G8 Project. Intervista ad Andrea Porcheddu
di Giuseppina Borghese
Andrea Porcheddu, dramaturg del Teatro Nazionale di Genova, ha curato il progetto che lo stabile cittadino ha immaginato per i vent’anni dal G8 del 2001, momento spartiacque della storia nazionale e non solo. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la visione che ha accompagnato e sostenuto la realizzazione di questo percorso, ma anche per capire come intende la funzione del dramaturg – un ruolo consolidato nel teatro tedesco, ma poco presente da noi – all’interno di una struttura pubblica.
La tua carriera e, più in generale, la tua esperienza personale di scrittura e militanza teatrale ti colloca tra i critici italiani più energici dal punto di vista intellettuale: dall’attività giornalistica all’insegnamento accademico, passando per le tante collaborazioni con teatri e festival. Ora a Genova ricopri un ruolo nuovo per te, quello del dramaturg. Come stai vivendo questa nuova esperienza?
Grazie di questa intervista, mi fa piacere tanto più perché è per un “giornale” che ho contribuito a far nascere. E grazie per l’immagine energica che mi dai! Ma confesso: l’energia comincia a scarseggiare, è inversamente proporzionale all’età. Mi stupisco sempre dell’ardore e dell’entusiasmo di maestri come Eugenio Barba, instancabili. Allora, quella del dramaturg è una attività per me assolutamente nuova che, in quanto tale, chiede rinnovata energia. È stato un cambio di prospettiva radicale: entrare in una grande istituzione culturale, con una straordinaria storia, dedita alla produzione significa mettersi in gioco per una “azione critica” concreta, fattiva. Ho incontrato il teatro molto presto. Dopo una fugacissima esperienza da “regista” ventenne, ho iniziato a scriverne. La mia prima recensione è del 1988. E da allora continuo ad andare a vedere teatro, sera dopo sera. Nel tempo ho capito, tutti noi abbiamo capito, che per fare critica bisogna declinare questa sorta di lavoro in diversi ambiti e modalità, oltre alla recensione e alla cronaca si tratta di agire in contesti altri, come l’insegnamento, i laboratori, le consulenze o le direzioni artistiche. Così, da gennaio 2021, ho il piacere e l’onore di lavorare come dramaturg al Teatro Nazionale di Genova diretto da Davide Livermore. Ho accettato la sua “chiamata alle arti”. Quella del dramaturg è una figura ancora piuttosto “evanescente” in Italia, ma non mancano esempi interessanti: penso, per fare solo alcuni esempi, al lavoro che sta facendo Sergio Lo Gatto a Ert-Emilia Romagna Teatro o a quanto fatto da Fausto Paravidino a Torino. Stiamo forse inventando una “via italiana” al dramaturg, che è qualcosa che non ha a che fare solo con la drammaturgia, anzi, ma è una figura attiva – almeno per quel che mi riguarda – su vari piani e settori: dalla progettualità alla curatela, alla consulenza nella programmazione, nella comunicazione, nella produzione, sempre in stretto contatto ovviamente con la direzione artistica. Mi piace, a questo proposito, ricordare una frase che mi ha detto recentemente Milo Rau: «Non bastano più i pensieri critici. Bisogna passare alle azioni critiche». Ecco: ci proviamo, ci si sta provando. Credo che oggi, nel declinare il lavoro di critico come si diceva, sia importante provare ad agire. Chiaramente non ci sono soluzioni o formule, ma credo serva sempre più portare il pensiero critico come prospettiva attiva all’interno dei teatri. Ogni critico è portatore di una utopia teatrale, frutto di uno “scontento” sistematico, di una positiva e proterva ansia nel cercare sempre qualcosa di più, di diverso, di nuovo. E sovente ci siamo lamentati della immobilità, addirittura della reazionarietà, della impermeabilità di tante strutture. Quando si prospetta la possibilità di agire dal di dentro, di provare – almeno provare – a modificare qualcosa, credo sia opportuno provarci, nella coscienza e nella deontologia di quanto fatto e detto.
La stagione 2021/22 del Teatro Nazionale di Genova ha uno slogan molto attraente seppur nella sua estrema semplicità: Human Pride. Una rivendicazione sincera e molto potente al diritto di essere umani, alla libertà e all’orgoglio di stare al mondo come individui e come collettività. Come la definiresti questa stagione?
Human pride è lo slogan voluto da Davide per la stagione. Mi sembra una significativa presa di posizione, rivendicare tutto ciò che è umano in quanto “nostro”, e al tempo stesso festeggiare l’orgoglio di essere umani, di essere assieme in questa avventura chiamata vita. Trovare ciò che lega e avvicina esseri umani tra di loro, trovare un modo per ripensare la comunità globale in cui tutti e tutte siamo. Non a caso, il TNG è il primo teatro in Italia ad aderire alla Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Credo che il teatro, ogni teatro, debba ritrovare e rivendicare il proprio essere una istituzione culturale capace di mediare tra il cittadino singolo e la comunità. Il teatro fa ed è comunità. Per affrontare questo ruolo non solo ho ripreso tutti i libri di Heiner Muller – quando pensiamo al dramaturg pensiamo, ambiziosamente, a lui – ma anche tanti testi di sociologia, a partire dalla corposa summa dei cinque volumi di Edgard Morin. Ripensare la società è ruolo del teatro, da 2500 anni a questa parte. Al di là delle poetiche, delle estetiche, delle tendenze, anche delle mode, quel che preme – tanto più oggi – in cui siamo ancora vittime del lockdown, non fosse altro come habitus mentale (ci siamo impigriti, siamo spaventati, siamo più poveri, siamo diffidenti…) ecco oggi il teatro deve saper rischiare e ritrovare, con i propri spettatori, un rinnovato valore dell’essere assieme comunità. Così la stagione è una apertura sistematica a linguaggi e codici diversi, a storie e culture teatrali diverse. Una scelta impegnativa. Sarebbe stato certo più facile e “leggibile” programmare una apertura con un classico di Shakespeare e magari con il “volto famoso”, con il grande attore. Ma non cerchiamo consolazioni facili, non cerchiamo intrattenimenti superficiali o brillanti e sterili invenzioni. Qui ci sono proposte che vanno a ristabilire un contatto con il territorio – penso a Kronoteatro di Albenga o alla Compagnia Gli scarti di Spezia o ancora Akropolis di Genova, o ancora tanti musicisti e compositori con cui stiamo dialogando –; proposte dedicate ai ragazzi e agli adolescenti, spazi per la danza e naturalmente lavori frutto di drammaturgia contemporanea. Ecco, riprendere la grande tradizione del Teatro Stabile di Genova e del Teatro dell’Archivolto (dalla fusione dei due, assieme, hanno formato il Teatro Nazionale) significa ritrovare il teatro-documento e il teatro politico basato sulla drammaturgia contemporanea. Questo è un teatro che ha voluto porre al proprio centro la scrittura del nostro tempo. A partire dal G8 Project.
G8 Project è un lavoro ambizioso, di cui tu sei curatore, prodotto dal Teatro Nazionale di Genova in occasione del ventennale del G8, che comprende nove spettacoli scritti da autori e autrici internazionali. Quando e come è nata questa idea?
Sin dal suo insediamento, Davide Livermore ha detto chiaramente che non si poteva passare sotto silenzio il ventennale del G8. Il Teatro Nazionale della città non poteva non dedicarsi a quei fatti. Allora, per riflettere responsabilmente e speriamo degnamente sul G8, abbiamo pensato a un progetto che avesse la forza e la determinazione di avviare e favorire il pensiero critico, che fosse spunto per una riflessione ulteriore, ampia, serena, condivisa – e tutta teatrale – non solo sui valori, lo spirito, gli esiti del G8 del 2001, ma anche su chi e cosa siamo diventati in questi venti anni che ci separano dai tragici fatti. I primi venti anni del nuovo secolo.
Abbiamo coinvolto alcuni tra i più importanti drammaturghi e drammaturghe del mondo. Abbiamo chiesto loro di fare i conti con il tempo che ci separa dal G8, di riflettere su cosa è mutato da allora: l’economia, il liberismo, il terrorismo, la violenza, la distribuzione della ricchezza, le politiche ambientali, le solitudini, le depressioni, la comunicazione, fino a questa pandemia che ha attanagliato la nostra esistenza. Poche le regole del gioco: durata massima un’ora, numero limitato di personaggi, niente scenografia se non oggetti di scena e un ledwall comune per tutti gli allestimenti.
Non mancavano margini di rischio: commissionare testi originali significa anche ammettere la possibilità della “non riuscita”, addirittura del fallimento. Eppure abbiamo voluto scommettere su queste scritture originali, su queste autrici e questi autori che hanno invece confermato oltre ogni misura la fiducia data. Ne sono emersi testi di grande forza, opere sintetiche che sono state perfette tessere di un mosaico di grande impatto. Testi diversi tra loro, ma con sottili richiami tra l’uno e l’altro, che sono altrettante testimonianze di quanto quel “fatto” abbia stravolto vite, mutato destini, come una vera e propria tragedia, che ha segnato una intera generazione e un intero mondo.
Dopo aver disegnato questa mappa di scritture, è stata la volta dei registi e delle registe. E mi piace sottolineare la considerevole presenza di registe donne: artiste di grande levatura, che meritano attenzione non certo per questioni di paludate “quote rosa”, piuttosto per la serietà e la qualità dei loro percorsi creativi, come è giusto sia.
Infine, sono arrivati gli interpreti, attori e attrici che – assieme ad un super reparto tecnico – hanno completato il gruppo di lavoro.
Un progetto di ampio respiro che, immagino, abbia comportato uno sforzo produttivo non indifferente. Com’è stato passare dalle idee alla realizzazione concreta? Qual è la stata la parte più difficile e quale quella più eccitante nell’allestimento di questo grande lavoro collettivo?
Il primo ostacolo è stato nei tempi strettissimi di lavoro, e nel concatenarsi di alcuni elementi che dovevano forzatamente raccordarsi: che gli autori consegnassero in tempo, che le traduzioni fossero solerti e di qualità, che i registi si innamorassero dei testi e che tutto funzionasse assieme… Abbiamo “accostato” autori/autrici a registi/registe senza ancora aver letto i testi. Appuntamenti al buio, insomma. Per fortuna tutto è filato liscio. I traduttori e le traduttrici hanno fatto un gran lavoro. Poi c’è stata la giornata della maratona: da critico e spettatore ho vissuto molte maratone, ma dal di dentro è tutto diverso! Un’ansia!! Devo dire che tutto ha funzionato, abbiamo fatto solo mezz’ora di ritardo sul programma. E vedere il Teatro “Gustavo Modena” pieno, alle due e mezza di notte, di pubblico che applaudiva è stato bellissimo. Merito degli artisti coinvolti, del fantastico staff tecnico, della project manager Laura Artoni e devo dire di tutti gli uffici del Teatro Nazionale che hanno fatto del loro meglio perché tutto funzionasse.
La stagione si è aperta con la maratona teatrale, che ha visto andare in scena consecutivamente nove spettacoli, per un totale di oltre dieci ore di rappresentazione. A questo proposito, tu hai parlato di far rivivere il rito culturale del teatro: come pensi si possa recuperare questo aspetto oggi?
Byung-Chul Han ci ammonisce, parlando della scomparsa dei riti. Ha ragione? Forse sì, non so. Di fatto, il rito laico del teatro continua a propagarsi, specie nelle giovani generazioni. Dunque, sta a noi chiederci, ancora e sempre, che rito è il teatro? Un rito politico, un rito esoterico, un rito antropologico? Un pasoliniano rito borghese? Anche di questo forse dovremmo tornare a parlare con maggiore cura. Non ho, ovviamente, risposte o soluzioni. Quel che posso dire è che nel teatro possiamo trovare la nostra “azione”, il nostro agire ed essere politici. Io non so fare altro: sono stato in platea per decenni! Però sono convinto che la realtà del teatro possa mutare, ancorché minimamente, la realtà fuori dal teatro. Il testo modifica il contesto. Di solito accade il contrario: è il contesto che determina il testo. Quando Susan Sontag andò a fare «Aspettando Godot» nella Sarajevo assediata disse, più o meno, che stava facendo un teatro “realista”: l’assurdo beckettiano diventava concretissima costatazione della realtà. Godot era la Nato che non arrivava mai a fermare l’assedio, la fame era vera, la desolazione condivisa. Ma accade anche il contrario: anche qui faccio un solo esempio, pensiamo allo splendido lavoro fatto da Armando Punzo nel carcere di Volterra: con il tempo, con la tenacia, con la bellezza e la sua straordinaria creatività, il teatro ha mutato il carcere, dunque il testo ha cambiato il contesto. Il teatro può essere politico quando assume su di sé il compito non facile di essere davvero specchio, ma non solo del singolo individuo, quanto di una città o di una comunità.
Durante Genova 21 di Fausto Paravidino è emersa una fortissima partecipazione allo spettacolo da parte del pubblico, partecipazione che in alcuni momenti si è tradotta in intervento attivo. Questo probabilmente perché il tema in questione è sicuramente una ferita ancora aperta e dolorosa, ma forse anche perché c’è una crescente curiosità, quasi un bisogno a vedere rappresentata la realtà politica e civile in cui viviamo. Qual è la tua idea sulla possibilità di un teatro che recuperi questo aspetto?
Da critico, e adesso da dramaturg, penso che sia nostro compito tenere sempre alta la guardia contro la censura, contro ogni tipo di censura e di auto-censura. Non ne siamo esenti: esiste ancora, subdola, la censura nel teatro italiano, anche se non smaccata, non imposta. Fortunatamente siamo in uno stato democratico, abbiamo libertà di parola e di stampa, possiamo esprimere i nostri pensieri, anche quelli più idioti. Ma la censura assume tanti aspetti: un finanziamento, un bando, una commissione possono essere motivo di censura e di auto-censura. A Fausto Paravidino e agli altri autori e autrici abbiamo ovviamente dato “carta bianca”, libertà di espressione assoluta. Il percorso fatto da Paravidino, sostanzialmente aperto, post-drammatico, assembleare, è nato in un contesto di grande fiducia per il suo lavoro, per la sua serietà. Come TNG, da committenti, abbiamo rischiato: poteva esplodere una “bomba”. Ed è esplosa, ma positivamente.
La tua attività di critico «infedele alla linea» ti ha portato e continua a portarti a vivere e operare in molte città, di ognuna delle quali, immagino tu porti una visione teatrale.
Come vedi la Genova teatrale di oggi e come la immagini in un futuro prossimo?
Grazie che noti questa mia faticosa “infedeltà alla linea”! Peraltro Infedele alla linea era il titolo di un romanzetto noir che pubblicai anni fa. Non solo alla linea della pancia, ma anche agli schieramenti precostituiti e pregiudiziali, ai salotti buoni e meno buoni, alle consorterie che pure in teatro ci sono… E grazie di ricordare il mio “nomadismo”, nato dalla necessità. Mio nonno e mio padre erano militari, ci siamo trasferiti più o meno ogni cinque anni, traslocando di città in città. Dal ’92 ho scelto Roma come mia “casa”, ma ho continuato a viaggiare, a muovermi, addirittura arrivando a lavorare per un anno al National Theatre of Bahrain. Però mi piace questo eterno girare, e mi piace trovare “casa” in ogni teatro che visito o frequento. Mi piace trovare amici e amiche, direi addirittura una famiglia, in ogni teatro. Sapere dove andare a cena, magari andarci assieme – quanto sono belle le cene in compagnia dopo teatro! Quanto ci sono mancate durante il lockdown… Parafrasando Eugenio Barba, che parla di «popolo segreto dell’Odin», mi piace insomma parlare del popolo segreto del teatro. Una accolita di appassionati, quanto meno. Di quel popolo facciamo parte. A Genova ho trovato un mondo di teatranti straordinari. In questa città c’è un “diffuso” teatrale di alta qualità: attrici attori, registi e registe, autori e autrici. Una comunità vivacissima, che ovviamente viene dalle tante esperienze che ci sono state – lo Stabile, l’Archivolto, e naturalmente anche lo storico Teatro della Tosse, con la sua straordinaria storia legata a figure indimenticabili come Tonino Conte e Lele Luzzati e con loro tanti altri. Tanto teatro, dunque, in una città che ha vissuto gravi crisi e inconcepibili lutti. Una città che vuole riscattarsi, a partire dal proprio Porto, dalle infrastrutture ma anche dalle istituzioni museali e culturali. È una città bellissima, lo sappiamo, molto affascinante ed erotica, inquietante per molti aspetti, contraddittoria e irrisolta, e con un carattere incredibile. La mia collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova ha un respiro triennale (se tutto va bene…), continuo ad avere casa a Roma, dunque sto sempre con la valigia pronta. Ma quanto vorrei comprare una casa con vista mare!
Andrea Porcheddu
Laureato in Filosofia del Diritto, si occupa di teatro dal 1988 come critico e studioso. Ha collaborato con diverse testate nazionali, online, cartacee, radio e tv, tra cui L’Espresso, glistatigenerali.com, antinomie.it, Che-fare.com, Lettre International e interviene come autore e conduttore su Radio3Rai. Nel suo percorso ha fondato e contribuito alla vita di diversi giornali, tra cui Teatro/Pubblico, Primafila, Pagina99. Ha scritto libri su Emma Dante, Ascanio Celestini, Virgilio Sieni, Ricci/Forte, Arturo Cirillo, Pierpaolo Sepe e molti altri artisti. Tiene corsi di Metodologia della Critica all’Università di Roma “La Sapienza” e alla Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Ha curato laboratori di critica alla Biennale Teatro di Venezia, dal 2010 al 2016 e in vari altri Festival italiani. Si è dedicato alle teorie critiche applicate alla scena con il libro “Questo fantasma, il critico a teatro” (Titivillus editore). Cura la collana “Guide Teatrali” di Cue Press, con cui ha pubblicato il libro “Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte” (2017) e il più recente “Altri corpi/nuove danze” (2019) dedicato alla interazione tra coreografia e disagio. Con Luca Sossella Editore ha dato alle stampe “Il respiro di Dioniso, il teatro di Theodoros Terzopoulos” (2020). Ha diretto festival e ha fatto parte di giurie internazionali (Sarajevo, Teheran) e nazionali, e nel 2012 ha lavorato come direttore artistico del Bahrain National Theatre. Dal 2021 è Dramaturg del Teatro Nazionale di Genova.