E cosa farne di questa solitudine. Alcune prime riflessioni in difesa dell’abbandono.

di Azzurra D’Agostino

Foto di Sigurdur Fjalar Jonsson da unsplash.com

Stiamo nelle parole, il luogo in cui il mondo ci si rivela. Allora, colpisce quanto il termine “paesaggio” abbia a che fare con “paese”: c’è un legame profondo, si direbbe dunque, tra l’abitare umano come confine attorno a cui tutto il resto sta come contorno, sfondo.
Il paese al centro; tutto intorno, il paesaggio.
Ci sono alcuni termini che sento collegati e che chiedono di essere accolti e snodati: oltre a “paesaggio” (e al suo fratello “paese”), penso a “natura” e “comunità”.
Queste tre parole, dall’enorme portato sia evocativo che semantico, stanno subendo negli ultimi anni uno svuotamento dato dal loro venire ripetute in maniera ossessiva e martellante, spesso senza alcun rispetto o approfondimento.
Senza molta grazia, vengono sbattute sulle pagine dei giornali, nei bandi ministeriali o locali, nelle polemiche politiche, nelle ipotesi di rinascita e rigenerazione, nelle ostentazioni di difesa di un presunto “patrimonio”.
Qualche filosofo elegante e appartato, che ha a che fare con la poesia, o qualche poeta misurato e potente, che ha a che fare con la filosofia, ha tentato di togliere dal clamore queste parole bisognose di riparo e raccoglimento. Provo ad andare in quella direzione.
Penso a Paesaggi con figure assenti di Philippe Jaccottet, un testo già del 1970, restituito al lettore italiano dal poeta Fabio Pusterla nel 2009.
Penso a certi quadri di Morandi, che hanno tanto ritratto luoghi vicini a quella che è la mia casa, e che eternano, trasformandoli nel coglierli nella loro verità nascosta, i miei paesaggi, privi di esseri umani.
Scrive a tal proposito Jaccottet: «Anche loro, questi paesaggi di Morandi, a ben considerarli, sono ben strani. Tutti, rigorosamente, ‘senza figure’; e se la maggior parte comprendono delle case, queste ultime hanno spesso delle finestre cieche; le si direbbe chiuse, se non affatto vuote. Sarebbe tuttavia un errore vedervi l’immagine di un mondo deserto, di una ‘terra desolata’ come quella del poema di Eliot; non credo che Morandi, nemmeno senza volerlo o senza esserne cosciente, abbia voluto fare di questa parte della propria opera una deplorazione sulla morte delle campagne».
Nella prefazione, il traduttore a questo proposito considera: «Anche per Jacottet, non c’è dubbio, l’assenza delle figure non conferisce ai paesaggi nulla di desolato, di drammatico o di inquietante: le figure, umane o divine, non sono più in vista, certo, ma non sono neppure del tutto scomparse. Di loro rimangono segni, tracce smangiate come i muri e le pietre quasi inghiottite dal terreno o dalla vegetazione, echi distanti; oppure ombre, ricordi vaghi che sembrano riemergere al passaggio di un gregge di pecore, al volo improvviso di un uccello, allo sfumare della luce che si trasforma in luce diversa» (1).

Posso confermare con certezza di aver provato queste stesse sensazioni nelle passeggiate nei boschi dove vivo, una valle dell’Appennino tra l’Emilia e la Toscana, e che mi hanno portato a scrivere nel 2012 un poemetto che si chiama Canti di un luogo abbandonato.
Certamente l’abbandono da tantissimi anni spande il suo fascino che ammalia molti, tanto da aver creato delle specie di correnti e delle figure specializzate come abbandonologi e paesologi, contribuendo a diffondere da un lato l’interesse verso le cosiddette “aree interne” e dall’altro, di certo involontariamente, a costruire un grande fraintendimento.
Ho come l’impressione, infatti, di trovarmi a volte davanti a una sorta di mitologia del margine, chiamiamolo così, un luogo inventato in cui il trittico paese-natura-comunità diventa la nuova possibilità di redenzione. Una specie di risposta. Un antidoto ai mantra della disumanizzazione delle città, dei disastri ambientali, dell’inadeguatezza dei ritmi dettati dal sistema in cui siamo immersi.
Mi sono chiesta se, come poeta e come co-curatrice con Daria Balducelli di una rassegna che si chiamava «L’importanza di essere piccoli», ho contribuito a fomentare questo inganno.
Ogni giorno in cui seguo le attività dell’Associazione SassiScritti mi assillano queste domande e cerchiamo, come gruppo di persone che sentono la responsabilità che comporta agire in questi luoghi sempre reali e sempre simbolici, di dare direzioni rispettose di tali questioni.
Quando rileggo in pubblico i Canti di un luogo abbandonato, ora che sono passati dieci anni dalla prima venuta alla luce del poema, scopro spesso cose nuove in merito a quell’indicibile che mi venne incontro all’epoca della stesura. Forse, all’inizio, avevo frainteso quelle voci che mi arrivarono dal bosco come una possibile “deplorazione sulla morte delle campagne”.
Oggi mi pare di leggere diversamente quei segni e di percepire che nell’opera, ben al di là del suo autore, si manifesta una verità ripulita dalle buone intenzioni.
Come se la campagna, la montagna, volessero uscire dal grande malinteso di poterle rendere migliori, di farle assomigliare ai posti funzionali e ispirazionali che ci si aspetta, dalla città (intesa come visione centralizzata), che esse debbano essere. Nessuna vera desolazione, non proprio un rimpianto – che quelle cose, semmai, sono dei vivi.
Nel momento in cui un certo mondo è finito, e gli uomini si sono sottratti a quel tipo di relazione che avevano con il loro angolo di mondo, occorre fermarsi e smettere di fare ipotesi predatorie, di pianificare e progettare, di ideare soluzioni immediate e di rimettersi alla “comunità” che sta “nei margini”.
Queste cose, semplicemente, in questo modo adesso non esistono.
Non ci sono, forse sarebbe un inganno se ci fossero, villaggi felici, dove donne e uomini vivono insieme con spirito collaborativo e accogliente, in grado di prendersi cura della natura circostante come se fosse una riequilibrante sessione di mindfulness.
Questo non significa che dobbiamo disperare, o che non ci saranno nuovi modi di riabitare le montagne spopolate.
Quello che dico, è che queste montagne spopolate fanno parte di un mondo molto più grande, in cui attualmente non c’è davvero spazio per i tempi e i modi lenti e violenti che i luoghi non antropizzati richiedono. La natura non è quell’altra cosa rigenerante che sta contrapposta allo stress di città. A meno di non viverla come in un lungo soggiorno turistico (che può durare anche una vita).

Mi viene da pensare invece che proprio tutto è natura, e che quella umana, come è ormai banale considerare, non prescinde dalla cultura. Il che significa che il centro di Roma non è meno naturale del Limentra, il torrente che scorre qua dietro.
Solo che ogni spazio ha un suo linguaggio, un codice che in alcuni casi è molto difficile da decifrare (lo chiamavano genius loci?), perché chiede a noi di smetterla di essere propositivi e colonizzatori, pur con tutte le buone intenzioni del mondo, e di cominciare a uscire da sé per ascoltare.
Torno a Jacottet: «Non mi sono chinato sopra il suolo come l’entomologo o il geologo: non ho fatto che passare, accogliere».
Attenzione, il poeta qui non sta facendo considerazioni ingenue come potrebbe sembrare oggi che qualsiasi app di meditazione incita all’ascolto e all’accoglienza: no, qui sta parlando del tempo e, quindi, della morte. Tutto il tripudio di vita che cosparge le sue pagine, del resto, è un lungo canto al «deserto che ci parla di noi».
Questo atteggiamento potrebbe sembrare inutile e passivo, fin deprecabile nel momento in cui le provincie si svuotano e non si rendono esse stesse conto di tutte le loro potenzialità.
Ma potenzialità rispetto a quale scala di valori e di grandezza, mi chiedo?
Per anni e anni camminare tra i ruderi mi ha insegnato quanto diversa io sia, quasi noi tutti si sia, in quanto facenti parte di questo nostro mondo iperconnesso, da chi ha abitato quei ruderi.
E non basta svilire le case al punto da darle via a un euro, per rinnovare e portare a rinascita quelle frazioni lette come depresse, deprimenti, incapaci di cogliere quanta attrattiva possano avere, quale volano possano essere per nuove piccole imprese (commerciali).
Si guarda al mondo rurale spopolato con una doppia misura. Da un lato, come se fosse uno spazio altro, una specie di idillio che possa riequilibrare il rapporto uomo-natura, margine-centro; dall’altro, lo si tratta con lo stesso metro del sistema globale che domina tutto: se c’è modo di sfruttare una risorsa, è spreco non farlo.
La verità sta forse nel mezzo, ovvero che i monti, come le spiagge, i ghiacciai, le campagne, i luoghi nati e poi rimasti senza di noi, sono per forza di cose inseriti tutti nel modello umano vincente (chiamiamolo turbocapitalismo?); e che al contempo mantengono, qualora li si avvicini o li si attraversi senza nessuna vera ambizione, una qualità che ci richiama a delle scintille sovrumane che continuano a porci le stesse domande da millenni. Una di queste è il banale e abissale verso della Szymborska: «Come vivere?».

La vita quotidiana fuori dalle città è più simile, per certi aspetti, al pregiudizio che se ne aveva negli anni Sessanta, quando ci si voleva smarcare dalla scomodità, dal dialetto, dalla prospettiva chiusa, dalla miseria, dalle piazzette senza nemmeno un cinema, dagli ospedali lontani, dai vestiti grezzi, dalle scuoline pluriclasse, dalla grettezza dei pettegolezzi e da tanto altro che non ha molto di romantico.
Eppure, eppure.
La vita, fuori dalle città, fa accadere la vita diversamente. Non penso che sia per tutti allo stesso modo, ma pure il fatto di essere in pochi, di riconoscere il tempo che cambia da un incrocio di monti, la possibilità di non incontrare umani per giorni interi, o di salutare tutti quelli che incontri, di stare quotidianamente con alberi, fiumi, bestie selvatiche – questi sono comunque dei fatti che influenzano il nostro abitare e la relazione con la misura umana. Ci chiedono dove siamo, e come stiamo, come possiamo stare, nello spazio e tempo che abitiamo.
Forse, è sano che i ruderi restino ruderi. Che non diventino mai Bed & Breakfast. O forse, basta concederci un po’ più di tempo, tutto quello necessario a comprendere una lingua meravigliosa che ci parla senza che la possiamo subito capire.
Ci vuole molta attenzione a non trasformare in plastica un regno dei morti. Ci vuole molta cura per rendere casa gli antenati. Forse non siamo pronti.
Non basta la buona volontà a cui si appellano motivatori e life coach, per accorgersi che è il bosco che ci volge le spalle. E cosa farne di questa solitudine.

* * *

Il bosco di spalle
(inedito, parte di un progetto di installazione poetica sul dire addio alle cose, per voce, suono e 7 fotografi, in via di realizzazione)

Un tempo la poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi in armonia con la famiglia delle creature viventi tra le quali era nato, mediante l’obbedienza ai desideri della padrona di casa; oggi ci ricorda che l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i suoi capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali, attirando la rovina su se stesso e la sua famiglia. L’“oggi” è una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola; il cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; e il bosco sacro alla segheria. Una civiltà in cui la Luna è disprezzata come un satellite senza vita e la donna è “personale statale ausiliario”. In cui il denaro può comprare ogni cosa eccetto la verità, e chiunque eccetto il poeta posseduto dalla verità.
R. Graves


La pace del silenzio si dice
del silenzio tutto che non è mai silenzio,
ascolta, ascolta, il freno d’un moscerino,
la paura che batte nel petto del passero,
e poi rombi e anche mandibole che stritolano
e tanto altro che ci piace e non ci piace
e che lo stesso viene come se niente fosse
che tutto accade ma non per noi
è la vita, che fruscia come un vento
che si somiglia al soffio, che ricorda
come gli amanti dal profumo sorgano
che dal canto si scelgano gli animali
tra loro oh la vita un brivido leggero
attraversa la stanza copre le spalle
come un presagio di fantasmi e sventura
un morto t’è passato accanto la morte t’è
passata accanto e non nei campi con le tende
non nei campi bruciati non tra le braccia
sporche dei bambini coi pidocchi con le piaghe
la morte t’è passata accanto tu giocavi a carte
al tavolino la vita t’è passata la morte t’è passata
mangiavi il radicchio, o forse alla finestra
dietro ai vetri sognavi un’altra vita
che non è la tua, qualcosa che c’entra
coi cavalli, molte donne, dei fratelli,
o forse un pianoforte, un fiore nella giacca
il buio d’una sala dove non si applaude
perché è fatto divieto, si può solo trattenere
il fiato solo il silenzio perfetto del coro
dice che è accaduto davvero
sai come quando una cosa appare appena
nell’acqua, affiora appena, appena si lascia intuire
una felce poco prima di rientrare nel buio
il fiore di felce il fiore della saggezza
il fiore di felce nel buio che non esiste
e tu lì in mezzo lì con gli altri
lo vedi e non lo vedi lo sai e non lo sai
l’acqua, la superficie, il buio, il fiore, la cosa nascosta,
la risposta delle carte delle linee della mano
la vita è un po’ così anche, una cosa che c’è
e non c’è, un richiamo lontanissimo da fuori
che riconosci appena, ti volti, scavalli le gambe,
aggrotti le sopracciglia, poi no, niente,
non era niente, non era vero, non era reale
anche se non sapresti con certezza cosa voglia
dire vero, reale, niente o qualcosa ma tu ascolta
ascolta, tuonano lontani tutti i motori,
le cose rotte, le cose intere, tuonano tutte,
è così difficile parlare di natura,
di tutto quello oltre la finestra, oltre la fine
della strada oltre il muro oltre la carreggiata
che cosa bassa e vergognosa,
ingenua come quegli scemi che si pisciano addosso,
è così difficile dire: gli alberi, le piante,
è così difficile guardarli, toccare i tronchi ruvidi
che vanno via, è così difficile nominare il bosco che s’alza e s’incammina,
è difficile, accendiamo i motori, pensiamo che solo i palazzi contano,
solo le strade fatte con le macchine,
non sopportiamo di alzare gli occhi al cielo,
al bosco distante che ci volta le spalle,
non vogliamo, diciamo che non è vero,
sentiamo il pericolo,
fiutiamo che se nel cuore pulsante del tutto ci troviamo un silenzio,
una cosa tonda perfetta, una cosa che non ci chiede di essere niente,
che non ci chiede di essere migliori, che non ci indica la via,
che non ci interroga, che sta lì, pronta per essere contemplata,
contemplata e basta, non vogliamo,
perché se c’è una cosa a questo mondo che deve smettere
di venire, è la grazia.


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1. Entrambe le citazioni sono tratte da: P. Jacottet, Paesaggi con figure assenti, Armando Dadò editore, 2009

 

Azzurra D’Agostino

Azzurra D’Agostino vive sull’Appennino tra Toscana ed Emilia, dov’è nata. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, albi per bambini e romanzi per ragazzi. Scrive per il teatro e conduce laboratori di scrittura collettiva.