Vent’anni in un giorno. Il G8 Project del Teatro Nazionale di Genova

di Giuseppina Borghese

"Our heart lerns" di Guillermo Verdecchia, regia Mercedes Martini, foto di Federico Pitto
“Our heart lerns” di Guillermo Verdecchia, regia Mercedes Martini, foto di Federico Pitto

La nuova stagione del Teatro Nazionale di Genova si è aperta lo scorso 9 ottobre con una maratona teatrale di oltre dieci ore dedicata ai fatti del G8 del 2001, a vent’anni esatti da quel trauma che ha segnato l’Italia e la città. Nove drammaturghi sono stati invitati a riflettere sui fatti dell’epoca ma anche sull’oggi, sul tempo che è passato, su cosa si è messo a fuoco e cosa dimenticato. Tra il Teatro Ivo Chiesa, a Brignole, e il teatro Gustavo Modena a Sampierdarena, la maratona ha restituito agli spettatori un prisma di visioni, di memorie, di considerazione che si sono condensate in un vero e proprio rito cittadino. Questo che segue è un resoconto di quella serata. Gli spettacoli, poi, sono andati in scena singolarmente per tutto il mese di ottobre.

Sono passati vent’anni dal G8 di Genova, eppure sembra che nella memoria collettiva il tempo non abbia intaccato quasi nulla di tutto quello che è successo in quei giorni, come se gli umori, i colori e le azioni di quelle piazze si fossero cristallizzati, anzi, rinvigoriti e talvolta deformati dalla potenza del ricordo e dall’amaro in bocca che ne è rimasto. Di tutto quello di cui si è scritto ed elaborato negli anni a venire, hanno trovato ampio spazio soprattutto le letture morbose di quei giorni, tutte legate inevitabilmente agli scontri di piazza, ma quando si parla di G8 di Genova, bisogna necessariamente risalire a un discorso iniziato prima, quello che fu per molti militanti un percorso di consapevolezza nato nel 1994 con la rivolta Zapatista. In quella sollevazione, infatti, il conflitto di classe si spostava nella sua dimensione più coerente, quella internazionale: l’entusiasmo e la consapevolezza di quegli anni nacque e fu supportata, poi, dal movimento – quello sì globale – che si sarebbe condensato a partire dalle contestazioni al WTO di Seattle.
Rievocando oggi le giornate di sangue di quel luglio del 2001 e la morte di Carlo Giuliani, evento che fece da spartiacque per molti giovani tra furore, purezza ideologica e l’ingresso nel disincanto dell’età adulta, forse bisognerebbe guardare oltre i torti e le ragioni e riflettere su quello che significarono quegli eventi. Nelle strade di Genova, infatti, si è anticipato bruscamente un piano repressivo su scala globale, confermato dallo scenario post undici settembre, in cui le guerre venivano presentate come operazioni di polizia internazionale mentre un evento come quello di Genova – la cui gestione dal punto di vista della piazza è stata demandata a forze di polizia vere e proprie – ha finito per trasformarsi in un vero e proprio scenario di guerra.
Questa contraddizione è forse uno dei simboli più potenti che ci lascia oggi quell’esperienza e che ci mostra come il mondo, da quel momento, non sia stato più lo stesso.

In occasione del ventennale di questo evento ancora così vivo e doloroso nell’opinione e nel sentimento pubblico, Il Teatro Nazionale di Genova ha invitato nove autori e autrici a partecipare al G8 Project, ciascuno con una pièce scritta per l’occasione. Uno sguardo collettivo composto da tanti sguardi individuali, che oscillano tra presente e passato, mettendo fin da subito in chiaro una prospettiva non contestabile: il presente che oggi viviamo non è altro che il futuro che quel movimento di allora criticava e che cercava di scongiurare.
Gli autori coinvolti dal dramaturg del teatro, Andrea Porcheddu, e dal direttore Davide Livermore sono tutti di diversa nazionalità, scelta tra quelle presenti alle manifestazioni di vent’anni fa: il tedesco Roland Schimmelpfennig, la francese Nathalie Fillion, il canadese Guillermo Verdecchia, l’italiano Fausto Paravidino, la britannica Sabrina Mahfouz, il giapponese Toshiro Suzue, la statunitense Wendy MacLeod, il russo Ivan Vyrypaev e infine Fabrice Murgia, belga, in rappresentanza dell’Unione Europea. Le loro scritture, molto diverse tra loro, non indagano un passato recente con l’obiettivo di rievocare un trauma; piuttosto cercano di ragionare attorno ai primi venti anni del nuovo secolo, capire che direzione hanno imboccato e quali sono gli scenari possibili per il futuro.

A vent’anni esatti dalla pièce Genova 01, Fausto Paravidino va in scena con Genova 21, un lavoro densamente drammatico e realista, che ritorna sul tema della città e del G8 con la dovuta distanza emotiva. Sul palco c’è una donna (Barbara Moselli) che ricorda la propria esperienza alla manifestazione: il suo racconto è asciutto, privo della retorica e dell’eroismo che, invece, spesso risuona nei racconti di chi ha vissuto quella pagina di storia. C’è solo una donna di quarant’anni la cui vita oggi sembra essere molto diversa da quella idealizzata dalla ventenne che fu: una cittadina che ha perso ogni fiducia nell’espressione “bene comune” e che sfida la platea (di sinistra, presumibilmente, come spesso accade a teatro) snocciolando le proprie scelte politiche orientate alla Lega e la propria posizione sui vaccini.
Lo spettacolo è frutto di numerosi laboratori, incontri pubblici e privati legati al tema, un lavoro di teatro civile che si interroga su chi siamo diventati dopo quell’esperienza, e in questo senso è molto interessante – tra i numerosi dati che vengono forniti sullo schermo – il rovesciamento di una inquietante prospettiva. Nel 1948 George Orwell scrive 1984, una accurata riflessione sulla società del controllo e sulle operazioni di manipolazione psicologica delle masse ad opera dello Stato. Negli anni Novanta Silvio Berlusconi acquista i diritti del Grande Fratello ed è in quel preciso momento che la distopia letteraria diventa l’utopia dell’uomo comune: nel romanzo, infatti, le persone vivono felici perché sono inconsapevoli di vivere in una società di controllo, mentre nel mondo attuale si anela al diventare oggetto di controllo esposto in vetrina. Genova 21 ha quasi il sapore di un dibattito, e la cosa si delinea con forza quando in sala, all’una di notte (è l’ultimo degli spettacoli di una maratona teatrale di oltre dieci ore), l’attore sul palco si pone la domanda «A cosa serve ricordare oggi il G8 di Genova?», e qualcuno dal pubblico si sente in dovere di intervenire. Il teatro di Paravidino e il suo linguaggio tagliente, vivo, sempre attuale ed estemporaneo, trova un momento di altissima commozione, nella breve ma intensa riflessione su Carlo Giuliani. Potevo essere io, poteva essere chiunque di noi.

Molti militanti, all’epoca dei fatti, erano fortemente condizionati da un concetto di ricomposizione del proletariato globale, che passava anche dalle letture dei testi di Toni Negri, con attenzione in particolare ai concetti di impero e moltitudine. Come scrive lo stesso Negri: «Il concetto di ‘moltitudine’ identifica una coalescenza di singolarità e collettività. Si tratta di una figura in grado di contenere al suo interno la differenza del singolo e l’unità del collettivo. Non a caso, nella sua origine spinoziana la multitudo è legata all’idea di una transindividualità in cui i soggetti non sono già dati (in quanto individui preformati e introflessi), ma costruiti all’interno delle relazioni che costruiscono o subiscono nel reale in cui sono immersi. È questo carattere di intersezione tra i due livelli, singolare e collettivo, che permette alla moltitudine di distanziarsi tanto dall’idea di “individuo” quanto da quelle di massa, folla o plebe».

Uno spettacolo che si interroga proprio sulle possibilità di una nuova etica, «perché non sopravviveremo ognuno per sé, ma tutti insieme stretti in un rapporto di libera interazione» è Dati Sensibili, dell’autore russo Ivan Vyrypaev, tradotto, diretto e interpretato da Teodoro Bonci del Bene.
La New Constructive Ethics conduce un’indagine sociologica, le cui interviste, fatte a una psicologa, una biologa e un neurobiologo, vengono sottoposte all’attenzione degli spettatori. «Hai mai immaginato di avere davanti a te un grosso pulsante che può cancellare dalla faccia del pianeta tutte le persone che lo rovinano? Cancellare simultaneamente, e in modo indolore, miliardi di persone evolutivamente non sviluppate, lasciando solo le persone aperte, tolleranti, intelligenti ed evolute. Ci hai mai pensato? Premeresti quel pulsante?».

Sul palco, Teodoro Bonci del Bene è solo e con grande talento, tra cinismo, curiosità morbosa e malizia, inscena tutti i paradossi del mondo attuale, la velocità alla quale cambiano, paradossi che riguardano principalmente le disastrose condizioni climatiche e le relazioni sociali; un testo molto intelligente e ricco di spunti per riflessioni sociologiche, che fornisce una fotografia della situazione attuale, la coesistenza tra il caos interiore degli esseri umani e gli squilibri di una natura sempre più prosciugata dalle esigenze del mercato globalista.

È ambientato alla fine degli anni Novanta, a Vancouver, Our Heart Learns di Guillermo Verdecchia, drammaturgo d’origine argentina naturalizzato canadese, e diretto da Mercedes Martini. Alba (Martina Sammacco) e Michael (Matteo Sintucci) si incontrano all’università. Lui è figlio di contadini, cresciuto in una fattoria con un padre violento, mentre lei è figlia di due avvocati attivisti per i diritti umani. Tra i due nasce una inattesa complicità che li porterà a stare insieme, condividendo dibattiti su grandi temi sociali, ambientali e politici. A fianco ai due studenti, Guillermo Verdecchia inserisce un coro che inscrive la loro storia personale nella storia collettiva: saranno proprio le vicende esterne, il mondo che sta prendendo coscienza dei profondi, inquietanti cambiamenti che lo attendono, che porteranno, quasi naturalmente, i due giovani a partecipare al G8 di Genova. Da quel momento in poi le vite di Alba e Michael cambieranno inaspettatamente, come quasi a ricordare che ogni atto della vita di un uomo e di una donna è sempre un atto politico.

Lo spettacolo di Fabrice Murgia per la regia di Thea della Valle, Change le monde, trouve la guerre, è un focus molto dettagliato sugli scontri: è la storia di una donna (Irene Petris) che torna a Genova e porta con sé l’hard disk della videocamera con cui riprese quelle giornate, videocamera regalatale per i bei voti a scuola. Il tema della violenza e dell’autoritarismo vengono esaminati attraverso uno sguardo molto intenso sul piano emotivo: da un lato c’è la tentazione dell’oblio, dall’altro l’adrenalina di chi è dentro al cuore dell’azione e ripercorre ogni singolo momento.

Sono molti i racconti di chi prese parte alle manifestazioni in cui era evidente come la polizia, dopo ore di cariche, non riusciva a guadagnare nemmeno un metro sui manifestanti e il blocco umano apparisse pressoché inscindibile. A detta di molti presenti, solo caricando, con atti di violenza gratuita, i cortei furono dispersi. «Non siamo mai stati così rumorosi», «Dopo Genova molti di noi sono rientrati nei ranghi», sono frasi che ritornano nello spettacolo, riportando l’amarezza di un’esperienza rimasta impressa nelle foto, nei video, negli articoli dei giornali, materiale che sembra non aver cambiato molto le coscienze e che viene ancora oggi strumentalizzato solo per parlare di cose sgradevoli a vedere, anche solo a immaginare.

Tra gli altri spettacoli della rassegna, Il Vigneto di Toshiro Suzue, per la regia di Thaiz Bozano, innesca una delicata riflessione su quale progetto di vita individuale sia possibile oggi. E poi la notevole la regia di Sherpa (testo di Roland Schimmepfennig) curata da Giorgina Pi, disegna con cura un lavoro basato sulle geometrie spaziali di quell’evento: da un lato la lussuosa nave da crociera dove alloggiavano i rappresentanti del G8, dall’altro la simmetrizzazione delle zone colorate nelle quali era divisa la città. Una divisione fisica e ideologica del mondo, evidente e spietata, tra privilegio e necessità.

Le storie raccolte e raccontate in questi giorni a teatro dimostrano come su Genova rimangano aperte ancora molte questioni, dal futuro che ci attende al passato che non ha conosciuto giustizia, ma il punto politico più stringente appare molto chiaro: l’Italia non ha mai chiuso realmente con il fascismo, complice anche la storica persistenza di pezzi dell’amministrazione fascista in molti livelli istituzionali repubblicani. È ancora Paravidino a ricordare che la violenza e il paternalismo, che in quelle giornate sono esplosi in atti di tortura, sono stati una sintesi anticipatoria di altre storie che portano i nomi. Tra gli altri, quelli di Federico Aldovrandi, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi.

 

Giuseppina Borghese

Giornalista, si occupa di teatro, viaggi e società. Collabora, tra gli altri, con le riviste Il Tascabile e CheFare.