Ridere di, ma con

di Filippo Balestra

Filippo Balestra, foto di Dimitri La Rosa
Filippo Balestra, foto di Dimitri La Rosa

L’altro giorno

Comincio questo articolo raccontando di come l’altro giorno ho cominciato un reading di mie “poesie normali” e cioè dicendo subito, dichiarandola come bieca ammissione di colpevolezza, che purtroppo ho avuto un’infanzia felice.
Purtroppo ho avuto un’infanzia felice e, in poesia, in effetti, la felicità pare essere qualcosa di inammissibile, proprio inaccettabile e quasi offensiva, la felicità e la spensieratezza. Per non parlare della comicità.
E in effetti non so bene cos’è, la comicità, e quasi mi sembra giusto non saperlo, però posso dire che la frase «purtroppo ho avuto un’infanzia felice» fa abbastanza ridere.
Poi per fortuna in adolescenza, per via di questa infanzia felice che avevo avuto, sono stato malissimo; ero triste proprio perché avevo avuto un’infanzia felice ed ero triste e mi dicevo che non potevo permettermelo, di essere triste, che c’erano persone con infanzie tristissime che avevano il diritto di portare con dignità la loro tristezza ma io no, io avevo avuto un’infanzia felice e quella tristezza che sentivo non me la meritavo e allora mi piegavo tutto su me stesso e mi scrivevo di nascosto delle poesie a me dedicate, poesie di tristezza e rabbia per via di questa tristezza doppia dovuta al fatto che avrei dovuto essere felice ma invece ero triste.
E scrivevo queste poesie, non le ho mai fatte leggere a nessuno, nemmeno mai lette io ad alta voce da solo al buio nella cameretta della mia disperazione interiore. Mai, lo giuro.


Le cicatrici dell’anima

Perché nell’ambito della poesia vige un pregiudizio in cui io stesso sono cascato, che è forse una forma di ignoranza dovuta probabilmente al come ce l’hanno insegnata nelle scuole, la poesia, e sembrerebbe, appunto, che in poesia gli argomenti che certificano l’alta qualità di ciò che è stato scritto – o detto – siano il dolore la sofferenza la morte il senso della morte la disperazione il dramma e, in particolare, per alcuni modi di vedere la scrittura poetica, le cicatrici dell’anima.
Le cicatrici dell’anima al tramonto. In autunno.
E in parte mi scuso se le considerazioni che potrò riportare in questo breve scritto saranno per lo più legate alla mia esperienza personale, ma come si fa – annosa questione in letteratura – com’è che si pratica questo famoso abbandono dell’io? Io non lo so.
E me li sono letti, tempo fa, i Bergson e i Pirandelli che andavano a indagare a svisceravano il meccanismo, volevano capire definitivamente la questione della comicità e in particolare della risata, questo moto incontrollato di liberazione e sovversione, me li sono letti e mi pare di ricordare, di quel che ricordo io che solitamente ricordo poco di quel che leggo, che è ben difficile trovare una chiave, una decodifica o una definizione di ciò che è comico, ed è ancora più difficile andare alla radice di quella scintilla primigenia di fisiologia misteriosa che fa scattare la risata.


Leopardi vs Trilussa

Ad esempio Trilussa; Trilussa lo leggevo in quel periodo scolastico di scuole superiori, che mi facevano studiare Leopardi, un grandissimo, Leopardi, ma Trilussa mi faceva ridere e visto che dovevo studiare Leopardi leggevo Trilussa. Perché leggevo Trilussa invece che Leopardi? Perché Trilussa, nonostante i suoi libri entrassero di diritto tra i libri di poesia, Trilussa faceva ridere. Per questo leggevo Trilussa. Come ce la spieghiamo questa cosa qua? Non lo so e ne sono contento: ultimamente, in questo periodo storico in cui tutti hanno capito tutto mi piace dire che capire è un fallimento e che, soprattutto, dovrebbe vergognarsi chi ha capito tutto. Mi piace non sapere le cose e mi piace proprio rivelare questioni imbarazzanti – come la vergognosa questione dell’infanzia felice –; in particolare amo dire che non per forza il poeta è una persona intelligente. Così l’altro giorno, mentre stavo per cominciare il reading di “poesie normali” ho pure dichiarato, dopo aver dichiarato che purtroppo ho avuto un’infanzia felice, ho pure dichiarato che il poeta non aspettiamoci che sia proprio una persona intelligente.
Mi piace disarmarmi.
Perché in fondo uno che legge delle poesie che sono poesie normali probabilmente non è uno che scrive poesie superlative, uno che scrive e legge in pubblico poesie normali probabilmente non è superlativo nemmeno lui, diciamo. Anche a livello di intelligenza.

Questo è il mio modo di stare ai mondi.

E anche queste poesie normali, me l’han chiesto più volte, in che senso “normali”? Non lo so, ed è proprio quello il punto.

 

Ridere di, ma con

Ci sono questi due rami pericolosamente paralleli ma contrapposti, quello del “ridere di” e quello del “ridere con”, ecco, forse come forma di difesa tendo a praticare un’autoironia che porti le persone a “ridere di, ma con”. Che mi sembra un buon compromesso con il discorso del prendersi sul serio; non ce la faccio a prendermi sul serio, ammiro le persone che non sorridono e si prendono sul serio e ci casco pure, sono vittima di questa posizione solida stabile inamovibile di chi si prende sul serio e se vedo uno che si prende sul serio mi dico subito guarda questo è sicuramente una persona intelligente guarda quanto è serio marmoreo che si staglia guarda quanto non sorride è sicuramente uno che sa quel che ha da dire. Invece poi ho scoperto che non è detto, ho visto persone prendersi molto sul serio parlando delle loro cicatrici dell’anima al tramonto in autunno sul molo con i gabbiani volanti, ecco.


Il dolore del poeta

E quando ero a Bologna a fare i miei studi universitari di scienziato della comunicazione, nei primi anni del dopoduemila, organizzavamo anche, con alcuni amici letterati e rivistaroli di riviste letterarie, organizzavamo dei reading in un bar, ogni giovedì, e ci mettevamo lì a leggere ad alta voce le nostre microstorie, che erano per lo più prose brevi, quelle che scrivevo io, storie di assurdo, che sovvertivano il senso delle cose, storie di stupidità di certi protagonisti di questi racconti che avrebbero potuto rappresentare, questi protagonisti, avrebbero potuto rappresentare, chissà, l’umanità intera, e il pubblico spesso si riconosceva, in questo corpo astratto che è l’umanità intera, e veniva da ridere nel riconoscersi nella storia impossibile di un tizio che per errore organizza il Tour de France ma in Spagna, ad esempio.
Poi, a questi reading aperti, arrivavano spesso almeno uno due tre poeti a leggere le loro poesie di sofferenza e disperazione e allora il clima cambiava, si creava una serietà quasi liturgica, anche il tono della lettura era da liturgia – molti poeti leggono le loro poesie come fossero preti – e può andare forse bene ad alcuni, ma non era proprio l’intenzione delle nostre serate creare quell’atmosfera di messa sacra dentro al bar; a me non piaceva.
E allora per esorcizzare, a proposito di liturgia, ho pensato allora al mio dolore, indegno, e m’è venuta spontanea la voglia di scrivere anch’io delle poesie ma di dissacrare e di parlare del mio dolore che in quel periodo lì m’era capitato di cambiare casa e di far traslochi, e nei traslochi portavo degli scatoloni con dentro molti libri, e mi ero accorto che quegli scatoloni di libri erano la parte più pesante del trasloco, e mi era venuto un mal di schiena, una volta, sollevando uno di quegli scatoloni, un colpo della strega mi era preso, da star sdraiati per forza a letto, e avevo pensato che il mio dolore era alla schiena, allora ho scritto una poesia sul dolore del poeta e questa poesia parlava dei traslochi e degli scatoloni di libri e di quanto la carta potesse essere pesante se tutta attaccata in forma di libro dentro a degli scatoloni pieni di libri. Uno di quei giovedì dopo, in quel bar, ho stupito il poco pubblico affezionato dicendo che invece di un racconto avrei letto una poesia, e ho letto il dolore del poeta, la mia prima poesia normale, ed è stato liberatorio, per me, e dissacrante proprio come speravo, che la iniziavo leggendo col tono serio di un poeta serio e già dal titolo la gente diceva madonna adesso che strazio che ci legge questo, poi arrivavo al mal di schiena e si capiva che stavo facendo la parte del cretino, e mi è piaciuto moltissimo, anche lì, fare la parte del cretino.


Le conclusioni

Non ci sono le conclusioni, contribuisco a questa ricerca portando la mia esperienza a titolo, diciamo così, conoscitivo. Appena mi è stato chiesto di scrivere questo articolo sono andato a rileggermi alcuni passi di Strategie del comico, di Luigi Malerba, dove già dall’introduzione, anche lì, sollevandomi dalla responsabilità di dare una risposta definitiva, si premette che in fondo possiamo forse analizzare e catalogare alcune strutture che rendono l’idea delle varie possibilità comiche, ma tant’è rimane comunque il mistero della risata, di questo scaturire fuori controllo che ci fa stare bene. Ecco, questo mi affascina, il rendersi conto di quanto le cose anche più banali e semplici, che fanno parte del nostro quotidiano, conservino ad oggi una zona inesplorata che non ci permette di arrivare a fondo di ciò che vogliamo indagare. E pensavo al raffreddore, ad esempio, anche il raffreddore non si capisce bene come funziona, o le parole, che usiamo continuamente e ce le teniamo in testa addirittura, anche le parole hanno un che di autonomo dal nostro pensiero, da ciò che sembrerebbe semplicemente logico, anche alle parole, nonostante tutti gli studi neurolinguistici applicati possibili, rimane un’ombra di inspiegabile, che è fondamentale, per me, l’ombra di inspiegabile, e il paradosso, l’associazione impropria di lessici tra loro distanti, cortocircuiti del senso e della mera funzionalità della lingua, del semplice comunicare, sono tutti aspetti in qualche modo legati alla comicità, sì, ma forse anche alla poesia stessa, che non è fatta per essere utile se non a generare stupore, spostare di poco il punto di vista su ciò che è considerato normale, e così meravigliare.

 

Filippo Balestra

Filippo Balestra, Genova 1982: scrittore, poeta e performer, da anni porta le sue letture in giro per l’Italia. Nel 2014 recita la parte dell’attore protagonista nel film Le Sedie di Dio, di Jerome Walter Gueguen. Nel 2015 pubblica per Miraggi Edizioni la sua raccolta Poesie Normali. Organizza e partecipa a diversi Poetry Slam. Fa parte del collettivo Genova Slam ed è coordinatore Liguria per la LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Si occupa di editoria indipendente e fa Costola, rivista di racconti illustrati. Del 2018 è la sua Guida indipendente alla città di Genova, edita da Hoppipolla Edizioni; nel 2021 al Festival di poesia La Punta della Lingua, di Ancona, è vincitore del premio Franco Scataglini per la videopoesia “Un Adesso Immenso”, regia di Valentina Zanella e direzione artistica di Alessio Bertallot. Suoi recenti esperimenti linguistico/letterari sono la “Conferenza sulla conferenza” e la live writing performance “Esistere Non Basta” recentemente realizzata alla GAM di Torino.