Venti anni di torti, venti anni di ragione
di Lorenzo Guadagnucci
Il G8 di Genova del 2001 è un evento chiave del nostro tempo: fu il potenziale innesco di una stagione politica nuova sull’onda di un movimento globale in fase di espansione, ma anche la fine di tale possibilità. Un altro mondo era possibile, potremmo dire, parafrasando lo slogan più diffuso di quei giorni. Vent’anni dopo, le giornate genovesi si prestano a numerose chiavi di lettura e non è un caso, allora, che il G8 del 2001 sia passato alla storia non con una, ma con un florilegio di immagini simbolo.
Quella forse più conosciuta è anche la più ingannevole: è una fotografia nella quale si vede Carlo Giuliani, il volto coperto da un passamontagna, con un estintore in mano e in procinto di scagliarlo contro una camionetta dei carabinieri; lo schiacciamento dovuto al teleobiettivo non permette di apprezzare la reale distanza fra Giuliani e il mezzo militare, superiore ai tre metri, ma non importa. È sulla base di questa fotografia che si diffonde una prima lettura dei “fatti di Genova”, secondo la quale il movimento era pieno di facinorosi e le violenze delle polizie sono state la risposta obbligata alle violenze dei manifestanti, responsabili di aver “messo a ferro e fuoco” la città.
Un’altra fotografia ci porta su un versante opposto. Si vede una ragazza, coi lunghi capelli stile rasta, distesa su una barella, il volto e le mani coperte di sangue, gli occhi chiusi e la bocca semi aperta in un’espressione forse di dolore forse di incoscienza. La ragazza è Lena Zuhlke, ha 24 anni ed è appena uscita dalla scuola Diaz, teatro di una violenta irruzione della polizia di stato, un massacro definito dal capo dei poliziotti picchiatori «una macelleria messicana» e dai magistrati italiani e dai giudici europei un terribile abuso di potere qualificabile come tortura.
Una terza immagine ci porta a un radicale cambio di scena, alle manifestazioni avvenute nell’intera settimana del G8, quando il Genoa social forum, la rete di oltre mille organizzazioni che diede vita alle iniziative della società civile, mise in piedi, oltre ai cortei, anche il cosiddetto Public forum, una serie di incontri, conferenze, piazze tematiche per affrontare tutti i temi legati alla globalizzazione neoliberista, cioè l’oggetto del contendere fra i rappresentanti delle maggiori potenze mondiali e le decine di migliaia di manifestanti convenuti a Genova. È l’immagine di una moltitudine di manifestanti che tiene in alto le mani dipinte di bianco: un modo per rappresentare la forza delle proprie ragioni, lo spirito di nonviolenza proclamato dal Genoa social forum nel suo “patto di lavoro”, il senso dello slogan scritto sullo striscione di apertura del corteo conclusivo: «Voi G8, noi sei miliardi».
C’è poi un’ultima immagine – a dire il vero meno nota, ma a suo modo importante – da prendere in considerazione: è la foto ufficiale dei leader protagonisti del vertice, scattata all’ingresso di Palazzo Ducale. In verità i leader erano dieci, perché agli otto rappresentanti “ufficiali” (ricordiamoli: Koizumi, Blair, Bush, Chirac, Berlusconi, Putin, Chretien, Schroeder) si aggiungevano due esponenti dell’Unione europea: Verhofstadt per il Consiglio, Prodi per la Commissione. Dieci maschi, tutti bianchi, tutti uniti – chi da destra, chi da sinistra – nella fiducia in un progresso globale imperniato sull’espansione dell’economia di mercato, sull’abbattimento dei vincoli “statalisti” ereditati dal passato, sulla crescita pressoché illimitata di produzioni e consumi.
A questo punto, potremmo raccontare i vent’anni trascorsi dall’estate del 2001 attraverso il percorso di queste quattro foto: la loro visibilità variabile nel tempo, le citazioni che hanno ricevuto, l’uso simbolico che ne è stato fatto, la prevalenza ora dell’una ora dell’altra. Lo scatto ingannevole di piazza Alimonda, per esempio, ha dominato la scena nelle prime fasi della narrazione mediatica ed è rimasto scolpito nelle menti dei meno attenti, dei tanti che hanno seguito distrattamente le ricostruzioni storiche e giudiziarie degli anni seguenti, quando la tesi assolutoria delle forze dell’ordine costrette ad agire per far fronte alla violenza di piazza è stata demolita pezzo per pezzo.
È durante le inchieste, e poi con l’esito dei processi, che alla foto di Giuliani ripreso poco prima di morire ammazzato, si è affiancato – come immagine simbolo delle violenze di polizia al G8 – il ritratto di Lena Zuhlke insanguinata in barella, un’immagine di sofferenza e ingiustizia messa non a caso dai pm del processo Diaz sulla copertina del fascicolo d’inchiesta. Oggi il G8 di Genova, quanto a gestione della piazza e tragedia dell’ordine di pubblico, non è più “solo” l’omicidio di Carlo Giuliani – il primo cittadino ucciso dalle polizie durante una manifestazione dal 1977, quando toccò a Giorgiana Masi a Roma – ma “anche” le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. Il G8 di Genova è anzi passato alla storia come «la più grande repressione di massa in una democrazia occidentale dopo la seconda guerra mondiale», nel giudizio di Amnesty International; uno straordinario concentrato di violenze, abusi e falsi istituzionali che ha «gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo» nella valutazione dei giudici di Cassazione (per non citare che una delle tante, pesantissime espressioni scritte nelle varie condanne subite dalle forze di polizia italiane).
La fotografia degli otto, anzi dei dieci “grandi”, dicevamo, è stata poco vista ed è poco ricordata, ma è come un simbolo in negativo del G8 genovese e ci ricorda, con la sua invisibilità, qual è l’eredità politica più importante, più duratura di quell’evento: la centralità non dei potenti ma di un movimento – rappresentabile iconograficamente dai manifestanti con le mani dipinte di bianco – che stava cominciando a farsi largo sulla scena globale. Quel movimento aveva ragione nella sua analisi della globalizzazione neoliberista e aveva saputo anticipare e mettere a fuoco alcune questioni decisive della nostra epoca, questioni in buona sostanza ancora attuali: tanti, anche vecchi avversari o appartenenti alla vasta platea degli osservatori al tempo diffidenti, lo hanno riconosciuto in occasione del ventennale. Lo choc finanziario del 2007-2008, le inutili e rovinose guerre in Iraq e Afghanistan, gli eventi climatici estremi, la “crisi” dei migranti: sono tutti fatti che il Public forum di Genova 2001 aveva in qualche modo intravisto, denunciato e messo al centro della propria proposta politica.
Mauro Biani, in una caustica vignetta, a due ragazzi – vestiti, diciamo così, da attivisti, con tanto di bandiera arcobaleno – che dicono «Quindi avevamo ragione noi», fa replicare da un uomo ben vestito, simbolo del maschio moderato e benpensante medio (in Italia, la figura largamente prevalente nel mondo politico e mediatico), con un sarcastico: «Sì, ma non avevate altro». La vignetta dice il vero, se si vuol sostenere – com’è probabilmente l’intenzione di Biani – che mancava al movimento il radicamento sociale, politico e istituzionale che lo avrebbe forse protetto dalla furia poliziesca, ma è meno vero se con ciò si intende sottovalutare l’importanza di “avere ragione” nel campo delle idee o sottacere la grande novità che il movimento portava con sé, ossia la sua dimensione globale, nonché la capacità di unire in un arcipelago vivo e creativo attivisti con storie, culture, esperienze le più varie, grazie a un lavoro di coesione e d’incontro fra diversi senza significativi precedenti.
L’esperienza del G8 di Genova, dunque, oltre alla consapevolezza che le polizie – che mai hanno davvero rinnegato i propri comportamenti del luglio 2001 – sono disposte ad accantonare, in caso di “bisogno politico” più o meno dichiarato, le regole costituzionali e lo stato di diritto, lascia in eredità un punto di vista sul neoliberismo ancora attuale (per quanto da aggiornare) e soprattutto un precedente: è stato possibile mettere in campo un movimento politico globale forte, positivo, competente. È vero, questo movimento è stato criminalizzato e messo politicamente fuori gioco, ed è stato rifiutato anche dalla sinistra storica (che peraltro ha pagato la sua subordinazione all’ideologia neoliberista con la sostanziale scomparsa della sua ragion d’essere), ma i nuovi movimenti oggi sulla scena, magari frammentati e scollegati fra loro, da quell’esperienza possono attingere analisi ed elaborazioni ancora valide. La complessa vicenda del G8 di Genova è lì a dimostrare che nel vasto e variegato mondo dell’impegno sociale, civico e politico di base esistono risorse infinite e sorprendenti. Il Genoa social forum non nacque certo dal nulla e aveva anzi alle spalle almeno un ventennio di riflessioni e azioni attorno all’avvento del neoliberismo, un lavorio sfociato nella “rivolta di Seattle” del novembre 1999 e poi nel primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre, nel gennaio 2001. È un percorso ancora aperto, nonostante le brutalizzazioni subite, e quindi un’implicita replica alle tentazioni convergenti del reducismo impotente e della rassegnazione silenziosa. Genova G8, nonostante tutto, ha lasciato un segno, e gettato semi che non hanno smesso, né probabilmente smetteranno presto di germogliare.
Lorenzo Guadagnucci
Giornalista e attivista, fra i promotori del Comitato Verità e Giustizia per Genova. È autore di libri sul commercio equo e solidale, sulle forme di altra economia, sul G8 di Genova del 2001, sul razzismo a mezzo stampa, sulla questione animale come questione di giustizia, sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. Tra gli altri titoli: “Noi della Diaz” (Altreconomia 2001, nuova edizione 2021), “Il nuovo mutualismo” (Feltrinelli 2007), “Lavavetri” (Terre di mezzo 2009), “Parole sporche” (Altreconomia 2010), “Restiamo animali” (Terre di mezzo 2012), “Era un giorno qualsiasi” (Terre di mezzo 2016), “L’eclisse della democrazia”, nuova edizione con Vittorio Agnoletto (Feltrinelli 2021).