodotti, come fossero cose, usa e getta». L’oceano è stato anche ritenuto un’enorme discarica. Cambiare paradigma, prospettiva, conoscere il mare anche grazie all’accesso di informazioni che abbiamo oggi, smettere di avere un impatto, di sovrasfruttare il mare con la pesca eccessiva, di pensare alla biodiversità come una “risorsa”, invece che come “vita”, accendere l’interesse delle persone: questa deve diventare anche la nostra missione, perché l’oceano rende possibile la nostra esistenza.

Nelle pagine che seguono ci immergiamo dentro il mare, nella sua vita e nelle storie di coloro vi lavorano e vi abitano. Impariamo come nascono le onde, come da piccole increspature originate dall’attrito tra la superficie dell’acqua con il vento si trasferisca l’energia cinetica. Ci sono tanti tipi di onde, ci sono modi per misurarle, parole per definirle e descriverle.

In Dove ci sono le onde troverete storie Richard Hamblyn racconta il nostro rapporto con le onde. Dal Diluvio universale in poi, verrebbe da dire, il mare è per noi un simbolo potente, qualcosa che invita alla riflessività. Lo sapeva bene lo psicoanalista Carl Jung, secondo cui il mare è il simbolo dell’inconscio profondo, «fonte di tremendo fascino e al tempo stesso limite naturale che mai è possibile attraversare con superficialità».

Il mare è anche il mezzo attraverso cui viaggia il “novanta percento di tutto”: le merci, trasportate su più di centomila navi – le navi cargo sono solo seimila, ma la più grande può trasportare oltre ventimila container. Dagli aerei che prendiamo per spostarci rapidamente da una parte all’altra del globo questa attività, questo flusso di navi che affollano gli oceani, ci sfugge, non la vediamo. Ce la racconta Rose George, giornalista e scrittrice britannica, autrice del libro Ninety percent of everything (Metropolitan, 2013), da cui l’articolo Il novanta percento di tutto è tratto. A bordo della Kendal, una nave della principale compagnia di portacontainer al mondo, la Maersk, George racconta la dura vita dei marinai, dimenticati in mare durante la pandemia – a luglio 2021 circa 250mila marinai non erano ancora riusciti a tornare a casa dalle loro famiglie, ci informa una delle schede che arricchiscono il volume. Qui nessuno comanda, tranne l’oceano. Attraversiamo il canale di Suez, scopriamo come funziona la navigazione e i suoi codici non scritti, l’interazione non sempre cordiale tra marinai, gli interessi commerciali e le cifre astronomiche in ballo, la minaccia dei pirati e quella di incidenti, come la caduta di container e del loro contenuto in mare – papere, scarpe e altri oggetti che viaggiano per chilometri, e che sono serviti a capire come funzionano le correnti.

Ancora, un bellissimo reportage sull’inseguimento più lungo della storia marinaresca, quello che ha visto il capitano dell’organizzazione ambientalista Sea Shepherd catturare la Thunder, una nave di cacciatori di frodo, la più ricercata al mondo, «quella a cui burocrati, funzionari e polizie marittime di quattro continenti stanno dando la caccia, che è stata citata in molte occasioni e oggetto di convegni e seminari», in cima alla lista nera e «oggetto di una caccia ininterrotta». Una nave fantasma che compare all’improvviso per svanire subito dopo, scovata il 17 dicembre 2014 nell’Oceano Antartico dalla Bob Barker, la nave di Sea Shephers, e inseguita, fino all’epilogo, per tre mesi. Il racconto di questa vicenda, “Caccia alla Thunder” di Eskil Engdal e Kjetil Sæter, è avvincente.

Cambiano prospettiva e siamo nel mare delle Azzorre, tra gli animali marini che più hanno sofferto, nei secoli, la nostra violenza: le balene, e in particolare i capodogli. Oggi sarebbero 360mila gli esemplari sparsi negli oceani. Ma, prima della diffusione su scala globale dell’homo sapiens «i capodogli rappresentavano la più grande biomassa di mammiferi sul pianeta», scrive Philip Hoare in Il mare dentro. Sono i dinosauri del presente, animali intelligenti, empatici e altamente sociali. Dal punto di vista emotivo, potrebbero essere più sviluppati di noi, hanno un codice di comportamento sociale e forse anche morale. Dotati di un sonar acutissimo, non solo parlano, interagiscono e comunicano, ma sono in grado di vedere attraverso gli oggetti solidi, di distinguerne le strutture interne. L’oceano, visto da qui, è un mondo sublime. «Trovarsi a fluttuare sopra la pinna di una balena, in un tempo che sembra muoversi al rallentatore, è una specie di sogno, perché non c’è niente di paragonabile sulla terra».

In Acque profonde Tabitha Lasley ci porta invece tra le storie degli uomini che lavorano sulle piattaforme petrolifere, costretti ad andare sempre più lontano man mano che i giacimenti si esauriscono. Quella del petrolio è una storia di rotture. Con il petrolio si esauriscono, spesso, le relazioni degli uomini sulla terraferma. E si rompe il rapporto con l’oceano. «Molte riserve sono racchiuse sotto i fondali marini. Anche quando il processo estrattivo va a buon fine, sconvolge l’ecosistema circostante. Le indagini sismiche disturbano pesci e mammiferi, le trivellazioni rilasciano inquinanti nell’acqua, la combustione di gas avvelena l’aria, le piattaforme sono ancorate con piloni conficcati nel fondale oceanico». Le trivelle, insieme agli uomini, si spostano, e distruggono tutto.

«L’oceano, che può sembrare a prima vista così omogeneo, sempre uguale, in realtà è fatto di vortici, di fronti, di correnti di infinite forme e dimensioni, di acque diverse che si passano accanto, si incontrano, si scontrano». In un testo a quattro mani, Il navigatore e lo scienziato, il velista Giovanni Soldini e il climatologo Antonello Provenzale ci insegnano tutto su correnti, vortici e iceberg, sulla relazione tra i venti e il mare, sullo scintillio del plancton. Uno, il marinaio, conosce il mare attraverso il corpo e le sensazioni, l’altro, lo scienziato, lo ha studiato. Le loro voci convergono in un unico racconto. La potenza della corrente del Golfo, «un fiume nel mare, profondo, poderoso», che «si sposta, si agita, si ritorce in meandri che possono strozzarsi, generando vortici che sopravvivono per mesi, vagando sull’oceano», sta diminuendo. È possibile che abbiamo interferito con i meccanismi della natura. «Vedremo, nei prossimi anni, cosa succederà».

Se ne saranno accorti, forse, i personaggi di I vagabondi del mare. Un popolo di persone normalissime ma avventuriere, che va verso l’ignoto accettando di perdere certezze, per partire verso il mare aperto. Lo sguardo curioso di Valentina Pigmei ci conduce nella comunità indigena dell’oceano tra coloro che abitano su barche, che si aiutano e che cooperano e che, come Marco Rossi, sono disposti a pagare il prezzo della libertà, la perdita della protezione. «Alla base di questi progetti di vita ci sono sempre storie, racconti, libri». Ci sono ossessioni e passioni che niente hanno a che vedere con l’etica del ‘mollo tutto’ e che conducono alla scoperta dell’essenziale. Scopriamo le scelte, i pensieri, la vita quotidiana, l’arte della manutenzione della propria casa, la barca, e l’umiltà, la pazienza e l’assenza di ruoli di genere tra i vagabondi del mare. E quel senso di scoperta che, secondo qualcuno, non esiste più.

In Il richiamo della corrente Simon Winchester ci porta indietro nel tempo per ripercorrere le teorie sull’arrivo dei primi abitanti della Polinesia, prima di salire a bordo dell’Hōkūle‘a, una canoa a vela costruita a mano sul modello delle tradizionali wa‘a polinesiane a lunga percorrenza. Negli anni Settanta questa barca ha solcato il mare tra le Hawaii e Thaiti senza strumenti moderni, solo con le antiche tecniche di navigazione, il wayfinding, l’arte di orientarsi in mare, un’arte quasi scomparsa con la colonizzazione occidentale. La sua riscoperta e il rinascimento hawaiano che ne è seguito, grazie a un uomo iniziato ai suoi misteri a sei anni, è emozionante: erano seicento anni che non si tentava un’impresa simile. Il viaggio, non più di conquista e di assoggettamento («come la maggior parte dei nostri») ha trasmesso un messaggio straordinario anche a chi sta di là del tratto di oceano attraversato: «a colpire così tanto i giapponesi fu la consapevolezza che anche loro erano un popolo del Pacifico al pari di polinesiani e micronesiani, di papuani e melanesiani. Che in qualche modo erano tutti uniti – praticamente, ma anche spiritualmente – da un oceano che doveva essere considerato a ragion veduta più un collegamento che un ostacolo». Il Pacifico, dove l’Oriente incontra l’Occidente, «non dovrebbe essere un posto dove, dopo anni di conquiste e dominazioni, ora temiamo solo un confronto e uno scontro. Dev’esserci un altro modello. Il nostro approccio nuovo e più contemplativo può indicarci quale».

I consigli di lettura di Larsson e una playlist a cura di Ambrogio Beccaria chiudono il volume, un lavoro prezioso, e un viaggio di conoscenza dell’oceano, dalla cui salute dipende il nostro futuro.

 

Sarah Gainsforth

Scrittrice freelance, si occupa di trasformazioni urbane, abitare, diseguaglianze sociali, gentrificazione e turismo. Scrive soprattutto per L’Essenziale (Internazionale). È autrice di Airbnb città merce, Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (Derive Approdi, 2019), finalista Premio Napoli 2020; Oltre il turismo, Esiste un turismo sostenibile? (Eris Edizioni, 2020); Abitare Stanca. La casa: una storia politica (Effequ 2022). Vive e lavora a Roma.