FC Bergman vs. Sergio Blanco: al Piccolo teatro ricordiamo di essere animali

di Riccardo Corcione

Zoo di Sergio Blanco, foto di Masiar Pasquali
Zoo di Sergio Blanco, foto di Masiar Pasquali

«Bisognerebbe stare dentro, e scendere, non nell’“animalità”, che non esiste, ma nella pista che ogni animale apre e ci lascia in dono, come una debole scia nell’immensità della natura».
J-C. Bailly, Il partito preso degli animali, 2015

Nell’ultimo anno, ho incontrati diversi animali a teatro: un gregge di pecore in Ultraficción nr. 1 / Fracciones de tiempo di El Conde De Torrefiel a Santarcangelo festival, un cane in ABSTRACT un’azione concreta di Silvia Rampelli/Habillé d’eau a Danae festival e insetti vari in Le rane di Marco Cacciola al teatro Fontana. Gli animali a teatro non sono una novità: Jan Fabre e Romeo Castellucci, per fare due nomi tra i più conosciuti, li hanno impiegati con una certa frequenza, ma la tradizione potrebbe risalire all’incontro fra Joseph Beuys e un coyote in una gabbia, durante la sua performance I Like America and America Likes me (1974).


Ultima forma dell’irruzione del reale nella scena contemporanea, l’incontro con l’animale conserva anzitutto una imprevedibilità e una “assenza di finzione” che aprono a scorci politici e filosofici, oltre che simbolici. Proseguendo su questo filone, due spettacoli recenti, ospitati dal Festival internazionale Presente Indicativo del Piccolo teatro di Milano, offrono due prospettive molto diverse su questo incontro: The Sheep Song, della compagnia belga FC Bergman, e Zoo, scritto e diretto dall’argentino Sergio Blanco.

 

Il primo si apre e si chiude con un piccolo gregge di pecore. Dal gruppo emerge un esemplare (interpretato da un performer) che comincia a camminare su due zampe e compie un’ascendente e poi discendente favola sul cambiamento in un mondo ostile ai cambiamenti: una “parabola del marginale” nel mondo moderno, conclusa con il ritorno alla “nuda” animalità del gregge, con l’abbandono di una società più opprimente di una gabbia.

Attraversando paesaggi fortemente simbolici, la pecora antropomorfa compie un lungo cammino (esaltato e danzato grazie ai tapis roulant sul palco) in cui si riconoscono folle ostili, inseguimenti, minacce più o meno esplicite, e infine un figlio che muore appena comincia a vivere, mentre operazioni chirurgiche gli danno un aspetto sempre più umano. Ma cosa giustifica la presenza in carne ed ossa degli animali (compreso un pastore tedesco che per due volte entra ad abbaiare al protagonista) in questa favola carica di allusioni, in cui trova spazio pure un ironico e “nietzschiano” teatrino di burattini sulle passioni umane e sulle repressioni di un dio/super-io?

La risposta ci porta dritti alla polifonica potenza di The Sheep Song, un affresco in movimento in cui tutto (anche l’accompagnamento di un banjo) concorre allo scivolamento costante da un’immagine all’altra e da una dimensione all’altra: favolistica, onirica, simbolica (con molteplici allusioni al mito antico). In questa metamorfosi incessante il racconto intessuto dai Bergman diventa puramente metaforico e si illumina di allusioni filosofiche, antropologiche, sociali, politiche. È proprio in un discorso così complesso che – a differenza di altri spettacoli – la presenza degli animali trova senso: non in un discorso sul reale in contrasto rispetto alla finzione umana e teatrale, ma in un discorso del reale che comprende la stessa finzione, non in opposizione bensì in precisa continuità con il racconto stesso inteso come mondo umano, logico, cioè linguistico e razionale.

Il rapporto finzione/realtà non ammicca a una teoria sul postmoderno, non c’è bisogno di nessun “deittico”, per un semplice motivo incarnato dallo spettacolo: l’uomo è un animale, la sua finzione è realtà. The Sheep Song ne è in qualche modo la prova. Questo racconto su un animale che prova a farsi uomo, a entrare nel mondo logico e sociale dell’uomo per poi uscirvi, non può che aprirsi e chiudersi con un gregge reale. Anzi, è proprio il passaggio iniziale a “giustificare” quell’esplorazione nella finzione teatrale, narrativa e culturale, che porta l’uomo-pecora ora in una sala d’ospedale, ora al cospetto di un teatrino di legno, ora fra i grattacieli di una metropoli, ora fra le parole di un monito latino che disvela l’antropocentrismo del gioco scenico: «in ludo monstrorum designatur vanitas vanitatum». (1)

L’uomo è un animale, ma fa di tutto per dimenticarselo. Lo stato di marginalità, la coercizione corporea e linguistica, l’oppressione sociale subita dal protagonista rievoca il binomio animalità/povertà inaugurato da Heidegger («l’animale è povero di mondo») e ripensato da Derrida nel celebre L’animale che dunque sono (2006) – e, diversamente ma in una direzione comparabile, dall’Agamben di L’aperto. L’uomo e l’animale (2002). La parabola di The Sheep Song mostra la realtà di questa povertà (intesa come “privazione del mondo” dell’animale nella sua doppia prospettiva di esclusione e di liberazione), proprio nella duplice scelta: prima di andare al mondo logico e artificiale dell’uomo moderno, poi di tornare a quello “povero” dell’animale. La pecora che si umanizza sembra a tratti tenere uniti questi poli solo apparentemente opposti, ma l’antropocentrico mondo glielo vieta. Così, alla fine, preferisce tornare alla povertà. È Derrida a spiegarci la portata filosofica e politica di questo gesto conclusivo:

«L’animale è «privato» e la privazione non è un sentimento semplicemente negativo […]. In altre parole: dire dell’animale che è povero di mondo è mostrare che ha mondo. […] L’animale è «privato» e questa privazione implica che abbia una capacità di sentire: «sentirsi povero», «Ar – mut», è un «modo di sentirsi essere», una tonalità, un sentimento: l’animale prova la privazione di questo mondo» (2).

Nonostante l’antropomorfismo del protagonista di Sheep song, è la sua originaria privazione di mondo e di logos a fissarne la parabola insieme tragica e rivoluzionaria. Il mondo dell’uomo lo schiaccia perché non è in grado di parlare una lingua unica. Il ritorno al gregge, allora, non è una condanna o una rassegnazione, ma una scelta di libertà: è privarsi del mondo (e del teatro), tornare alla nudità originaria del vivente. Ed è l’invito impossibile che FC Bergman fa allo spettatore: il sipario cala su un gruppo di animali che non si presta al suo sguardo, ma si raduna attorno a una mangiatoia, dialoga nella sua privazione di dialogo. Lo stesso invito ce lo fa ancora Derrida quando suggerisce, sul finale del saggio, «invece di rendere semplicemente la parola all’animale, o dare all’animale ciò di cui in qualche modo l’uomo lo priva, […] che anche l’uomo ne sia in qualche modo “privato”, una privazione che non è una privazione» (3).

È possibile privarci del mondo? Saremmo idealmente disposti a farlo? A impoverirci, spogliarci e tornare alla nudità? A fare il percorso inverso rispetto a quello di The Sheep Song? A perdere mondo e parole? La domanda sarà anche carica di vertigine filosofica, ma ci riporta alla potenza di un incontro, quello con l’animale, che non cessa di porci domande importanti per rimettere in discussione i nostri limiti culturali, politici, ontologici.

 

Nella stessa cornice di Presente indicativo, c’è chi ha affrontato questo incontro rimanendo dalla parte del logos, e nello specifico del racconto, incontrando l’animale solo in questo territorio (e sulla rappresentazione scenica): è il caso di Zoo di Sergio Blanco, il quale racconta, con Lino Guanciale e Sara Putignano, il suo rapporto con un gorilla attraverso l’ormai celebre tecnica dell’autoficción. La struttura della trama è semplice: con l’aiuto della scienziata Rozental-Putignano, Blanco-Guanciale fa la conoscenza di Tandzo presso il padiglione di uno zoo e ci accompagna nei passaggi di un avvicinamento carico di sentimenti, citazioni e digressioni personali, sfociando in un apicale contatto erotico e chiudendosi sull’allontanamento, quindi sulla morte del gorilla.

L’autoficción di Blanco, questo mix di realtà e finzione che investe diversi piani di realtà dello spettacolo teatrale rompendo il classico patto con lo spettatore in nome di un “patto di menzogna” rappresenta un gesto di libertà individuale contro le continue intimidazioni de-soggettivizzanti del mondo. Esponendo la menzogna, quindi, l’incontro con l’animale – visti i problemi artistici e politico-filosofici che pone – non poteva trovare terreno migliore per un’ultima “difesa” dell’uomo e della parola. Accompagnandoci in continuo auto-smascheramento, ci fa d’un tratto dimenticare che dietro la gabbia ci sia un attore in costume, e ci trascina nel fascino di un amore che rompe le convenzioni, legato alla bellezza come valore universale e in qualche modo oltre le barriere linguistiche: sono proprio le letture di romanzi, le visioni di film o di quadri che fungono da Galeotto fra Blanco e Tandzo. La prospettiva, di fatto, rimane solo umana (basti pensare a tanta letteratura scientifica che scopre un senso del bello e dell’arte negli animali), ma l’uomo insiste sull’artificio implicito nella parola arte, sulla soggettiva del racconto.

Mentre siamo portati a credere a quest’universalità, o almeno a una verità di sentimenti comuni davanti alla bellezza, in realtà l’incontro avviene solo nella testa dell’autore (e forse degli attori). Non è un caso se questa bellezza resta inscindibilmente legata alla caducità, secondo una tradizione artistica che risale almeno all’Ottocento. Lo stesso amore per Tandzo – allusione forse al Tadzio della Morte a Venezia – si chiude con un distacco e poi con la morte dell’altro. Poiché anche questa morte rimane su carta, in fondo non ci interessa che Blanco, credendo nel suo discorso auto-sabotatore, abbia realmente compiuto il percorso inverso rispetto a The Sheep Song. L’iper-letterarietà, l’ingresso altrettanto sabotatore di un personaggio esterno come Edda Ciano e altri slittamenti letterari ci tengono in un mondo di parole e finzione e in qualche modo ci portano un’altra sfida, altrettanto vertiginosa, sul tema dell’incontro con l’animale: la fede di un superamento dei confini dell’uomo all’interno del mondo dell’uomo. Tornare a essere animali, senza perdere mondo e parola. Fare della parola umana un gesto d’incontro.

Blanco, pur rimanendo nello zoo, è perfettamente consapevole di questa sfida impossibile, e del pericolo di hybris ad essa connessa. E scegliendo questa strada, non dimentica il pericolo che sta correndo. Per questo, la drammaturgia si apre con una citazione di Donna Haraway:

 

«Quando le specie s’incontrano, la domanda su come si ereditano le storie diventa inevitabile, e si rischia di non trovare un comune accordo. […] La mia premessa di base è che il tatto ramifica e dà forma alla responsabilità. […] Il tatto e il rispetto hanno delle conseguenze» (4).

 

Quale strada percorrere, fra quelle suggerite da Blanco e dai Bergman? Non lo sappiamo. Quello che conta è che l’incontro con l’animale, su carta o nella realtà, rimette in discussione i nostri limiti umani e ci permette di ripensarci in maniera radicalmente diversa.


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1. Tratta a quanto pare dall’Hortus Deliciarum d’Herrade de Landsberg, un manoscritto ritrovato presso il monastero di monte Sainte-Odile, XII sec.
2. J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Jaca Book, 2006, p. 216.
3. Ivi, p. 222.
4. Donna Haraway, When Species Meet [2008], citazione tratta da S. Blanco, Zoo, Milano, Il Saggiatore, 2022.

 

 

Riccardo Corcione

Riccardo Corcione è ricercatore, dramaturg e operatore culturale. Formatosi in letteratura contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma Tre e presso l’Università della Svizzera italiana, ha conseguito nel 2018 un PhD dedicato alla poesia del Novecento e contemporanea. Ha dedicato a quest’ultima due libri e molti dei suoi interventi, pubblicati presso riviste letterarie italiane e internazionali. In ambito performativo, si è formato come dramaturg presso l’Accademia Silvio d’Amico di Roma e la scuola Iolanda Gazzerro dell’ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione). Lavora per compagnie teatrali e di danza italiane e svizzere e ha partecipato a vari festival e rassegne teatrali. Collabora come editor, giornalista e insegnante alla rivista e associazione culturale milanese Stratagemmi – Prospettive Teatrali. Presso quest’ultima, dal 2020 cura la rubrica Calapranzi, dedicata alla drammaturgia contemporanea.