Lo sghignazzo di una Signora

di Alessandra Racca

Alessandra Racca, foto di Elena Patris
Alessandra Racca, foto di Elena Patris

Poesia e umorismo: ribaltamento

Quella cosa molto difficile da definire che chiamiamo poesia mi piace, mi interessa, mi muove e mi appassiona perché rovescia, ribalta, porta sopra quello che sta sotto, crea collegamenti inaspettati fra le cose, muove i piani del reale, del possibile, del corporeo e dello spirituale, lacera il conscio generando spifferi attraverso i quali passano correnti potenti e anarchiche. La poesia fa un casino incredibile e, quando le riesce, attraverso questo casino, ti fa qualcosa. Ti rovescia da dentro attraverso la corporeità delle parole. Ho iniziato a interessarmi alla poesia perché mi faceva questo effetto, me lo faceva nel corpo e nei pensieri, me lo faceva nella voce con la quale mi parlo e mi dico le cose, quella più intima, nascosta e fondativa.
In questo effetto di ribaltamento, rimestamento e incasinamento, io ci vedo una parentela fra poesia e comicità. C’è nella risata, nel sogghigno, nel sorriso, nel mostrare i denti del comico in tutte le sue, tantissime, declinazioni, qualcosa di analogo a quel ribaltamento che amo nella poesia. E, analogamente alla poesia, questo qualcosa passa dal linguaggio e dal corpo, insieme.
Personalmente ho bisogno, per vivere decentemente, di fruire o generare, quando o se mi riesce, di questo ribaltamento attraverso la parola/corpo. Lì, per me, si genera senso, un senso un po’ dissacratorio senza il quale cose e avvenimenti rischiano di mettersi in fila, orizzontalmente, piattamente. E io, così, non sono capace.


Dire la verità

Mi è capitato di ricorrere a un registro ironico, talvolta umoristico, talvolta anche comico scrivendo poesia. Non l’ho fatto con intenzione, ovvero non mi sono mai detta: «adesso scrivo una poesia che fa ridere», non ho mai teorizzato sulla mia poesia come “poesia comica/umoristica”, mi è capitato più che altro, molto spesso, che mentre cercavo le parole giuste, la voce giusta, per dire qualcosa, che la chiave “comica” mi consentisse, meglio di altre vie e di altre voci, quel ribaltamento di cui sopra. Nel ricorrere a una scrittura umoristica ho spesso trovato “un modo per dire la verità”, per non usare un linguaggio cosmetico, ma che dicesse. Ho, spesso, seguito l’istinto di ribaltare il tavolo, mostrare che gli invitati ben vestiti, laggiù, si sfilavano la scarpa, e che, quel particolare – la vescica che sfrega sulla calza fina, il gesto nascosto, stonato, marginale mentre si discetta di filosofia, politica e amenità – diceva qualcosa di interessante sulla festa dell’umanità che ho sott’occhio e che sono.
D’altra parte, per tenere la metafora, spesso si chiede o ci si aspetta che la poesia mantenga un tono da festa elegante, da Poesia e mi sono sempre sentita in dovere di non cadere nello stereotipo e nella noia. Si può essere molto seri senza essere seriosi.
A volte ho scritto cose per nulla comiche, comunque. Ogni testo ha una sua necessità.


Abbassare

Quindi, sì, si tratta anche, per quanto mi riguarda, del superpotere – del comico nelle sue varie sfumature – di abbassare ciò che è alto o che ambisce a proporsi come tale. Un po’ per una mia postura interiore, di persona che mai si sente all’altezza, che si autoaccusa di cialtronismo: dunque parlo da quaggiù, di ciò che so, non mi azzardo, lo dichiaro. Un po’ perché provare a dire che il Re è nudo è un atto psichico che ha un certo fascino per me (il Re pomposamente vestito non è solo fuori, è anche il teatrino delle nostre rappresentazioni, delle nostre tragedie del vivere). Un po’ perché non farlo, appunto, ha per me il valore di “non dirla per davvero”. E non lo sopporto.
Infine, si tratta anche della scelta di percorrere la via di una poesia in qualche modo “popolare”, con una chiara istanza comunicativa. Non per “piacere di più”, ma perché le mie radici stanno in un contesto modesto, ricco di stimoli e opportunità, ma che mi ha sempre portata a fare i conti con il fatto di non venire e non sentirmi a mio agio con modi e mondi di una certa Cultura.


Rabbia, identità, potere, genere

Quindi: esigenza di autenticità, certo. Ma anche rabbia. Se penso al binomio poesia-umorismo, al perché sono ricorsa ai meccanismi del comico in versi penso a due moventi: la rabbia, l’identità.
Ho spesso avuto come ragione di innesco della scrittura ciò che mi faceva arrabbiare, gli urti del mondo sulla mia persona, ciò che percepivo ingiusto e ingiustamente potente. Altra molla forte è stata la ricerca di identità – definirsi dicendosi, dirsi per cercare una definizione –, lo è per molte persone che praticano la scrittura in versi. In me, le due pulsioni, rabbia e necessità di dirsi per definirsi, hanno spesso lavorato insieme nello scrivere poesia e, talvolta, hanno trovato la via del comico.
Perché?
Credo che la radice comune stia nell’inconscio, certo – ogni volta che ragiono su queste cose mi appare l’immagine gigante del buon Sigmund che mi guarda sogghignante –, ma anche in istanze (che adesso definisco chiaramente come femministe) di autodeterminazione e autorappresentazione.
Cercare di essere me stessa, capire chi sono, ha molto presto coinciso con la constatazione di pressioni e intrusioni sociali: diventare una donna è passato dal riconoscere in maniera sempre più chiara pressioni forti, corsetti identitari imposti e introiettati, strati di abiti culturali di stampo patriarcale che indossavo senza accorgermene. Molti passavano anche dalla lingua.
Per spogliarmene – metaforicamente e letteralmente – per un periodo ho portato in librerie, circoli culturali, piccoli teatri, un reading che avevo chiamato Eroticismi, leggevo testi in versi, la maggior parte aveva un tono ironico, scanzonato, provocatorio, ognuno di essi era legato a un abito, testo dopo testo mi spogliavo di quei vestiti, parlavo di affettività, identità, sessualità, giocavo con il pubblico andando oltre la lettura dei testi. Sicuramente mi sono servita dello strumento poesia in modo molto libero e giocoso, desideravo essere sfrontata, provocare il riso, dire (e fare) qualcosa di autentico, alleggerire per dire cose pesanti, prendermi gioco delle mie paure, indicare che il Re era nudo, rovesciare le aspettative sulla poesia, sulla poesia d’amore ed erotica.
Da sempre il comico ha anche una dimensione di sberleffo del potere. Credo che il mio modo di ribellarmi sia stato quello di esercitare un’istanza di autenticità in pubblico e, ancora una volta, l’istanza di autenticità è spesso passata dall’ironia. Di nuovo, non ho agito con intenzione e calcolo, semplicemente non mi era possibile, toccando certi temi, non cercare il lato ridicolo della cosa e – se parliamo di patriarcato –, il lato ridicolo e comico si trova, eccome.
Oltre a ciò, “essere quella che fa ridere” dà potere ed è un potere, come molti, che si attribuisce e si concede alle donne meno che agli uomini – per fortuna, come in molti altri campi, ovviamente, i rapporti di forza stanno pian piano cambiando. In questo caso dire chi ero, chi non riuscivo a essere, esprimere la natura del desiderio e mettere a nudo il teatrino di certe nevrosi individuali e collettive, riconoscendole come parte di un sistema e usare, a questi fini, lo strumento dell’umorismo, mi faceva sentire più potente laddove, invece, lasciavo emergere fragilità e dolore, miei come di tante: la voce con cui mi dicevo era quella che sento autenticamente mia e suscitava il riso come desideravo. Credo che tutto questo stia dalle parti dell’empowerment e che non sia stato un mio atto terapeutico individuale. Ho la presunzione di pensare che questi atti di ghigno in pubblico abbiano un valore politico.


Distanza e nome

In questo ragionamento su meccanismi del comico e poesia per come li ho esperiti, manca credo all’appello ancora la dimensione della distanza. È risaputo che uno dei meccanismi con i quali agisce il comico, dell’ironia in particolare, stia nello stabilire una distanza dall’oggetto. L’ironia agisce un raffreddamento, si distacca dalla cosa, in qualche modo permette di guardare da fuori, generare interstizi nei quali possono emergere immagini, significati, simboli, “altro” rispetto al senso comune.
Per me la poesia agisce in una maniera analoga: mi permette di non stare “nella cosa”, ma di guardala da fuori.
Credo di aver agito questo tipo di meccanismo a partire dalla scelta di uno pseudonimo che, oltre a essere il nome del mio blog, era anche una sorta di doppia identità: la Signora dei calzini. Confesso che, a distanza di anni, il gioco mi ha un po’ stufata, non risponde più alle esigenze per le quali era nato, ma rimane come una parte del mio percorso che non rinnego affatto.
Perché farsi chiamare in maniera tanto “buffa” proponendo poesie? Proprio perché mi era insopportabile e difficile da reggere la pomposità, il peso, la pretesa della definizione, soprattutto se autoriferita. Poetessa, poi, mi ha sempre fatto sorridere.
La Signora dei calzini ha svolto la sua funzione di abbassamento (più in giù dei calzini che volete ci sia…), travestimento, auto-sberleffo e mi ha permesso di giocare molto seriamente.
Perché, alla fine, quello che ho sempre chiesto alla poesia era di avere uno spazio aperto di gioco, dove poter provare il piacere della creazione, dell’associazione, del rovesciamento, della conoscenza e della scoperta. A guardia di questo spazio ha spesso ben funzionato mettere qualcuno che non venisse preso troppo sul serio. Una Signora, poi…



Alessandra Racca

Alessandra Racca è autrice di testi in versi e in prosa. La sua ultima pubblicazione è l’albo Io, Alice e il buio buio, con illustrazioni di Anna Castagnoli, (2019, Emme edizioni). Conduce laboratori per adulti e bambini, si occupa di poetry slam, vede gente e fa un sacco di cose che non stanno in tre righe.
www.signoradeicalzini.it