Genova dopo Genova
di Giuliano Santoro
Genova fu un punto di svolta. Lì si intrecciarono biografie, conversero storie politiche e percorsi collettivi, si infransero sogni e si produssero traumi. Per questo è inevitabile che si guardi a quelle giornate enfatizzandone la natura dirimente. Ciò non deve farci dimenticare però che ci fu un prima di Genova e ci fu anche un dopo. Ci furono anni di sperimentazione e accumulazione di forza e di legami sociali per produrre quella massa critica. E ci vollero anni per sconfiggere definitivamente quel movimento, che non si spense da un giorno all’altro all’improvviso.
Questa prospettiva ci aiuta a evitare la retorica della sconfitta e ci consente di non assumere pose da reduci o, peggio ancora, da vittime. Bisogna assumere il fatto che ogni movimento sociale è sempre la spia di una grande mutazione in corso, l’elemento che produce il cambiamento e che costringe chi comanda a inseguire e ridefinire i propri meccanismi di cattura. Se si osservano movimenti come causa e non come effetto, come azione creatrice e non reazione difensiva, comprendiamo a fondo e in prospettiva cosa accade a Genova. Dunque, possiamo dire che anche il movimento che si ritrovò nel capoluogo ligure nel luglio del 2001 anticipò alcuni temi e produsse, in forme seminali ma critiche, alcuni discorsi che ai giorni nostri sono divenuti talmente centrali da essere spesso considerati scontati.
Si potrebbe cominciare con la pratica di una sfera pubblica non statuale, con la prefigurazione uno spazio di democrazia e orizzontalità autonomo dal sistema dei partiti. Sarebbe sbagliato dire che il movimento di Genova, prima tramite i comitati locali e poi con i social forum, era completamente alternativo alle organizzazioni della sinistra tradizionale. Rifondazione comunista e parte del sindacato giocarono un ruolo importante. Eppure, la massa critica trasversale che si consolidò attorno alle mobilitazioni per un’altra globalizzazione e contro i dogmi neoliberisti e che andava (come si dice con un’espressione abusata eppure veritiera) dai cattolici di base ai centri sociali, aveva un’idea della democrazia e del rapporto con la rappresentanza che puntava a misurarsi quantomeno alla pari con i partiti e le organizzazioni del movimento operaio. Avvenne a maggior ragione dopo il Forum mondiale di Porto Alegre, quando i temi della democrazia partecipativa informarono l’azione, su sfera locale, dei movimenti globali. Soltanto la dissipazione di questo patrimonio di esperienze, di pratiche e di elaborazioni, il suo scontrarsi con la repressione di quelle giornate e con il muro di gomma delle istituzioni, ha potuto far sì che dieci anni dopo il luglio 2001, la contestazione al sistema dei partiti e il malcontento popolare generato dalla crisi della democrazia e del neoliberismo sarebbero finiti in mano al Movimento 5 Stelle. Cioè a una forza politica che ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo dichiarato di spoliticizzare ogni conflitto, di rimetterlo dentro i canali istituzionali senza curarsi di mantenere una forma organizzativa di base che producesse un vincolo tra eletti ed elettori (a meno che non si voglia prendere sul serio il ruolo giocato dalla scatola vuota della democrazia digitale che ha preso il nome di piattaforma Rousseau).
Da qui si arriva alla seconda questione. Il ciclo che partì dalla rivolta di Seattle di novembre 1999 è stato attraversato dalla consapevolezza che ci fosse bisogno di dotarsi di strumenti digitali e di nuove forme di comunicazione. Proprio a ridosso delle giornate contro il Wto, Jello Biafra lanciò lo slogan «Don’t hate the media, become the media», che sarebbe divenuto il principio cardine di Indymedia, rete di comunicazione indipendente che molto prima di Facebook mise in pratica la forma partecipativa del social media. La rivoluzione delle reti di media-attivisti che si incontrarono a Genova sta tutta in questo rovesciamento: utilizzare il web non per cercare una notizia ma per aiutare a produrla, per mettermi in relazione con alcuni miei pari. La rete non è un database ma un luogo di scambio e di conflitto. Inutile dire che Mark Zuckerberg avrebbe interpretato questa rivoluzione (filosofica prima che tecnologica) per dare vita a una mega-macchina pensata apposta per condividere le proprie vite e spremerne valore e nuovo sfruttamento. Facebook tende a restringere il campo delle nostre relazioni attorno alle affinità più strette: l’algoritmo seleziona le interazioni e ci sottopone solamente gli aggiornamenti di chi è considerato più consono alle nostre caratteristiche. È in questo modo che si diffondono narrazioni on demand, plasmate sull’attività in rete del singolo (e atomizzato) consumatore. Ognuno è libero di credere alla sua versione di fatti, di ricombinare i frammenti di tweet, meme e post in modo che il suo convincimento ne esca rafforzato. Ci si informa per avere più frecce all’arco della propria idea pregressa, non per mettersi in crisi. Esattamente all’opposto della macchina moltitudinaria del grande fratello rovesciato di Genova, dove migliaia di telecamere, telefonini non ancora smart e macchine fotografiche che concretamente smontarono la narrazione unilaterale dei media ufficiali e rimisero la ricostruzione di quelle giornate sul binario giusto. Proprio il media center di Genova fu attaccato dalla polizia, al termine delle giornate del G8. Un movimento che mette la comunicazione al centro, che produce altra informazione e si muove sui binari della relazione orizzontale invece che dei comitati centrali, è la forma della politica leaderless che è stata rimpiazzata nel decennio successivo dai populismi.
Ancora, quello di Genova era la prima forma di un movimento veramente globale, nato dentro i flussi planetari di comunicazione e in grado di porre in forma inedita il tema del rapporto tra nord e sud del mondo in maniera complessa e articolata, cogliendo i nessi che attraversano la produzione globale e i punti di intersezione tra diverse tessere del puzzle mondiale, senza tentazioni sovraniste o nostalgie per la miseria dello stato-nazione. E infatti quelle giornate si aprirono con i cortei dei migranti che rivendicavano il diritto alla libera circolazione.
Riassumendo: nuove forme di democrazia oltre gli stati e le nazioni, prospettiva irriducibilmente globale, comunicazione e organizzazione orizzontale. È facile capire come tutto ciò abbia che fare con il modo e lo stile con cui si raccontano le storie. Uno spazio pubblico democratico e non statuale che si dota di strumenti propri di comunicazione e relazione tra pari consente di approcciare alla complessità del mondo, produce forme terapeutiche di fronte alla patologia collettiva rappresentata dal neoliberismo. Non appena quello spazio si è chiuso, quando i media digitali sono divenuti i luoghi delle bolle di filtro e dell’atomizzazione delle vite, hanno proliferato alternative facts, fake news e post-verità. In tempi non sospetti, Fredric Jameson (poi ripreso da Slavoj Žižek e Mark Fisher) diceva a proposito della condizione postmoderna che è più facile immaginare la fine del pianeta che quella del capitalismo. Se a Genova si diceva «un altro mondo è possibile», negli anni successivi a Genova per troppa gente cambiare il mondo è diventato impossibile. A questa forma claustrofobica e asfissiante dello stare al mondo, e del raccontarsi il modo in cui si sta al mondo, si reagisce seguendo tre schemi che si combinano in diverse proporzioni. Intanto, c’è il fatto che le persone si illudono di cambiare almeno loro stesse: ne è un sintomo la rinnovata fortuna delle culture new age e delle medicine cosiddette alternative. Inoltre, la gente cerca di vendicarsi contro i potenti: da qui il successo delle diverse forze populiste, che non hanno lo scopo di produrre un altro modo di vivere collettivo ma al massimo possono farti intravedere la possibilità di castigare in qualche forma chi ha governato fino a oggi. Oppure, si ripropone l’idea vecchia quanto il mondo (e alla base di numerose narrazioni politiche) che solo pochi illuminati possano riconoscere la vera matrice degli eventi in corso, seguendo una traccia che ricalca lo schema meta-politico dell’Apocalisse, alla quale sopravvivono solo i giusti destinati a rifondare la polis. È un’allegoria, questa, che dai padri Pellegrini a Reagan è sempre stata presente nella retorica politica statunitense e che adesso si propone in forma liquida, diremmo pop, da questa parte dell’Oceano. Le intuizioni del movimento di Genova, di una composizione sociale e produttiva che aveva i piedi ben piantati oltre il Novecento ma che riuscì in larga parte a evitare scivolamenti postmoderni, rappresentano invece un modello alternativo, una terapia politica alla quale è utile attingere. Per questo non servono i rimpianti, le imprecazioni sul cosa sarebbe potuto accadere se…, ma è utile ritessere il filo delle storie collettive per guardare avanti.
Giuliano Santoro
Giuliano Santoro, giornalista, lavora al Manifesto dove scrive di politica e cultura. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).