La maledizione

di Michele Vaccari

"Il vigneto" di Toshiro Suzue, regia di Thaiz Bozano, foto di Federico Pitto
“Il vigneto” di Toshiro Suzue, regia di Thaiz Bozano, foto di Federico Pitto

Nella domanda cos’è Genova a vent’anni dal G8, c’è buona parte della risposta, ed è una verità per me ogni volta insopportabile essere consapevole che sia la domanda giusta per eccellenza, l’unica che spieghi davvero cosa sia diventata nella percezione generale la mia città. Si domanda di Genova come se Genova non fosse qui, nello sbandierato Nord produttivo del Paese, come se ci fosse un buco nero sulla mappa e Genova non si trovasse a due ore da Milano, a tre da Firenze, a quattro da Roma, quando i frecciabianca lo permettono. E Genova, quindi? In quel tono di sospensione, risento l’attesa per la risposta che circonda gli interrogativi sul presente di Chernobyl, del Ruanda, di ogni luogo del mondo che ha attraversato un’apocalisse di fama internazionale e, da argomento del giorno, di qualsiasi giorno, si è ritrovato dimenticato come una meteora discografica di inizio millennio, scomparsa dalle notizie, relegata nei trafiletti della cronaca giudiziaria o nelle grida di protesta di sparuti gruppi di attivisti che ancora sognano giustizia, bellezza e un futuro come si deve: rivedo il macilento declino che la pelle delle vecchie glorie non riesce a nascondere neanche sotto chili di trucco, dopo ore a tirare gli zigomi, per la diretta che celebra l’anniversario dell’unica hit che ha dato loro fama immortale. Raccontaci di Genova, è la richiesta che più mi è stata rivolta quest’anno. Raccontaci di Genova, è la domanda che meno mi è stata rivolta in questi vent’anni. Come se ci sia la necessità di dire di questa Genova adesso, di saperne, ma non troppo, in realtà, quasi per tenerla lontana, per non essere costretti a mettere ancora le mani in quella melma, per dare una rinfrescata al palazzo della coscienza, più che per conoscere davvero, per costruire un giardino immacolato che ha per flora una sequenza di rose di plastica sempre perfette, ma prive di linfa.
Per confermare la tua conoscenza della città, ti convinci che usare quel tono mezzo triste, con le solite quattro canzoni che conosci con la parola Genova nel testo, sia il modo giusto per parlare di Genova.

Non c’è ricerca, non c’è approfondimento. Anche il racconto della mia città è sempre stato così, un racconto che gronda protervia, come se si stesse parlando di un borghetto di cui si può avere una conoscenza superficiale e si è in diritto di dirne, come se si fosse certi che quell’idea di una creuza che scende verso il mare con una canzone di Gino Paoli a fare da colonna sonora sia il modo ancora attuale, vero, di farne narrazione. Nessuno si è interrogato, o si interroga, sulla cartolina surreale in cui l’immaginario collettivo è imprigionato. Genova e la poesia, con quella faccia un po’ così, Genova per noi. Una fotografia scaduta, priva di figure ancora possibili, una cartolina da un paesaggio filtrato dallo sguardo di ex ragazzi sessantottini che qui ci venivano a farsi le nuotate, a lavarsi i genitali nei bagni degli stabilimenti, a fare le foto in Via del Campo convinti di qualche legame, parentela col loro vate perché, altro classico, anche loro sono poeti, quando in questa città, di poesia, ce ne hanno mai tolta tanta che è già un miracolo che non ci esprimiamo solo a pugni e bestemmie. Come molte città del nostro Paese, il cliché è quello ereditato dall’album dei ricordi dei figli del boom, ma i veri colpevoli di questa enorme forma di incantamento collettivo siamo tutti noi che a quel tipo di immaginario abbiamo deciso di dare seguito, senza domandarci quanto valido fosse ancora. E Genova, allora? Come va? In questi vent’anni ecco questo è rimasto coerente, limpido, una specie di tradizione: come se ci si fosse messi d’impegno nel farlo, non si è mai smesso di parlare di Genova coi suoi stereotipi in decomposizione, per fermare anche il racconto del 2001 in uno stereotipo in decomposizione. Genova, da allora, è solo l’omicidio di Carlo Giuliani. Il suo assassinio e la rabbia per le bugie che hai scoperto nel tempo a venire, una serie di bugie cui, però, all’inizio, hai deciso di credere anche tu come chiunque. Così come hai creduto che Paolo Conte fosse il vate musicale di Genova, dimenticandoti che è di Asti, o di quando ti sei illuso che il pesto fosse la radice primigenia della nostra cultura alimentare e non vai a verificare che esiste da soli duecento anni. Hai lasciato Genova in superficie, perché non era una città importante, in fondo. E così la verità è rimasta in superficie, come se non fosse importante in fondo. Ti è bastato un passamontagna per credere fosse un black bloc. Così come una frase di Scajola per convincerti che alla Diaz non c’era nulla di premeditato e qualcuno, qualche zecca anarchica, avesse davvero portato delle molotov che giustificavano la reazione, il massacro, l’inferno di quei corridoi, Diaz, il primo ministro dell’interno del fascismo, colui che indusse il Re e Badoglio a dare fiducia a Mussolini.

Avete, abbiamo lasciato che nessuno pagasse conseguenze. Hai, abbiamo permesso che ne uscissero tutti indenni, dai “macellai in divisa” che giocarono alla violenza fino alle conseguenze più estreme, ai Casarini che usarono i ragazzi come energia per il motore della propria carriera politica. Loro, da Genova, uscirono illesi mentre tutti gli altri, quelli che in qualche modo ne sono usciti, mentalmente non ne uscirono mai.

Chi ha vissuto davvero Genova in quei giorni ha subito la maledizione che si subisce vivendo qua: essere dimenticati, non esistere, essere sconfitti. E, come per la mia città, anche il racconto che si è costruito gli ha assomigliato, un racconto che via via che si procede nel nuovo millennio sbiadisce, resta la sagoma di un fantasma in lontananza, la gioventù che ci hanno cancellato a colpi di manganello e banalizzazioni retoriche.
I suoi quartieri, le sue luci, la sua storia antichissima, la sua commistione di stili architettonici, certi attimi, la passeggiata di San Rocco a picco su Nervi, le vie segrete e bestiali di Marassi, i giardini segreti di Voltri e Pegli, non interessano ai giornalisti, ai curiosi, ai turisti dell’impegno che si sono svegliati quest’anno e si sono ricordati di Genova. Come dopo il 2001, quando, tutti tornati alle loro case, non si preoccuparono del silenzio che si respirava per queste strade, della topografia violentata di certi quartieri che ancora oggi sono costretto ad attraversare per tornare a casa e nessuno che vive altrove si chiede: com’è attraversare tutte le mattine, tutti i pomeriggi, tutte le sere della tua vita Piazza Alimonda? Allora: raccontaci un po’ come si vive col corpo di Carlo Giuliani che ogni giorno ti giri dallo scooter e lo vedi lì a terra, col sangue che esce dalla fronte e i carabinieri che fanno capannello per coprire il vilipendio che si sta commettendo? Che ne dici di mettere una bella canzone di De André e poi parliamo un po’ di Genova e dei caruggi, eh? Che ne pensi? Tu che manco vivi nei caruggi, che sei nato a Marassi e stai sulla collina davanti allo scoglio da cui partì Garibaldi per rovinare l’Italia per sempre, parlaci un po’ dei tuoi amati vicoli.

Questo è quello che è successo a Genova in quell’anno: sono diventato uomo, ho visto mio nonno crepare, ho capito perché per me è giusto odiare la polizia.
Ma di quei giorni, come molti, ricordo pochissimo perché a quel delirio si contrappone un deserto: io, più che il 19, il 20, il 21 luglio, ricordo il 23, il 24, il 25 luglio e tutti gli altri giorni fino all’11 settembre, il lugubre silenzio che emanavano le strade nelle mattine a venire, come se la paura, la tragedia, la catastrofe del summit, avessero fatto come il calore del sole quando rimane imprigionato nell’asfalto e lentamente, appena cala la notte, rilascia il suo potere invincibile di soffocamento. Ricordo con nitidezza quella sensazione perché è la stessa sensazione di asfissia, infinita solitudine e incapacità di dare un motivo ai giorni che ho provato l’anno scorso, quando Genova in pieno lockdown assomigliava a quella Genova del 2001, una Genova da fine della terza guerra mondiale, che tanto mi diede in termini di orizzonti quando decisi che la fantascienza sociale sarebbe stata il mio campo letterario prediletto. Io, l’unica grande distopia che il nostro Paese ha conosciuto dal 1945 a oggi, l’ho vissuta addosso, le location scelte dallo Stato per ambientare il suo kolossal più tragico, più angosciante, più verosimile per spiegarci cosa sia lo Stato quando dimentica la sua natura di congiunto della democrazia, sono le mie strade, la mia infanzia. Il luogo che ho più caro al mondo è il luogo del trauma collettivo più importante della mia generazione. È come provare ad ambientare un romanzo nella piccola frazione di San Patrignano, cercando di convincere il lettore che non si parlerà di eroina.

Ricordo quella fame d’aria del 22, del 23 e del 24 luglio, le notti infinite, le mattine a cercare il fresco per dormire qualche ora e quella mano che ti stringe la gola e ti dice queste immagini saranno sempre con te perché questi luoghi erano tuoi prima, lo saranno per te sempre, è come diventare grandi e un giorno tua madre torna a casa, ha la faccia distrutta, e tuo padre ti manda in camera, e tu senti, a distanza, il suo pianto, sommesso e carico di furia, mentre lei gli racconta lo stupro che ha subito da uno sconosciuto.

Non si riusciva a respirare per le strade di Genova, perché a ricordare le innumerevoli violenze cui ognuno aveva assistito si era già persuasi sarebbero rimaste impunite e questo generava un’ansia uguale a quella vista nei giorni del crollo del Ponte sul Polcevera. Quelle urla, che chiedevano pietà, salvezza, coscienza civile, rimasero nella testa di tutti genovesi per un decennio almeno, perché i negozi parlavano di quanto accaduto: dalle vetrine spaccate, dalle scritte sui muri, dalle macchie di sangue indelebile e minorenne sui palazzi signorili voluti da Barabino per la sua Genova dell’Ottocento, che sognava progresso, eleganza e ricchezza morale.

Com’è Genova?
Genova è una città finita, rassegnata, che vive il declino come forma di evoluzione. La chiama progresso, ma è ospizio. Genova è ancora la macchina del tempo che viaggia per portarti sempre al punto di partenza. Ed è per questo che l’unica cosa che cambia è la memoria. Una memoria che i genovesi si sono stancati di vivere, ripetere, raccontare ai nipoti. Perché per noi è una macchia, come se ci fosse una festa a casa, s’imbuca qualcuno che ti uccide il figlio e poi se ne va. Nessuno qui voleva il G8, nessuno come i genovesi odia gli sbirri e ha la nausea dei prefetti (l’ultimo che ha detto qualcosa l’hanno buttato nella fontana, era il 1960 e i missini si accoglievano coi ganci alti), nessuno qui voleva altri morti, nessuno voleva ancora che questa città venisse alla mente per un trauma. Ma, dopo il Morandi, è diventato chiaro, ogni città in questo paese ha il suo ruolo. Se Firenze e Venezia sono le città d’arte, Milano è il futuro, Roma il passato e le istituzioni, noi siamo la morte dell’Italia. E così dovremmo essere venduti. Vieni a Genova, scoprirai come si muore in Italia. Si muore di Stato, quando ti ribelli ai suoi sgherri, si crepa di autostrada, quando vuoi prenderti una vacanza dalla dittatura del capitale, si crepa di abusivismo edilizio, quando cerchi un appartamentino a picco sul golfo e una frittura mista che è un piatto tipico sì, ma di Positano, si crepa di cambiamento climatico, quando una bomba d’acqua ti porta via la famiglia in un quarto d’ora, si crepa di anziani che occupano per sempre i loro posti di lavoro e tu non puoi fare altro che aspettare il tuo turno, la bara che stanno già scalpellando per te, si crepa di ricordi che non ci permettono di andare avanti. Non andare all’Acquario, è una menzogna, Genova è città di morte, Staglieno, il cimitero più grande d’Europa, seguite la bandierina, ecco bravi, mettetevi a cerchio, regolate il volume delle vostre audioguide, mettetele al massimo della potenza e ascoltate: per di qua la morte, davanti a voi la morte, alle vostre spalle la morte, questo ateneo, morte, questo stadio, morte, questo ospedale militare, morte, questo torrente, morte, questa piazza, morte, questo ponte, morte, se avete fame, piatto tipico, morte, rigorosamente alla genovese.
Morte, e ipocrisia.
Chiunque la calpesta, dice di amarla. Chiunque dice di amarla, ma nessuno ti ha mai detto in quarant’anni di vita: sai, vengo a vivere a Genova. Perché Genova è sinistra, ma non come slogan da scarsa campagna elettorale, è ctonia, è orgogliosa, ma mastica la rabbia, la rabbia che tutti conoscono, la rabbia allucinata di Grillo, una rabbia da bestia torturata, che ha il sapore sempre di una rivalsa da Balilla, di chi vuole giustizia, lancia un sasso ma poi finisce per chiudersi nel bar a lamentarsi che non ci sia la Rivoluzione. Che si è degli eterni dimenticati.
Dimenticati dalle istituzioni centrali, che nei suoi 600 mila abitanti vedono solo un gruzzolo di voti con le gambe e le mani pronte a fare la X giusta sulla scheda. Dimenticati dagli anni Settanta in poi, da quando, cioè, la città comincia a vivere il suo declino demografico. Dimenticati dalla storia: mentre il mondo andava verso la socialdemocrazia e cadeva il muro di Berlino, qui da noi vigeva ancora il regime del console del porto e il partito più conservatore del comunismo all’italiana. A questo immobilismo di sistema non ha contributo la sua natura di città fugace. Nell’immaginario collettivo Genova è una città di transito, la città da cui parti col traghetto per andare in Corsica o Sardegna, la città dove andare all’Acquario due o tre ore prima di deviare per Camogli, Portofino, Santa Margherita fino alle Cinque Terre, a Levante, Varazze, Spotorno, Varigotti, Sanremo, prendendo la direzione della Francia.
Essere diventati la città da cui non si riesce più ad andarsene, ha trasformato tutta la narrazione in un gioco da brividi: Genova Capitale della cultura nel 2004, dietro l’angolo la rima atroce con tortura, Genova Meravigliosa, una RSA a grandezza metropolitana, la silver economy come avvenire, il sogno di una città a misura di anziano che si realizza, il sogno di quella città del 2001 a misura di ragazzo che ogni giorno muore di più, per le nuove generazioni un’altra bella dose di oblio, finché finalmente Genova ce la farà e nella morte troverà la pace, il rispetto, la vicinanza di tutti coloro che non gliel’hanno concessa in vita, preferendo indignarsi, dirne, scriverne, ma come forma di commemorazione funebre.

 

Michele Vaccari

Michele Vaccari ha pubblicato racconti e reportage (Vogue, Rocksound, Groove, Effe, Nuovi argomenti, CTRL, Corriere) e alcuni romanzi: Italian Fiction (ISBN 2007), Giovani nazisti e disoccupati (Castelvecchi 2010), Delia Murena (Ad est dell’equatore 2010), L’onnipotente (Laurana 2011), Il tuo nemico (Frassinelli 2017), Un marito (Rizzoli 2018), Urla sempre, primavera (NN Editore 2021). È stato copywriter per Comedy Central e Paramount. Ha diretto la collana Altrove per Chiarelettere. È docente di editing (Scuola Mohole, Scuola Carver, Scuola Macondo).