Dai, basta sciocchezze.

di Alessandro Burbank

Alessandro Burbank
Alessandro Burbank

La mia avventura di poeta inizia con una risata. Quella di Mario Stefani, poeta veneziano dalla storia tragica che viene ricordato a Venezia per la sua figura gentile e la sua poesia d’amore. È successo che la mia prima poesia commissionata dalle maestre come compito per casa alle elementari fosse troppo esplicita per essere letta in classe come quelle di tutti gli altri. Ma io ero veramente contento del mio lavoro e ci rimasi molto male. Allora mia madre, alla quale raccontai l’accaduto, mi portò dopo la scuola al bar dove Mario Stefani soleva sedersi il pomeriggio a bere spritz. Mi disse di leggerla a lui. Era una poesia su Venezia che potrei definire antiretorica, sottolineava non solo le bellezze della città ma anche le brutture. Appena terminai la mia lettura Mario esplose in una fragorosa risata! E si complimentò con me sottolineando che le maestre non avevano colto la forza del mio testo. Raccontando questo episodio che risale a più di vent’anni fa, mi faccio tenerezza da solo, ma lo racconto sempre volentieri perché è partito tutto da lì.
Successivamente ho partecipato a moltissime edizioni del Festival Baffo/Zancopè, un festival di poesia erotica che si teneva durante i carnevali, da ragazzino vedevo quel palco come irraggiungibile ma poi mi decisi a calcarlo mascherandomi e nascondendo la mia giovane età. Ricordo un pubblico cortese e caciarone che ascoltava e rideva. Avevo 16 anni, e vinsi uno dei premi in palio, una magnum di grappa veneta. Per farla breve questi “traumi” dovevano per forza condurmi all’oggi con una predilezione per la poesia comica. Fra l’episodio di Mario Stefani e la mia prima esibizione dal vivo al Festival di poesia erotica, frequentavo molto un forum di poesia su internet. A quel tempo non c’era Facebook, che poi avrebbe scalzato piattaforme simili a quella. Scrivevo quotidianamente testi in maniera anonima che, per le dinamiche interne al forum, dividevano il pubblico virtuale.
Erano poesie ironiche, ciniche, volgari, simili a dei troll. Ovviamente le alternavo a cose diverse ma a colpire, a fomentare i commenti e a volte insulti e litigate online, erano sempre quelle che facevano “ridere”. Le reazioni più significative ai miei testi si concentravano sempre sulla parte comica. Da adolescente chiamavo i miei compagni di classe e senza avvertirli dalla cornetta partivo a leggere poesie spesso spudorate e in rima baciata, a rileggerle ora erano poesie davvero innocenti ma mi piaceva l’idea di seminare il panico durante le loro cene in famiglia. C’è una componente ambientale quindi, tutta veneziana, che mi piace pensare trovi il suo solco nella tradizione di Giorgio Baffo, ma anche di Lucia Lucchesino, e poi Patrizia Valduga. La poesia erotica mi faceva ridere e faceva ridere anche le persone attorno a me. Quando sono approdato allo slam poetry il mio imprinting era quello. E funzionava anche in queste gare di poesia. Io ero quello che parlava di clitoridi, birra, vizi e stravizi, parlavo di cibo e dei miei problemi con l’abuso di carboidrati, del sesso che non facevo per esorcizzare i miei demoni. Era sincero. Più di tutto volevo essere sincero, mal celando le mie insicurezze, costruendo attorno a loro non una corazza ma un’immediatezza. Le mie insicurezze dette sul palco diventavano forza. La gente si immedesimava. Questo è il punto, la gente per me, quando scrivo non esiste, esiste un’immedesimazione, io scrivo per un “loro” che si può immedesimare ma che nel momento in cui scrivo non è qualcuno di specifico. Una volta sul palco rievocare il momento della scrittura, dell’ispirazione trascinante, con una vocalità non teatrale, non finta, con una voce mia che continuo a cercare, quasi appartenente a un me interiore senza tempo; l’urgenza viene prima di ogni altra cosa. Il pubblico è solo il pretesto, come la fame viene prima della cena, il cibo diventa il pretesto per cenare assieme, lo stare assieme quindi diventa il punto, la socialità. Poesia e socialità si incontrano nel Poetry Slam. Poi nel tempo si è fissato uno standard come accade sempre nei generi. Ma è in continua evoluzione. Non c’è un modo netto per fare slam poetry e assicurarsi il podio. C’era un luogo comune all’epoca: “se fai ridere vinci i Poetry Slam”. Non c’è un luogo comune che sia stato più smentito di questo, dato che se si vanno a guardare i campioni italiani alla fine vince sempre l’intensità. È quello il fattore principale. Ormai la poesia performativa ha subito – così come ogni cosa performativa – l’influsso delle scene internazionali. Non ci si può più chiedere se la poesia sia o no performance. Lo è. La poesia è anche quello oltre al libro, al virtuale a tutte le possibili manifestazioni, perché la poesia è un codice. È ovvio che come nella musica o nella ristorazione esistono livelli differenti anche nella poesia coesistono. La musica classica, il ristorante stellato, il Poetry Slam, la trattoria. Ti perdi qualcosa se non hai il desiderio, il piacere di frequentare tutto. Ti perdi qualcosa e ai miei occhi personalmente risulti limitato, se non trovi del bello ovunque. Negli anni Settanta la poesia performativa era confinata nel contesto delle gallerie d’arte. Ha fatto il suo tempo, oggi è materia di studio, nel Poetry Slam invece la poesia assume connotati popolari, chiede direttamente al pubblico di darsi una mossa e decidere, il discorso è vicendevole. Al tempo di Spatola – altro mio grande mito – la poesia performativa era una nicchia esattamente come la poesia “ufficiale”. Oggi però la sua profezia di Poesia Totale si è avverata. Oggi dall’esperienza del Poetry Slam molti giovani, appassionati non solo di quello, hanno creato il proprio spettacolo personale, il proprio reading di poesia, anche sfruttando le nuove tecnologie, abbinando musica e visuals. Cresce sempre di più, grazie all’avvicinamento del pubblico a questi eventi, la possibilità di perlustrare nuove possibilità performative che si avvicinano all’arte contemporanea internazionale, ma è innegabile che ciò stia avvenendo grazie al “fare palco” che si è venuto a creare con il boom dei Poetry Slam. Per concludere, quello che mi preme dire non è tanto il dualismo critico poesia-non-poesia, superatissimo, ma un discorso più antropologico che riguardi “le poesie”, i tanti modi differenti in cui in ambiti diversi tra persone diverse questa cosa circoli ancora, in un mondo in cui potrebbe tranquillamente non esserci, secondo me il poeta deve portare con sé il proprio entusiasmo verso la parola, il critico dovrebbe essere un viaggiatore di scene, raccontarle, aprirle. Invece ci si limita a negare inutilmente l’esistenza di qualcosa, solo perché fa ridere. Se fa ridere allora no, non è poesia. Andatelo a dire ad Arrigo Lora Totino ma anche allo stesso Magrelli. Dai, basta sciocchezze!

 

 

Alessandro Burbank

Alessandro Burbank, poeta e performer veneziano, da alcuni anni risiede a Torino dove si sta specializzando nel rapporto tra poesia e resto del mondo. Ha coniato il termine ”Poesia aumentata” per ridefinire i confini della parola poetica e le sue potenzialità multimediali.