Quel che fa ridere, suona. Una messa a sistema sentimentale

di Gioia Salvatori

Gioia Salvatori, foto di Manuela Giusto
Gioia Salvatori, foto di Manuela Giusto

Tra la parola poetica e la risata c’è, o per meglio dire, ci passa in mezzo lo svelamento dell’umano.
La risata, ce lo dice Bergson, è la conseguenza di ciò che come umani riconosciamo all’improvviso simile a noi: impacciato, rigido, imperfetto e per questo comico, e la parola poetica nella sua forza ma anche nella sua ineffabilità o delicatezza parla a sua volta un linguaggio tutto umano, sentimentale, organico, così attaccato al corpo da essere vero, da rendersi necessario e come la risata, catartico.
C’è un rapporto di godimento, di appaiamento festoso per quello che mi riguarda, tra la parola poetica e l’istanza comica e questo perché sono figlie figliate dalla musica. Nel comico, la possibilità di arrivare a scaricare a terra la premessa ironica è fortemente vincolata a un sistema di regole che sono molto simili a quelle che abitano la musica stessa. Sono le interruzioni, le sospensioni, i cambi di ritmo, le apparenti inversioni di senso, il far prevalere la linea ritmica sulla melodia e il suo contrario, che rendono possibile l’accadimento del comico e la sua rovina in risata.
Inoltre, come quello comico, il linguaggio musicale non spreca, scrive con precisione e necessita di una buona padronanza anche tecnica per essere veicolato e riprodotto; il linguaggio musicale e la comicità sono famelici di sintesi e di rapporti sintentici.
Ora, per sintentico non intendo soltanto porre l’accento sulla brevità (che sì, è necessaria alla battuta) ma sulla sapienza della brevità, sul labor limae necessario affinché si verifichi una certa brevità e non un’altra. È “l’assenza di caso” che appaia invece come il suo contrario.
E qui eccoci alla poesia.
La poesia è un ponte musicale mobile, conserva il raziocinio della parola ma ricerca effetti emotivi e li produce anche temperando i suoni ad hoc, è un attraversamento dell’irrazionale con una buona barca e inoltre come la musica e come il teatro, come le arti in generale, ha delle pretese.
Si pretende di parlare all’umano, di ricostruire artificialmente davanti agli occhi degli altri il processo che conduce a un’emozione, si supera l’incertezza, si svela il non dicibile, si anela l’eternità, si cerca di fissare ciò che è impossibile.
Eccola la pretesa: costruire qualcosa ad arte per poter far sì che altri ci si possano sciogliere dentro.
Sul pretendere bisogna soffermarsi, perché da una parte è un pre-tendere cioè un tendere con una premessa, con una predisposizione/ desiderio di voler comunicare e comunicare bene, comunicare per tutti (che poi è l’intento di chi scrive, di chi si esprime) e poi, è anche un po’ un volere così tanto fortemente, da provare anche ad andare oltre.
Tra questi tre luoghi – poesia, comicità, musica – c’è in comune il groove del mondo, per dirlo in gergo musicale, e quindi la pretesa di catturare appunto l’andamento, il ritmo del mondo in senso lato, che è fatto sì di enti intelleggibili ma anche di ciò che sfugge.
Per questo servono reti, regole, maglie, perché quello che invece ne rimane fuori (da queste reti, maglie, briglie) è un ineffabile che riguarda tutti, un ineffabile che a volte, a chi ascolta, restituisce piacere.
In questo rapporto tra la regola e la sua trasgressione, tra la musica e le emozioni, tra l’esigenza poetica e la ricostruzione sintetica col fine della risata, quello che ne viene fuori è un bel gioco per vivi.


Sul godimento, sul gioco e sulla forma che questo necessita per essere tale

Il mio rapporto con la performance dal vivo è un rapporto che ha una sua ricerca erotica, in senso greco, per carità, ci manca di andare ad elemosinare l’eccitazione pure sul palco – risparmiaci, demonio!
Siamo già stimolati, titillati quotidianamente per spingerci a provare fantomatici eccitamenti di fronte ai prodotti che dobbiamo consumare e, per fortuna, il teatro questo non lo fa. Il teatro richiede un corpo vibrante che sia strumento per le parole e per le emozioni, soprattutto. Ma non parole qualsiasi e non forme qualunque.
Quello che interessa alla mia parte autorale è, sostanzialmente, il riuscire a veicolare dei concetti con una forma che “suoni” bene e che abbia un suo andamento dentro cui il pubblico può lasciarsi andare e, anche, lasciarsi stare. Perdersi. Dimenticarsi.
L’ideale sarebbe avere anche un super corpo, un corpo che possa non morire.
Il comico ha bisogno di oltrepassare col corpo la morte. Poter esplodere davanti a tutti e ricomporsi, poter sudare fino a squagliarsi, poter staccarsi dei pezzi che poi rimonta. L’illusorietà e il paradosso sono meccanismi che permettono a chi guarda di fantasticare e poi tornare coi piedi per terra; riproducono, se vogliamo, dei meccanismi psichici anche pericolosi (la dissociazione, l’andare in pezzi) e li riparano riproponendo al pubblico una rassicurante interezza. Le drammaturgie all’interno delle quali sono io a recitare hanno una frammentarietà che è una premessa, non c’è un intero che io riesca a proporre se non come somma dei pezzi, non ci sono storie, ci sono appunti, digressioni, dimensioni aeree, mentali.
Poi c’è un corpo comico che risponde a queste stesse caratteristiche, poi c’è la poesia che invece fa parlare altri ambiti, fa vibrare altre corde, e viene da più lontano.
La poesia è per me un legante tra mondi diversi, una pausa cantata, una distrazione profonda che faccia suonare qualcosa che si vede poco, che non si vede subito.
È antica, la poesia.
Perché è, appunto, musica a cui è stata innestata la ragione parlata.
Ed è un luogo di concessione, di intimità, di gioco.


Cavarsi fuori e cavarsela

Siamo chiamati come interpreti e come autori in generale e come autori comici a sparire per agevolare il gioco, la relazione, uno spazio terzo tra noi e chi ci riceve, siamo chiamati a indietreggiare, a non esistere se non nella nostra feroce imperfezione, nella nostra umanità.
C’è un sacrificio che l’attore comico fa attraverso la mostra del proprio corpo in preda agli eventi (la buccia di banana, l’errore, la caduta) che è una concessione di fragilità agli occhi degli estranei (il pubblico) e che conduce alla risata, mettendo alla berlina davvero il proprio sé.
Nella poesia, si aprono porte agli altri perché guardino e possano riconoscere che lì dentro c’è un umano.
Per questa concessione di intimità c’è bisogno di potersi filtrare, per questo c’è bisogno della forma, nessuna intimità si dà nel realismo sciatto. La realtà è un accidente improponibile, senza filtro.
L’intimità richiede un prezzo, un’arte, un pedaggio e molti scarti.
Per guadagnare un’intimità col pubblico bisogna darsi come strumento, farsi suonare e chiedere al pubblico il rigore dell’ascolto, il silenzio che permetta la stupefazione e la crescita del desiderio spregiudicato reciproco di contatto tra palco e uditorio.
Rispetto al linguaggio poetico, la sfida, nel momento in cui questo linguaggio viene a teatro, di poter desiderare liberamente qualcosa che non consuma immediatamente, qualcosa che possa restare lì ad esistere anche dopo lo spettacolo, la sfida è sottoporre alle persone questa musica, sottoporre loro un linguaggio costruito in modo poetico, un linguaggio che si faccia anche poesia.
Questo svelamento di una stanza ulteriore, questo anelito all’intimità rende il rapporto tra chi parla e chi ascolta, irripetibile, irrinunciabile, emozionale, politico.
Poter parlare di cose ineffabili dentro alle regole della poesia e riuscire anche a ridere è un’impresa carpiata e fortemente erotica che necessita per esistere, di una pratica.
E questo sta agli artisti, avvicinare le persone ai misteri delle cose mescolate, della musica che parla con la poesia e che fa ridere o commuovere, questo sta ai cercatori di linguaggi, di parlare a chi ascolta in un modo antico che stia nel presente ma fuori dall’attualità, che non sia seduttivo per consumare, che sia una parola d’amore leggera.
La risata è uno dei modi migliori per farsi prendere dal mondo (innamorare, diremmo, se non fosse mercimoniato anche questo verbo) senza esserne sommersi. È la speranza che tutto passi e nel mentre di riuscire ad esistere; il tentativo di vivere per come si è: imperfetti, sonanti, poetici, umani, da ridere.

 

Gioia Salvatori

Gioia Salvatori, nata a Roma, attrice e autrice.
Si forma come attrice presso il Centro Teatro Ateneo dell’Università di Roma “La Sapienza” dove studia Commedia dell’Arte con Claudio De Maglio, Carlo Boso, Claudia Contin.
Studia e lavora nel periodo successivo con Jean Paul Denizon e Bruce Myers.
Michela Lucenti/ Balletto Civile, Gigi Dall’Aglio, Viktor Bodó.
Lavora come attrice tra gli altri con E. Germano, L. Calamaro, Compagnia Capotrave/ Kilowatt, Giuliano Scarpinato
Collabora come drammaturga con Giuliano Scarpinato agli spettacoli ”Alan e il mare” e ”Se non sporca il mio pavimento” e ”A+A storia di una prima volta”.
Scrivi e conduce insieme a I. Talarico, D. Parisi, C. Raimo il programma ‘Le ripetizioni” in onda da novembre 2021 su Radiorai3.
Da alcuni anni ha aperto un blog “Cuoro”, contenitore satirico che dialoga col web e anche spettacolo teatrale che si declina diversamente di volta in volta a seconda dei temi affrontati.