Crisa, Tellas, 108: l’arte pubblica è una foresta

di Enrico Pitzianti

Un'illustrazione di Tellas
Un’illustrazione di Tellas

C’è un’idea che viene proposta come vera, persino come ovvia, e che si può riassumere più o meno così: oggi di ambiente si parla tanto, tantissimo, ma è un’onda nuova, un fenomeno che si è fatto corposo solo di recente. Prima c’erano i partiti dei verdi, è vero, ma una certa di idea di ambiente, di rispetto e connessione tra noi e la natura, non esisteva se non in alcune specifiche cerchie ristrette. Mentre oggi, finalmente, sì. C’è un’altra idea, anche questa viene propinata come verità ovvia, lapalissiana, ed è che i pittori (e più in generale gli artisti) oggi siano figure deboli, meno capaci di quanto lo erano quelli di un tempo di indirizzare le estetiche, di influenzare i fenomeni collettivi e dettare la linea alle correnti di pensiero. Sono tutte e due idee sbagliate. In una parola: false. E per spiegarlo ci saranno pure mille modi possibili, ma quello che si è scelto in questo caso è di citare il lavoro di tre artisti italiani: Crisa, Tellas e 108.

Non è semplicissimo chiarire il perché queste due idee siano false, d’altronde da secoli vale la regola che parlare d’arte con le parole scritte (cioè di un linguaggio con un altro linguaggio) significa assicurarsi un alto grado di ingarbugliamento, di metafore esasperate, di voli pindarici difficili da ingabbiare in categorie comprensibili e dai confini limpidi. Si rischia di non farcela, insomma. Ma da questa parte del foglio si chiede soltanto la pazienza utile a qualche minuto di lettura.

Crisa è un artista di Cagliari. E a Cagliari le balene non ci sono. Ci sono i delfini, le balene invece no. Le balene però Crisa le disegna lo stesso sui muri della città sarda da anni, e sono diventate – per chi abita o frequenta il capoluogo – una figura usuale, una specie di elemento riconoscibile. Tanto che tale bizzarria (dipingere un animale che in natura, lì dove lo disegni, non c’è) non la nota nessuno. Forse nemmeno i turisti. Gli altri elementi naturali che Crisa disegna spesso sono piccoli esseri umanoidi, dall’aspetto simile a quello degli insetti, poi i rami, ma anche i fiori che hanno la forma di grandi occhi, e gli intrecci vegetali fittissimi, quasi fossero sprazzi di natura equatoriale. In Sardegna, come in tutta la zona Mediterranea, la natura in realtà non ha quella forma: gli intrecci vegetali ci sono, ma sono più di frequente radi, brulli sparpagliati e interrotti da terra sabbia e aria. E qui sta il punto: dove sembra esserci randomicità di una scelta artistica c’è, in realtà, una prospettiva chiara, ed è quella ambientale. L’ambiente d’altronde mica lo si rappresenta soltanto nella sua forma locale. L’ambiente lo si rappresenta anche nella sua dimensione globale. Le balene, e questo lo sanno anche i muri, sono uno degli animali simbolo dell’ambientalismo, dell’attivismo animalista, e anche di associazioni come Sea Shepherd e Greenpeace. Non possiamo sapere se quando Crisa (che di naturale ha anche il nome, dato che “Crisa” sta per “crisalide di bruco”) le ha dipinte le prime volte, le balene di Cagliari, aveva chiaro in mente questo concetto. Ma poco importa, visto che l’importanza simbolica delle balene, proprio come qualsiasi altra importanza simbolica, non si limita alla razionalità del pensiero, si insinua negli istinti degli artisti e delle collettività. Questo è. E di questo ad artisti e collettività va dato merito.

Che le api siano uno degli animali che più davamo per scontati, ma che siano invece una specie in estremo pericolo di estinzione (e la cui scomparsa comprometterebbe interi ecosistemi) oggi lo abbiamo imparato. Con ritardo e con una certa sufficienza, ma infine lo abbiamo imparato. Ammesso che quelli di Crisa effettivamente insetti lo siano, questa è una lettura che appare convincente. Invece gli intrecci di natura così fitti che quasi ricordano le foreste pluviali? Anche questo elemento delle opere di Crisa risponde alla stessa logica: non è rappresentazione della natura locale – che già tutti, in un contesto culturale campanilista come quello italiano, raffigurano un po’ ovunque –, è semmai uno sguardo oltreconfine, rivolto alla natura come elemento globale. Tornando alle due idee false che citavamo all’inizio di questo articolo: è falsa, perché così è, quella secondo cui la consapevolezza ambientale sarebbe un fenomeno completamente nuovo, ma è vero che solo di recente si ha contezza di quanto interconnessi siano gli ecosistemi. È stato il riscaldamento globale a farci rendere conto che le emissioni in atmosfera di Usa, Cina e Nigeria possono essere la causa diretta di incendi che si verificano, per esempio, in Australia, a migliaia di chilometri di distanza. Sempre il riscaldamento globale ci ha insegnato che sì, esisteranno pure i singoli ecosistemi ma questi rispondono a un equilibrio più generale, che si trova più a monte e che fa sì che gli elementi della natura siano tutti strettamente interconnessi.

Qualcuno, tra chi legge, potrebbe conoscere già Tellas, per quanto è noto e per il numero di città in cui ha dipinto. Diciamo “ha dipinto”, e non “ha esposto”, perché anche Tellas è un muralista come Crisa, anche lui dipinge, oltre che su carta e su tela, su grandi muri in giro per il mondo. Fa quella che ancora, giustamente, viene definita “arte pubblica”. E anche lui, da almeno un decennio, si concentra su foglie, dettagli di anatomia vegetale, grandi pattern dal sapore tropicale, rami, rocce e fili d’erba così intricati da ricordare le sfilacciatura delle tessiture degli arazzi che vediamo nei musei. Questi elementi naturali finiscono su palazzi, uffici, case, treni, pavimenti, campi da basket e così via all’infinito.

Tellas è la prova provata di come gli artisti sono ancora influenti, di come sanno ancora dettare dei trend estetici e – tra le pennellate – anche insinuare le proprie idee, i propri presentimenti, in società. Ha dipinto in tutta Europa, in Australia, in Asia e negli Stati Uniti, in un tour ininterrotto (e di un certo successo) in cui le facciate dei palazzi sono state trasformate in coloratissime tavole anatomiche vegetali, in dettagli del sottobosco tropicale o, magari, in un mix tra astrattismo e iperrealismo che può confondere, perfino mettere a dura prova le nostre capacità interpretative, ma con tutta evidenza rimanda all’idea di natura come qualcosa di onnipresente e pervasivo.

Certo, non tutti dopo aver guardato un muro dipinto da Tellas poi se ne stanno tutto il giorno a pensare alle foreste, al destino degli ecosistemi e, magari, agli equilibri microscopici tra viventi così diversi eppure così strettamente in simbiosi. Ma l’obiettivo dell’arte non è quello delle pubblicità progresso, son cose diverse. I messaggi nell’arte si trasmettono in un altro modo, sono più silenziosi, e mai ovvi né sbandierati come fossero la raffigurazione di uno slogan. In un certo senso le idee che ci influenzano attraverso l’arte sono subdole, e coinvolgono più i nostri istinti che la nostra parte cosciente. Anche per questo che Tellas abbia, o non abbia, in mente la questione ambientale non ci interessa. Nei libri di teoria dell’arte (che bellamente ignoriamo) si insegna a distinguere tra l’intenzione dell’autore e quella dell’opera: e nel caso degli street artist conta soprattutto la seconda, dato che la prima è sopita nell’anonimato. Ciò che ci rimane, però, nel percorso di Tellas (cioè centinaia, forse migliaia, di disegni, di murali e di stampe distribuiti per il globo) è la pervasività dell’idea di ambiente. Non c’è la vuotezza delle installazioni esasperatamente minimali che vediamo alle biennali in cui il tema ambientale (o dell’onnipresente ecosostenibilità) serve anche a darsi un tono: c’è un tratto preciso, da artista ma anche da artigiano, e un ritmo così riconoscibile che è diventato quasi una firma. Andare a vedere le mostre, o i muri, di quest’artista italiano serve per abbandonare, una buona volta, quell’idea che oggi a essere “influenti” siano solo gli influencer. Ma quando mai.

La questione della natura interconnessa, da vedere e rispettare come un tutt’uno, come un grande elemento che ci comprende (nel senso che include anche noi umani) e non come elemento del mondo da contrapporre alla cultura (la dicotomia natura/cultura non funziona e sarebbe ora di ammetterlo e passare oltre) rimanda necessariamente alle filosofie orientali. È soprattutto da oriente, dal suo antico armamentario teorico – che è insieme religioso e laico –, che arriva l’idea di un ambiente interconnesso, di un sistema naturale di cui l’umanità è solo un umile, piccolo, accessorio. Qui va citato il terzo artista le cui opere possono darci una mano a vincere i due luoghi comuni che citavamo all’inizio: 108. Uno dei più influenti, più talentuosi e meno retorici tra gli artisti italiani viventi.

A sapersi orientare tra i muralisti e tutti gli artisti che lavorano negli spazi pubblici e che propongono un’idea propria, originale e influente di ambiente, 108 non può che spiccare. Innanzitutto perché le forme (soprattutto astratte) delle sue opere, sia su tela che negli spazi pubblici, si vedono da oltre un decennio. Quindi, di nuovo, che questi temi siano pura novità si dimostra falso. E poi nell’arte di questo pittore alessandrino ci sono i temi che, pur nell’astrattismo prevalente, si possono leggere con una certa facilità. Nelle forme pesanti e scure e nello stile dei rari piccoli lettering runici c’è il neopaganesimo che fa da sostrato spirituale all’interesse e al rispetto che si deve alla natura. Una devozione vera e propria. Nell’equilibrio delle forme che si vedono nei suoi quadri c’è una ricerca pittorica che ricorda quella di Burri, che riguarda cioè la materia, la grana dei colori e la loro rugosità. Anche questo rimanda alla natura, e di riflesso a un ambientalismo che nuovo, quindi, non è. E poi nell’arte di 108 c’è una strana fluidità che si abbatte sulle grandi forme, spesso di un nero pieno e fitto, come se fossero sì solide, ma di una consistenza simile alla lava, che per quanto pesante e rocciosa lentamente si muove fluida.

L’arte di 108 non propone un’idea di natura per il fatto che ne raffigura gli elementi. Non ci sono foglie, né rami e nemmeno animali. Al contrario di Crisa e Tellas quest’artista usa l’arte astratta per proporre un immaginario preciso: quello plumbeo, centroeuropeo e che in un’ampia scala di grigi, di neri e di intermezzi di altre tonalità, racconta la nebbia padana, i boschi invernali, il verde spento dei muschi alpini e quella che, della natura, potremmo definire una specie di psicologia.

L’astrattismo di 108 non ha sempre previsto vernici su muri, cavalcavia e grandi spazi murali (Biennale di Venezia compresa) ma anche adesivi, pennarelli, fogli, stampe e grandi tele. Ma a prescindere dalla tecnica ciò che conta sono i temi, che in questo caso si intersecano con quelli proposti dai gatti che dipingeva Louis Wain, ma anche dalle danze macabre e sadiche dei personaggi di Aleksandra Waliszewska. Non a caso gatti, insetti e creature antropomorfe.

Per chi non conosce 108 (e che quindi adesso ci deve un favore) potrebbe sembrare strano che un pittore simile sia stato così influente in Italia, ma la verità è che lo è stato – e lo è tutt’ora – persino oltreconfine. Quando parliamo di riscaldamento globale non pensiamo alle opere di 108, che spesso propongono la bellezza e l’utilità del freddo. Ci riferiamo di solito a singole notizie su ecosistemi e popolazioni in pericolo, ed è normale. C’è però anche il lato estetico che questi problemi insinuano, quello dell’immaginario. E su questo – ogni tanto non fa male ricordarlo – ci sono artisti che hanno detto, ribadito e preso posizione da decenni, anche con un certo successo.

 

 

Enrico Pitzianti

Enrico Pitzianti si occupa di politica estera e ambiente. Scrive per Wired Italia “Non Scaldiamoci”, una newsletter settimanale sulle conseguenze politiche dei problemi ambientali. È caporedattore de L’indiscreto e collabora con Linkiesta e Il Foglio. Ha insegnato come docente esterno all’Università di Ferrara.