Ciò che attende sognando

di Matteo Trevisani

Verso lo stretto di Le Maire, foto di Lorenzo Pavolini, 2015
Verso lo stretto di Le Maire, foto di Lorenzo Pavolini, 2015

C’è un punto preciso, nel Mar Glaciale Artico, che segna la posizione del cimitero dei satelliti e dei rottami spaziali. Ha un nome bellissimo, che solo pronunciandolo ti mette addosso una strana sicurezza circa le possibilità che uno ha di vivere una vita davvero oggettiva: è il punto più distante da tutte le terre emerse, è il Polo geografico dell’inaccessibilità. Ho sognato spesso di trovare da qualche parte, dentro di me, un posto del genere, un posto in cui rinchiudermi per vedere le cose che accadono da un punto di vista così primordiale da non avere riferimenti simbolici contemporanei. Un posto così solitario e così lontano dal mondo che gli esseri umani più vicini sarebbero, in uno strano cortocircuito, gli astronauti che orbitano nella stazione spaziale internazionale. Un posto inaccessibile, se non al prezzo di violente tempeste e di violente solitudini, talmente lontano da tutto che gli enti spaziali governativi ci mandano a morire per sicurezza le loro macchine. C’è però una città, vicino a quel cimitero spaziale. Sul fondale di quell’inacessibilità è posta da Howard Phillips Lovecraft, la morta città di R’lyeh, dove il sacerdote dei grandi antichi, coi suoi tentacoli e la pelle verde in decomposizione, riposa in un sonno simile alla morte, aspettando che nuove stelle si allineino per celebrare il suo ritorno. I suoi sogni sono inaccessibili come il punto in cui è sprofondato. Il mare di Lovecraft è il ricettacolo di passaggio dal non-formato al formato, dove il tempo si cristallizza in un sonno eterno, colmo di sogni che ribollono, e che giungono alla superfice della mente dell’uomo saggio come distrazioni che increspano il filo dell’acqua. Intanto

nella sua dimora di R’lyeh, il morto Cthulhu attende sognando.


Il tempo e l’acqua

Ha senso: la dimora di alieni dèi ancestrali è nascosta dall’unico panorama preistorico presente oggi sul pianeta. Nulla, sulla terraferma, è come era un tempo. Il paesaggio terrestre cambia col passare degli anni, col mutare della qualità e della quantità degli agenti atmosferici, cambia col mutare della flora e della fauna. Ogni scorcio che vediamo oggi sul pianeta è mutato e perfino la volta celeste, con le sue esplosioni e la nascita di nuove stelle è sempre diversa. Ma l’oceano no. A un occhio che milioni di anni si fosse potuto posare in un punto qualsiasi dell’Oceano Pacifico avrebbe visto esattamente quello che vedrebbe oggi: un fermo immagine della preistoria nel suo svolgimento, prima della nascita dell’umanità, prima della nascita della vita stessa. È forse dunque l’acqua dell’oceano che lega il nostro futuro possibile alle ragionevolezze perdute dell’ancestrale: traghetta il primo nel campo del secondo, divenendo un ventre gravido di simboli. All’inizio di tutto, dice la Genesi, lo spirito di Dio veleggiava sulle acque. Era una realtà buia, perché non esisteva occhio che comprendesse la luce, eppure un luogo che sta prima degli altri che verranno dopo la creazione è proprio il mare. È qui che è possibile cominciare prima di tutto a pensarlo, l’oceano prima e dopo l’uomo. Il soffio divino veleggia sul tempo che è eterno, su un tempo che è Dio.

La tomba vuota

Da bambino avevo l’impressione di avere un rapporto speciale col mare. Lo dico con l’imbarazzo delle sensazioni che si ricordano a malapena, ma che si sanno indubitabili. Ma ci ero nato davanti, e benché non l’avessi mai amato con la sguaiata allegrezza agostana con il quale l’amavano i miei amici, mi pareva di rispettarlo, di capirlo. Anni dopo seppi che la mia famiglia aveva dovuto trarre dal mare i corpi di molti figli, e di altri seppellire le tombe vuote, perché dei loro naufragi a riva non erano giunti i legni ma soltanto le notizie dei loro naufragi. Il mio sgomento iniziale fu quello per l’ignoranza: noi li avevamo dimenticati, avevamo dimenticato i loro nomi e l’esistenza stessa di quelle morti. Ci era rimasta soltanto una vaga credenza, una leggenda, dei nomi su alcune lapidi, o nei bollettini delle associazioni di portuali. Oggi il mio sgomento è non aver capito ciò che questa mancanza aveva prodotto, non aver capito che cosa meritassimo in cambio di questi tributi al mare. Meritavamo la solitudine e la povertà e l’attesa di un ritorno che non ci sarebbe stato. Forse ancora oggi subisco l’effetto di quelle carenze antiche. Come un paesaggio primordiale le mie paure e le mie angosce sono marine, oceaniche, acquoree. Ma ovunque, a connettere le navi sopra le onde, la superficie e il fondale, è una tensione che come una corrente vivifica tutto quello che l’oceano mostra e cela insieme. Grande madre, serpente-fiume che circonda la terra conosciuta, ricettacolo di mostri, presagio d’oltretomba irto di isole metafisiche: come una famiglia può soltanto essere raccontata, un oceano di simboli può soltanto essere navigato.

Chiamatemi

L’avventura oceanica per eccellenza, quella del Pequod e del suo tragico equipaggio, inizia con un nome biblico, Ismaele. Ismaele è il figlio ripudiato di Abramo, figlio della schiava Agar, a cui – in una delle pagine più belle dell’Antico testamento – Dio promette un popolo. Ma l’Ismaele che sale sul Pequod non ha un popolo, in fin dei conti non ha nemmeno una terra, dato che respira e racconta e sopravvive nell’interstizio tra due mondi, il regno di Achab e quello della Balena. Forse è proprio lì che le cose hanno lo spazio per accadere, al limitare di qualcosa, ma forse i due luoghi, il cuore di Achab e l’oceano non sono poi così dissimili. Entrambi sono tombe pronte ad accogliere la vendetta e la sconfitta, la cultura e la natura, il matraccio ermetico dove si distilla il destino del mondo. È all’università, durante un corso di Filosofia dell’Intersoggettività che scoprii che Ismaele abita vicino al Giona biblico. Non tanto per la balena, quanto appunto per il destino che li attende. Nel racconto biblico il signore comanda a Giona di andare a predicare a Ninive, ma Giona si rifiuta, sbraccia, ha paura, scappa. Sale su una nave e durante il viaggio l’equipaggio deve affrontare una terribile tempesta. Giona sa che è a causa sua che tutto questo sta accadendo e quando lo svela i suoi compagni lo lanciano in mare. Lì viene inghiottito da un grande pesce e tre giorni dopo viene vomitato sulla spiaggia vicino Ninive. Il destino si è compiuto, la gettatezza di Giona anticiperà la Geworfenheit heideggeriana, l’uomo gettato nel mondo. Ismaele si salva dalla furia della balena e sopravvive per raccontarne la storia. E qui l’oceano si fa sfondo, fondale e teatro contro cui le miserie umane possono essere messe in scena, simile a un Dio per vastità. Il mare diventa l’unica vita reale.

Perché, al tempo del vostro primo viaggio come passeggero, avete sentito in voi un tal brivido mistico, non appena vi hanno detto che la nave e voi stesso eravate fuori vista da terra? Perché gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro? Perché i Greci gli fissarono un dio a parte, e fratello di Giove? Certamente tutto ciò non è senza significato. E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto.


Una storia del mare

La chiave di tutto è riconoscere nell’acqua il fantasma della vita. Interessante, ma navighiamo oltre. A fare da contraltare nell’immaginario letterario ad Achab c’è invece Santiago, il pescatore cubano la cui storia viene raccontata da Hemingway in Il vecchio e il mare. Anche qui la lotta con l’elemento marino ha qualcosa di tragico e di metafisico insieme, epitome di qualcos’altro che si muove nel cuore dei protagonisti.

«Mi hanno battuto, Manolin» disse. «Mi hanno proprio battuto».
«Ma non ti ha battuto lui. Il pesce».
«No. Davvero. È stato dopo».

Santiago sta per giorni sulla sua barca, a largo nell’oceano, a lottare con un marlin di cinque metri. Più che col pesce il pescatore lotta contro se stesso, nell’unica lotta a cui abbia davvero senso partecipare. Alla fine il pesce gli si abbandona, Santiago lo lega alla barca e lo trascina alla capanna. Ma ecco che arriva il dopo, i pescecani che divoreranno la sua preda. Eccolo di nuovo, il fantasma della vita, scarnificato e portato a riva da un uomo stremato che pure ha vinto la sua lotta. Rimane qualcosa di folle e sconclusionato in chi riesce a fidarsi del mare. Leggiamo David Foster Wallace, in Una cosa divertente che non farò mai più:

Io, che prima di questa crociera, si può dire, non ero mai stato sull’oceano, ho sempre associato l’oceano al terrore e alla morte. […] A scuola sono arrivato al punto di scrivere tre relazioni sul capitolo “Il naufrago” di Moby Dick, che è il capitolo dove Pip il mozzo cade in mare e impazzisce per l’immenso vuoto in cui si ritrova a galleggiare. E ora che insegno, parlo sempre della storia orribile di “The Open Boat” di Crane, e rimango molto deluso quando i ragazzi trovano il racconto noioso o semmai del genere avventuroso-brillante: voglio che provino lo stesso terrore oceanico a livello spinale che ho sempre provato io, la percezione del mare come un nada primordiale, senza fondo – abissi popolati da esseri con denti affilati che risalgono verso di te alla velocità di una piuma che cade.


L’incubo e il tifone

E in effetti, in quanto gigantesca matrice divina di entità sconosciute, l’oceano popola la mente dei sognatori, diventando incubo. La simbologia onirica dell’oceano dice tutto e il contrario di tutto, ma nell’accezione del pericolo di ciò che non si conosce, di ciò che è assolutamente altro, le barche degli onironauti ballano su e giù con le onde.

Il capitano Mac Whirr aveva navigato sulla distesa degli oceani allo stesso modo in cui alcuni uomini sfiorano appena gli anni della loro esistenza per calarsi poi dolcemente in una placida tomba, senza aver conosciuto nulla della vita sino all’ultimo, senza mai aver avuto l’opportunità di vedere tutto quanto essa può contenere di perfido, di violento e di terrificante. In mare come in terra, esistono uomini a tal punto fortunati, o a tal punto disdegnati dal destino o dal mare.

In Tifone, uno dei capolavori di Conrad, il capitano Mac Whirr entra in un incubo. È a bordo di un piroscafo siamese quando una violenta tempesta tropicale si abbatte sull’imbarcazione. Il capitano è un uomo debole e testardo insieme, la cui sola presenza desta ironia da parte di tutto l’equipaggio, probabilmente l’incubo della sua vita sono già le vessazioni, e il tifone non è altro che il parossismo, la perdita di controllo di una persona sulla sua vita. Eppure egli naviga nell’incubo, anche in mezzo alla catastrofe imminente, assume il controllo e tiene la rotta dirigendosi dentro il tifone. Forse è la sua iniziazione: alla fine, quando il piroscafo sarà entrato nell’occhio della tempesta e tutti saranno in salvo, egli non sarà più come chi vi era entrato prima. È di un’altezza diversa, ha uno status superiore.

Navigare necesse est

Vivere non necesse: dice Pompeo ai suoi marinai che non vogliono salpare per fare ritorno a Roma. Vivere non è poi così necessario, soltanto navigare lo è. Dopotutto i mammiferi sono usciti dall’acqua, riconosciamo il mare come la fonte primigenia di vita e il blu del pianeta non è altro che il riflesso delle sue masse oceaniche. Capire, qual è il significato delle immagini nei libri non è un compito facile, ma tutto ciò che possa aiutarci a pensare il nostro rapporto con l’acqua, in un’ottica futuribile è tutto ciò che puoi aiutarci a raccontare una nuova storia dell’umanità sul pianeta. La sopravvivenza di molte delle specie terrestri dipende dall’acqua degli oceani, e dalla sua capacità di generare ossigeno. Forse, tra molti secoli, quando i ghiacciai si saranno sciolti del tutto, e rimarranno solo le cime delle montagne più alte a fare da isole, in una visione insieme preistorica e postdiluviana, allora l’oceano si sarà ripreso il mondo, e sommergendo insieme a esso tutti i suoi significati.

 

Matteo Trevisani

Matteo Trevisani è nato a San Benedetto del Tronto nel 1986 e vive a Roma. Editor di Edizioni Tlon e redattore di «Nuovi Argomenti», ha scritto e scrive su diversi giornali e riviste e collabora regolarmente con «la Lettura – Corriere della Sera». Collabora con Edizioni di Atlantide per cui ha pubblicato Libro dei fulmini (2017), Libro del Sole (2019, Premio Comisso under 35) e Libro del sangue (2021). Tiene periodicamente dei corsi alla Scuola Holden su scrittura e genealogia.