Paesaggi d’abbandono. Vacanze, scarti, avanzamenti

di Annalisa Metta

Franco Monari – Memorabilia 2008. Da http://www.kainowska.com/sito/postindustrial

Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi:
la locomotiva ha la strada segnata,
il bufalo può scartare di lato e cadere.
Questo decise la sorte del bufalo,
l’avvenire dei miei baffi e il mio mestiere.

F. De Gregori (1976)

 

Abbandonare significa lasciare, smettere di tenere, reggere, curare. È una ritirata ed è per questo che non si riesce a sopportare: anche quando non si dia come reato, l’abbandono pare abbia comunque il tenore della colpa. Più precisamente è un’omissione, è il mancato adempimento di un mandato di custodia e accudimento, di presenza vigile, attiva e sollecita. L’abbandono è una separazione, un distacco che si produce per effetto di disimpegno, noncuranza, infine di amnesia.
Le città sono ovunque disseminate di luoghi di cui ci si dimentica, eccedenti, accessori, inadatti o vani, dandosi un’amplissima casistica di ambiti non presidiati, di dimensione e carattere molto vario, singoli edifici, campi, interi nuclei abitati o comparti produttivi. Di solito, la gravità dell’omissione è direttamente proporzionale all’età e alla redditività del luogo disertato: è l’intreccio tra nostalgia, inadempienza e improduttività a rendere l’abbandono un oltraggio sia al culto della memoria sia alla prosperosità dell’avvenire. Abbandonare, infatti, significa anche far restare qualcuno o qualcosa in un luogo e non prenderli con sé − deliberatamente, per distrazione o dimenticanza − e per analogia, quando riferito al tempo, significa far restare qualcosa nel passato e non portarlo con sé nel futuro, facendolo così cessare. La colpa dell’abbandono emana perciò dalla combinazione tra il rimorso per l’interruzione del passato e il rimpianto per l’inagibilità del futuro, specie quando si ritenga quest’ultimo la prosecuzione ininterrotta di ciò che era anteriore e si pensi il tempo come uno scivolare lento, un moto rettilineo uniforme, senza attriti.
L’abbandono può coincidere con l’inazione e l’accidia, considerati vizio in città tornite per la produzione compulsiva, secondo il precetto del rendimento, dove l’inutilizzo di un luogo, quale esso sia, è immancabilmente un malfunzionamento, un errore, un difetto da correggere, e dove ciò (o chi) non funga e non produca non ha dignità di esistere, giacché disfunzionale. Non è un caso che nella città contemporanea la terra nuda non appaia quasi mai. È come se rendere produttiva la terra fosse una sorta di condanna o di destino: coltivare e addomesticare sono forme di conversione del mondo all’ordine morale del lavoro umano, al culto faustiano della vita activa, mentre l’inoperosità, l’inutilità e l’infruttuosità sono categorie non collocabili nell’ordinamento spaziale, estetico e politico del paesaggio della modernità.
L’abbandono è motivo di biasimo anche in luoghi privi di un valore d’uso derivante dalla loro frequentazione. È il caso, ad esempio, degli svincoli stradali o analoghi spazi inaccessibili lungo le infrastrutture della viabilità urbana, dove erbe spontanee crescono indisturbate, alte e rigogliose. La ragione del disappunto non è in un’opzione di gusto: da tempo l’estetica del “selvatico” − inaugurata da William Robinson agli inizi del Novecento e poi variamente ripresa con alterne vicende, in Europa e Nord America − è ben gradita, persino richiesta, è tendenza di successo nel progetto dei paesaggi del nuovo millennio, pubblici e privati, di piccola e grande scala. La contrarietà scaturisce piuttosto dall’inosservanza di principi di decoro e dignità, che si usa misura in termini di conformità a codici di buona condotta, di adesione ai valori e agli stili di vita che si vogliano o si debbano rispettare. La letteratura e il cinema americani ben dimostrano che sull’assiduità e sulla precisione dello sfalcio del prato del front garden delle case dei sobborghi si calibra la consistenza dello status sociale, economico, affettivo, persino religioso delle famiglie, con estenuanti competizioni tra vicini. Allo stesso modo, tenere a bada le erbacce in un’aiuola spartitraffico per i più non è una questione di utilità né di bellezza, ma una dimostrazione di diligenza e di rettitudine, dandosi il contrario come indice sospetto di inadeguatezza, indolenza o aberrazione. La manutenzione dei paesaggi urbani è prima di tutto un obbligo morale, giacché un giardino lasciato a se stesso è un giudizio sui fallimenti di chi, individuo o comunità, lo abbia prodotto e non abbia saputo curarlo, lasciandolo a un destino di selvaticità che, quando si manifesti al di fuori dei recinti delle riserve che le sono assegnati, ha in sé il germe del guasto e della devianza: «le terre incolte sono l’onta della natura e il disonore degli uomini, perché esse non permettono di ottimizzare i rapporti tra una popolazione e il suo territorio», ci ricorda Rémi Beau.

Eppure, la parola abbandono ha anche un altro significato. Sta per fiducia, intesa come «atteggiamento (…) che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui (…) possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità» (dal Vocabolario Treccani, 2022). L’abbandono è perciò il comportamento e lo stato d’animo di chi sappia affidarsi, mettersi in mani altrui o concedere a qualcun altro parte della regia o della responsabilità di un’azione. Abbandono sta perciò anche per allentamento costruttivo, inclusivo ed empatico, e richiede disarmo e speranza. In tal senso, abbandono ha il significato di incontro e di confidenza, è una forma di relazione complice e collaborante. Cosa accadrebbe se immettessimo questa accezione di abbandono all’interno del pensiero e del progetto della città? Cosa sarebbe dei paesaggi urbani se osassimo guardare all’abbandono in questa prospettiva progettante, di fiducia e di coraggio?
Probabilmente sentiremmo l’urgenza di verificare l’efficacia di un lessico ampio e storicizzato che, in diverse lingue e con diverse sfumature di senso, denota i luoghi abbandonati rimarcandone i caratteri di trascuratezza, contaminazione, oblio, difformità, in un’accezione indubitabilmente esecrante. Si compone di parole come brachen, brownfield, delaissé, drosscape, no-man’s land, wasteland, che in italiano diventano incolto, marginale, residuale, ecc. Parole diverse, ma tutte espressione di una qualche negazione − i luoghi che denotano “non” sono coltivati, “non” sono frequentati, “non” sono centrali, e così via – esito di una prospettiva parziale e pregiudiziale, giacché omettono che alla latitanza degli esseri umani spesso corrispondano la presenza e la cura di altre forme di vita, tra cui piante e animali, oltre che di quanti, tra gli stessi umani, quei luoghi a proprio modo abitino, per desiderio, occorrenza o fatalità.
Dal lessico delle amnesie urbane emana perciò uno stigma che è un giudizio sprezzante tanto sui luoghi quanto su coloro che vi trascorrono il proprio tempo, umani e non umani. Se, viceversa, si desse seguito al significato di abbandono come complicità o addomesticazione vicendevole, come patto fiduciario, lontanissimo da qualunque accezione di negligenza, rinuncia o sufficienza e al contrario intriso di un’intensa e convinta tensione desiderante, ci si accorgerebbe che i luoghi dell’abbandono possiedono un proprio statuto affermativo, che è insieme configurativo e politico, biologico ed estetico. Al loro cospetto ci si ritroverebbe per nulla pusillanimi ma al contrario tanto consapevoli di sé da esercitare con coraggio il rischio della meraviglia che scaturisce autentica solo quando si accolga l’alterità – l’altro, l’altrove e l’altrimenti − non come minaccia da cui guardarsi, ma come opportunità di avvenire. Come chiamare, dunque, i paesaggi dell’abbandono inteso come patto fiduciario, accordo negoziale di reciproca ingerenza e compromissione tra molteplici forme di vita e di creatività?

Si potrebbe forse chiamarli “paesaggi di vacanza”. Vacanza significa sospensione, quella che si produce per effetto della temporanea cessazione di un’attività, desiderata o forzata, programmata o imprevista. È perciò uno stato di eccezione rispetto alla normalità, al consueto stato produttivo, ed è intrinsecamente legata all’assenza e alla vaghezza. Vacuo, vago, vuoto, tra loro in profonda risonanza, valgono per inutile, fatuo, inconsistente, ma anche imprecisato, indefinito, possibile e potenziale. La vacanza è pertanto un’omissione che non necessariamente genera rimpianto o quanto meno lo mescola con impressioni diverse e dissonanti, come curiosità, attesa, trepidazione: la vacanza è laddove l’assenza si fa possibilità, promessa, speranza; dove il vuoto è capienza, dunque disponibilità e accoglienza; dove la paura e l’insicurezza incontrano l’incanto e l’interesse per ciò che è altro, sconosciuto, eventuale, per ciò che è futuro. Vaghezza ha peraltro anche un significato ulteriore, prossimo a innamoramento. E, infatti, vuote e vaghe, incerte e indeterminate, le vacanze urbane ammaliano, sono ambiti del vagheggiare, nel suo significato di desiderare e immaginare. A dispetto di ogni evidenza, sono luoghi del possibile invaghirsi, perciò di rivelazione e affezione, coinvolgimento e cura. Ancora, in italiano vaghezza sta pure per bellezza, grazia, leggiadria, diletto e piacere; non ultimo, vaghezza significa anche voglia o desiderio, che è un altro modo per dire progetto. Perciò, le vacanze non sono gli spazi dell’abbandono negligente, ma dell’abbandono come aspettativa di futuro e possiedono le proprie ragioni di esistenza qualificata e qualificante proprio in virtù della loro ambiguità − la vaghezza, per l’appunto − dell’essere insieme domestiche e selvatiche, curate e brade, conosciute e ignote.

Potremmo, ad esempio, chiamarli “paesaggi dello scarto”. Scarto in italiano ha un doppio significato. Il primo equivale a rifiuto, avanzo, cosa o insieme di cose di scarso valore; è sinonimo di residuo, il cui etimo è nel verbo latino residere con il significato di rimanere, star fermi, non muoversi. Al contempo, e in modo opposto, scarto designa un preciso tipo di moto, si usa per dire movimento improvviso, accelerazione, balzo, sterzata, evocando quindi la possibilità di aprire una nuova direzione e produrre un cambiamento; in questa accezione, non è un oggetto, una cosa o uno stato, ma un’azione, un comportamento, un atto performativo. Così intesi, i paesaggi dell’abbandono sono laboratori di sperimentazione di traiettorie inedite che possono scaturire invertendo sguardo e postura. La stessa idea di rifiuto, in fondo, traduce un posizionamento etico pregiudiziale che potrebbe essere scartato, cioè sottoposto a una deviazione dalle posizioni ordinarie: ad esempio, i particolati fini sono sostanze dannose per gli esseri umani e per molti altri organismi, ma per altri costituiscono un nutriente; al pari, i batteri possono essere nocivi, cionondimeno essenziali per alcuni processi biologici fondamentali. Se inserito in un contesto relazionale multispecifico, in un’alleanza di liberazione multispecie, come dice Marco Armiero, il nostro giudizio sullo statuto di scarto di elementi presenti nell’aria, nell’acqua o nella terra, potrebbe cambiare, con ricadute molto concrete sui processi metabolici delle città, che sono di fatto organismi biologicamente complessi e non artefatti inerti.

Ancora, potremmo chiamarli “paesaggi avanzati”, anche qui appoggiandosi al duplice significato dell’attributo. Avanzato designa infatti ciò che resta, è superfluo o inutile, perché obsoleto o perché non si sappia cosa farsene. Eppure, si dice avanzato ciò che è all’avanguardia e rappresenta il progresso, l’innovazione, ciò che è evoluto e progredito. I paesaggi dell’abbandono incarnano questa dualità: per un verso avanzano perché sono relitti, rovine, brandelli, dimenticanze e retri, per l’altro rappresentano dei laboratori sperimentali di innovazione nella direzione di un modello di città che possa celebrare le convivenze e le scoperte, dove l’avanzamento emerge proprio dall’arricchirsi di possibilità, in termini di esperienza, bellezza, salubrità, persino efficienza, che derivano dalla collaborazione con tutte le forme di esistenza con cui coabitiamo e coproduciamo il mondo. Per questo, in ragione della loro ambivalenza, i paesaggi avanzati stabiliscono una tensione dinamica con il progetto, chiamandolo a immettere l’abbandono, inteso come proposta e non come rinuncia, come costruzione e non come inadempienza, tra le pratiche con cui costruire i luoghi che desideriamo incontrare e abitare, assumendo l’indeterminatezza (innescare situazioni dall’esito aperto e ammettere ampi margini di imprevedibilità) e l’attesa (lasciare al tempo di fare il proprio corso e favorire la combinazione di agency molteplici) come strategie intenzionali e chiaramente orientate.

Negli ultimi quarant’anni, numerosi architetti del paesaggio hanno tradotto questo esercizio di ridefinizione nella realizzazione di spazi aperti urbani che interpretano l’abbandono come azione deliberatamente costruttiva in un sapiente equilibrismo tra le trasformazioni indotte intenzionalmente dal progetto e quelle scaturite dall’autodeterminazione dell’esistente. Autori come Gilles Clément, Louis Le Roy, Dieter Kienast, quanto meno nelle sue esperienze giovanili, Eduard Neuenschwander, e, in tempi più recenti, Georges Descombes, Harald Fugmann e Martin Janotta, Teresa Galì-Izard, Mathieu Gontier e François Vadepied, Gabriele Kiefer, Michael Triebswetter, Gunther Vogt, tra gli altri, ognuno con la propria cifra, praticano variegate forme di resistenza al riduzionismo binario tra città e natura, controllo e anarchia, normale e difforme, utile e inutile, collocandosi nello spazio intermedio delle ambiguità, delle incertezze, degli slittamenti, delle difformità e così aprendo nuove prospettive rispetto ai modi consueti di pensare e fare la città contemporanea, sul piano tanto concettuale quanto operativo. I loro progetti adottano strategie di successione ecologica per lentamente trasformare in foreste piste aeroportuali dismesse, collaborano con le erbe spontanee per disegnare praterie ad assetto variabile ai piedi di stadi da calcio, consentono ai fiumi di rideterminare il proprio alveo in pianure agricole, allestiscono substrati murari affidandoli alla libera colonizzazione di piante e animali, sottraggono alla frequentazione umana porzioni di suoli compromessi per consentirne l’autorigenerazione, affidano al pubblico la valutazione di come usare gli spazi, all’interno di una sollecitazione non autoritaria all’immaginazione, anche in tal senso co-progettante. Così facendo, invitano a riconsiderare lo statuto utilitaristico degli spazi aperti, quello secondo cui lo spazio urbano, tutto, ovunque, sempre, debba essere produttivo, con esiti misurabili e valutabili. Affermano la legittimità di spazi aperti anomali, dissimili, non conformi alla norma, dunque atipici, devianti, difformi, irregolari. In tal modo disinnescano l’atopia e la genericità dell’immaginario normato del paesaggio urbano, quello che ad esempio risuona nell’ossessione quantitativa degli indicatori prestazionali, della natura aritmetica, rimettendo al centro la necessità di una relazione contingente con luoghi specifici, reali, incarnati, accogliendo anche la possibilità, eccitante quanto spaventosa, di scompaginare le gerarchie e gli ordinamenti su cui si basa l’impalcato spaziale e simbolico della città. Ancora, così facendo, ci interrogano sulla necessità del controllo e della prevedibilità come accanimento profilattico per prevenire il rischio che il paesaggio urbano possa sorprenderci, spaventarci quanto incantarci. Sono progetti che nel darsi come luoghi dell’abbandono, nell’accezione di complicità con altre forme di intenzionalità, non si esauriscono in un prodursi predittivo e codificato e accolgono l’imprevisto, l’alea, l’accidentale, il circostanziale, come condizioni potenzialmente qualificanti, con cui negoziare. Dimostrano che la costruzione del paesaggio come pratica dell’abbandonarsi vicendevole è l’approntare situazioni, predisporre condizioni per l’accadere, dando occasione, spazio e tempo all’incontro con altre forme di esistenza e di competenza. Sono mozioni di fiducia e di speranza, invito alla collaborazione, non necessariamente pacificata, ma all’occorrenza pugnace e intrisa di conflittualità maieutica. L’abbandonarsi è il ritrovare fiducia nel progetto di paesaggio come scrittura condivisa e autenticamente avanzata.


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Breve bibliografia

Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana. Milano, Bompiani, 2017.
Marco Armiero, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale. Torino, Einaudi, 2021.
Rémi Beau, Éthique de la nature ordinarie. Recherches philosophiques dans les champs, les friches et les jardins. Paris, Publications de La Sorbone, 2017
Marshall Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità. Bologna, Il Mulino, 2012.
Lucius Burckhardt, Markus Ritter, Martin Schmitz, Why is Landscape Beautiful? The Science of Strollology. Basel, Birkhäuser, 2015.
Emanuele Coccia, “La fin du sauvage, pour la nature contemporaine”, in Jardins 9, 2020: 21-26.
Francesco De Gregori, Bufalo Bill. Roma, RCA, 1976.
Matteo Meschiari, “Quarto spazio. Luoghi di non-uso e ‘giardini nomadi’”, in Ambiente Società Territorio 4, 2007: 9-13.
Annalisa Metta, “Altri, altrimenti, altrove”, in Ri-Vista. Research for Landscape Architecture, 19(1), 2021: 192-203.
Annalisa Metta, Il paesaggio è un mostro Città selvatiche e nature ibride. Roma, DeriveApprodi, 2022.

 

 

Annalisa Metta

Annalisa Metta, architetto, phd in ‘Architettura dei parchi e gjardini’, è professoressa associata di architettura del paesaggio presso l’Università Roma Tre. Nel 2017 è Italian Fellow presso l’American Academy in Rome. Tra i suoi libri: ‘Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride’ (DeriveApprodi, 2022) e ‘Verso sud. Quando Roma sarà andata a Tunisi’ (Libria, 2018). Tra i fondatori di ‘Osa’, è autrice di progetti di parchi pubblici e giardini effimeri.