Bari. Serve una licenza per utilizzare lo spazio pubblico?
di Carmen Pisanello
Il quartiere San Paolo è uno dei quartieri più popolati e periferici di Bari. Una grande zona residenziale nata con l’edilizia popolare tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, nell’area nord-ovest della città, e per questo denominato a lungo semplicemente CEP, acronimo del piano di Coordinamento di Edilizia Popolare, da cui sono sorti diversi quartieri di case popolari dell’Italia post bellica. Isolato dal resto della città, circondato dalle campagne di Lama Balice e dalla zona industriale, “il quartiere” si porta dietro ancora oggi innumerevoli pregiudizi di zona pericolosa e malfamata, legati alla storia proletaria e sottoproletaria di molti dei suoi abitanti, in parte trasferiti lì per “liberare” dalle baraccopoli e dai Lumpen aree molto più a ridosso del centro urbano. Un quartiere, se vogliamo, figlio di un modo di produzione capitalista dello spazio, i cui abitanti hanno subito a lungo lo stigma di “elementi pericolosi”.
Proprio ad uno di quegli incroci fra le case popolari, l’ho vista: una bancarella illuminata solo da una lampadina nuda, costituita semplicemente da una bombola da cucina a gas, un fornelletto su cui troneggiava una grossa padella piena d’olio fumante accanto un a tavolino richiudibile coperto da una tovaglia di plastica. Erano passate le otto di sera e ho osservato la scena dal finestrino della mia auto: nel chiosco si friggevano sgagliozze, frittelle di polenta di mais e tipico cibo di strada barese. Intorno un paio di persone attendevano la frittura. Le sere successive, passando sempre alla stessa ora, non ho potuto non notare che le persone in attesa intorno all’olio fumante erano diventate ormai un capannello.
Di queste bancarelle, totalmente abusive, a Bari se ne vedono ormai poche. Perseguibili in base a qualsiasi normativa esistente, sono gradualmente scomparse dalle strade cittadine sotto forte spinta dell’amministrazione Decaro. Una tradizione illegale secondo le norme igienico-sanitarie e fiscali, difficile da difendere anche a causa dell’influenza dei clan, il cui controllo del territorio ha storicamente imposto le zone di vendita e quote parte. Quando l’8 maggio 2016, il giorno della festa di San Nicola, il Sindaco di Bari Antonio Decaro inviò la polizia locale e l’ente di nettezza urbana a distruggere le bancarelle abusive che come da tradizione costeggiavano tutto il lungomare, il tutto si realizzò con il plauso dell’opinione pubblica. Nonostante in molti piangessero segretamente, in pochi si opposero pubblicamente, nel timore di risultare conniventi ai fenomeni di controllo del territorio da parte della criminalità organizzata (1).
Nella battaglia per il controllo del territorio fra Stato e Clan, in genere il conto viene presentato proprio a quella classe proletaria e sottoproletaria, alle famiglie e ai disoccupati, di cui molti ultracinquantenni, che contavano sull’espediente della bancarella per guadagnare. Sono stati soprattutto loro a pagare il prezzo della battaglia alle bancarelle abusive: schiacciati fra le minacce dei clan, ritrovandosi bancarelle e frigoriferi sequestrati e poi distrutti dall’ente di nettezza urbana, infine anche arrestati (2). Accusati di essere parte attiva e connivente della malavita locale e di attentare alla salute pubblica con la loro merce, gli abusivi si sono difesi controbattendo che la vera differenza è la possibilità di pagare: chi aveva soldi si regolarizzava, pagava il fitto per lo stand e poteva continuare ad arrostire, pagando in questo caso lo Stato anziché il Clan, per meno guadagno (3).
Certamente, le bancarelle regolarizzate sono una minima parte di quelle presenti prima della “rivoluzione” del 2016 (4). Il sole era già sceso sul molo San Nicola, mercato del pesce di giorno e ritrovo popolare di notte, fra le ultime aree non gentrificate del centro cittadino, quando gli ambulanti in protesta si scontrano duramente con la polizia. Al mio arrivo sul posto quella sera, il molo era interamente ricoperto dei vetri delle bottiglie rotte che gli ambulanti avevano lanciato contro la polizia in assetto antisommossa. Da quel giorno, la Festa di San Nicola perse una delle sue attrazioni memorabili: la lunga fila di decine e decine di bancarelle abusive (dette fornacelle) che affollava tutto il lungomare, dall’ingresso a sud est della città fino alle porte della città vecchia. Involtini o spiedini di carne e interiora o polpi finivano in panini affatto gourmet, preparati senza fronzoli e, in alcuni casi, di dubbia provenienza. La coltre di fumo che si levava da questa enorme brace a cielo aperto si univa al fumo della polvere da sparo dei fuochi pirotecnici e così, avvolta nel fumo dei festeggiamenti, la città celebrava il suo Santo. Un fenomeno criticatissimo, che «condanna la città a restare un centro di provincia (5)», eppure attrazione storica per una festa che oggi vede il lungomare Nazario Sauro deserto, mentre gli stand si concentrano esclusivamente intorno alle mura della città vecchia.
La “uascezze” è una parola del dialetto barese che sta ad indicare l’allegria della convivialità, quel momento in cui la gioia dello stare insieme fa rovesciare il bicchiere, ma anziché piangere sul vino versato, ci si intingono le dita e si toccano i lobi del vicino al grido di “uascezze!”, come augurio di buona salute e di abbondanza. Il vino versato e la tovaglia macchiata è il prezzo che i commensali accettano di buon grado, in cambio di quel momento di goliardia e gioia condivisa. Le fornacelle sono una tradizione cittadina, immagine di una città conviviale e popolare. Bari, che negli anni Ottanta era famosa più che altro per essere una zona pericolosa in mano ai clan criminali e da cui era meglio tenersi alla larga, ha mantenuto intatto nel tempo quel suo spirito di “uascezze” rimasto legato ai costumi e ai riti, spesso gastronomici, che sono sopravvissuti fino ad oggi.
Non è un caso, dunque, se la tradizione locale e le immagini più iconiche della città spesso scavallano il limite fra il lecito e l’illecito, come è stato raccontato anche in un interessante reportage di Jason Horowitz uscito sul New York Times nel 2019 e intitolato Call it a Crime of Pasta (6), riportato anche su diverse testate giornalistiche italiane (7). La città vecchia, un tempo inespugnabile centro del proletariato barese, è stata nel tempo trasformata dai processi di gentrificazione cominciati già negli anni Settanta, quando molte famiglie vennero spinte verso le zone residenziali popolari come quella del quartiere San Paolo. Oggi la città vecchia è famosa soprattutto per le iconiche pastaie di Arco Basso, che impastano e vendono le orecchiette davanti alla porta di casa, dispensando saggezza popolare e motti che sono stati riprodotti in centinaia di meme e video virali. La produzione delle orecchiette fatte in casa accade da sempre senza controlli, senza certificati igienico-sanitari e “senza scontrini”. La città vecchia è storicamente il luogo dove tutto il centro urbano si riforniva di orecchiette quando in casa non c’era nessun altro disposto a prepararle. Questa tradizione “abusiva” oggi attira migliaia di turisti da tutto il globo in cerca di spazi autentici, affascinando persino il mondo della moda haute couture, che si è recata in pellegrinaggio dagli abitanti di Bari Vecchia, ritraendoli insieme alle sue modelle per riviste patinate come Vogue e nelle campagne di moda di stilisti come Versace e Dolce & Gabbana (8).
A questo punto forse il lettore si starà domandando cosa può avere a che fare tutto questo con il decoro, perché io mi sia stesa a descrivere le sorti degli abusivi baresi, così difficili da difendere. Ebbene, gli “scontri di San Nicola” del 2016, sono uno degli eventi che spinsero l’allora e tuttora presidente dell’ANCI Antonio Decaro a richiedere al Ministro dell’Interno del governo Renzi, Marco Minniti, di emanare un nuovo decreto sulla Sicurezza Urbana, che dotasse i sindaci di maggiori poteri (9). A quasi dieci anni dall’ultimo pacchetto sicurezza (D.l. n. 92/2008), il Decreto recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città», cosiddetto “Decreto Minniti”, è stato emanato e convertito in Legge nel 2017. Una riforma totale dei poteri dei sindaci in materia di sicurezza urbana, che ha portato al livello del legislatore i concetti di lotta al degrado del territorio e tutela del decoro cittadino, già da anni largamente utilizzati sui media e sulla stampa nazionale, dotandoli di una definizione legislativa dei rispettivi ambiti d’intervento. Questa nuove misure di prevenzione personale di competenza sia del Sindaco che del Questore, limitano per la prima volta la libertà di movimento e di accesso allo spazio pubblico anche in mancanza di reato. Tali forme di controllo dello spazio pubblico sono motivate dallo stesso legislatore come finalizzate a garantire la piena fruibilità di determinati luoghi pubblici caratterizzati da forti flussi di persone e ad agire sulla “percezione” della sicurezza. Si ricorre sempre più spesso a queste misure preventive, utilizzate spesso in maniera discrezionale dai corpi della polizia locale, e che spesso producono risultati ambigui. Rispetto agli interessi delle organizzazioni criminali si rivelano completamente inutili, mentre risultano estremamente violente nei confronti degli individui esclusi dai processi sociali, politici e produttivi delle nostre città (10).
Da quel momento le norme disciplinanti la “sicurezza urbana integrata” si sono moltiplicate. Basti pensare al Decreto Sicurezza e Immigrazione del 2018 emanato da Matteo Salvini (a cui pure Minniti non aveva lasciato molto da aggiungere) e infine a quello che dalla stampa è stato denominato “Daspo Willy (11)”. Ancora una volta, la soluzione del Governo è stata l’inasprimento della pena, nonostante sia evidente che aumentare le pene di qualche mese o di un anno non serva assolutamente a nulla. I ragazzi che si rendono protagonisti di aggressioni brutali, come nel caso che è costato la vita Willy Monteiro Duarte, non agiscono tenendo in conto le possibili conseguenze penali. Sono provvedimenti che accontentano, ancora una volta, l’illusione che l’inasprimento delle pene possa portare un cambiamento; servono a rispondere, senza farlo davvero, all’orrore quotidiano dei tanti ragazzi che incanalano il proprio disagio e la propria insoddisfazione nella sopraffazione e l’esercizio della violenza gratuita, alimentando un enorme vuoto interiore. I governi si rifiutano di intervenire sulle cause che sono alla base di questi fatti criminali, scommettendo sulla repressione e sulla punizione anziché sulla scuola, lo sport e i servizi pubblici, solo per fare alcuni esempi.
I quartieri periferici delle nostre città sono quelli dove abitano la maggioranza dei giovani. La loro identità si lega a doppio filo con quella del proprio quartiere, e crescere in un quartiere privo di servizi e possibilità, porta ad un senso di appartenenza che si intreccia proprio con tali mancanze, fino a identificarsi con esse e con la rabbia di credere di meritarle. Lo stigma diventa identità e orgoglio. Ma come possiamo pensare che vivere di espedienti o di criminalità sia una scelta libera, compiuta consapevolmente, per la quale non ci sono responsabilità politiche ed educative? A questo proposito, penso che la storia di Ugo Russo e di ciò che è accaduto dopo la sua morte sia esemplare. Ugo è stato ucciso a Napoli a 15 anni nella zona di Santa Lucia da un carabiniere in borghese di 23 anni, che reagì a una tentata rapina. Pochi giorni dopo l’omicidio, nei quartieri Spagnoli fu realizzato un murale molto contestato in quanto apologetico del gesto criminale. I familiari e il comitato “Verità e Giustizia per Ugo Russo” si sono difesi spiegando che il murales non è una celebrazione, ma un gesto in ricordo della giovane vita spezzata troppo presto. Tuttavia, il Comune di Napoli aveva emanato un’ordinanza per la cancellazione del murale, perché non era stato autorizzato. Così il caso del murales per Ugo finisce presto nei tribunali. Il Tar ha comunicato la decisione avversa al ricorso, considerando il murales come una «trasformazione fisica dell’immobile» e avvalorando l’interpretazione dell’amministrazione comunale per cui per i palazzi pre-ottocenteschi si può procedere solo con lavori di restauro e ripristino. Un’iniziativa molto insolita per il Comune di Napoli che appellandosi a un simile cavillo mette a rischio gran parte del patrimonio della street art cittadina tra cui, paradossalmente, molte opere patrocinate dallo stesso Comune. L’accusa è che Ugo sia «un rapinatore» e il murale «un altarino alla Mafia» e «simbolo e riferimento dei camorristi. La famiglia poteva far fare quel dipinto in uno spazio privato e non in uno pubblico» (12).
I familiari di Ugo Russo e del Comitato Verità e Giustizia per Ugo Russo invece negano qualsiasi legame con la camorra. Lo scorso giugno il padre di Ugo fa aggiungere al murale la scritta “Contro tutte le mafie”, per dare un segnale contro il pesante clima politico e diffamatorio sviluppatosi intorno al ritratto di Ugo. Quel murale, hanno scritto nella pagina del comitato, «è frutto di un percorso di rivendicazione di verità e giustizia sul caso umano e giudiziario di un ragazzo di 15 anni ucciso con tre colpi di pistola, l’ultimo alla nuca. Questa è una città in cui si finge di fare la lotta alle mafie con la gomma cancellante e si spaccia per legalità e decoro la damnatio memoriae di ragazzi assassinati (13)».
Ad oggi il Comitato ha deciso, insieme alla famiglia di Ugo e agli avvocati, di ricorrere al Consiglio di Stato contro la sentenza del TAR che a fine agosto si è pronunciato confermando la richiesta di cancellazione del murale. Per il Comitato «il murale non prospettava nessuna sfida ma una legittima richiesta di verità e giustizia sull’omicidio di un ragazzo di soli 15 anni e sul futuro dei ragazzi e delle ragazze dei quartieri popolari. La cancellazione del murale di Ugo Russo sarebbe un atto di evidente censura di queste istanze, un modo per zittire le voci dei quartieri popolari, di quei quartieri spesso colpevolmente ignorati, quando non apertamente criminalizzati, dall’opinione pubblica, dalla stampa e dalle istituzioni (14)». Il conflitto sociale si innesca ancora una volta attraverso la semplicistica contrapposizione legalità/criminalità – autorizzato/abusivo – degrado/decoro, portata avanti a colpi di penne e di sentenze di tribunale. Il terreno di tale contrapposizione è proprio lo spazio pubblico, sempre più inaccessibile fuori da logiche burocratiche e di messa a profitto.
La rimozione degli ultimi scampoli dei luoghi popolari, autodeterminati, imperfetti e sporchi, ma comunque più reali della maggior parte delle attività che compiamo durante il giorno, rappresentativi della identità e della storia del proletariato urbano, prosegue lentamente e inesorabilmente come granelli in una clessidra. Questi luoghi permangono a volte proprio dove lo Stato non c’è, dove ha fallito. Questo non significa che ci si possa illudere che questi luoghi resistano intatti allo scorrere del tempo e al passare delle generazioni. Le città inesorabilmente cambiano aspetto e contenuto, corazza materiale di una società che cambia altrettanto velocemente. Ma il cambiamento in atto sta solo ingrigendo le nostre città. Consumata dalla battaglia per il controllo dello spazio pubblico, la città è sempre più claustrofobica per chi non ha i mezzi (economici e culturali) di ritagliarsi uno spazio per se. Lo spazio pubblico finisce per essere né più né meno che spazio di scorrimento, inaccessibile e intoccabile per i più.
Durante la pandemia le strade sono state svuotate e abbiamo avuto paura che nulla fosse più come prima. E nell’estate 2021, quando i tavolini dei bar hanno occupato piazze e marciapiedi, sembrava quasi giusto, per la felicità di vedere la gente divertirsi per strada dopo un così lungo silenzio. Ma se è possibile pagare un privato per consumare occupando uno spazio pubblico, perché se quello stesso spazio è occupato dalla popolazione, con le sue istanze, i suoi bisogni e le sue dannazioni, allora si ricorre subito a misure repressive? Allora meglio sperare che nulla sia come prima, che lo spazio pubblico venga liberato per essere utilizzato, gratuitamente, per farlo vivere alla gente. Città dove si possa attaccare un manifesto, disegnare un murales, giocare, stare insieme. Perché le mafie sono molte e la malavita, quella che ci strozza, è quella che ci afferra quando non abbiamo nessuno che tuteli i diritti di tutti. Perché finché non saranno per tutti, allora saranno solo privilegi.
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https://www.youtube.com/watch?v=eqyhqyQNRZY a questo proposito è interessante anche ascoltare questa intervista dei “ferrivecchi” cioè i rigattieri che raccolgono il ferro arrugginito girando per la città in Apecar: https://www.youtube.com/watch?v=Fwt5dGe2nfU
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https://bari.repubblica.it/cronaca/2016/05/09/news/abusivi-139418821
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https://www.nytimes.com/2019/12/07/world/europe/italy-bari-pasta-orecchiette.htm
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A questo proposito si potrebbero fare numerosi esempi, citiamo ad esempio l’operazione folkloristica di Dolce&Gabbana, che ha coinvolto anche altri centri storici, come quello napoletano https://www.puglia.com/video-spot-dolce-gabbana-bari-vecchia e anche https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/bari/1149361/dopo-d-g-anche-versace-sceglie-bari-vecchia-le-modelle-tra-le-orecchiette.html
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A questo proposito, rimando ad altri mei scritti sul tema: http://www.iconocrazia.it/europa-di-quarzo-limmagine-di-europa-fra-decoro-e-security-state
https://www.dinamopress.it/news/un-anno-daspo-urbano
https://www.dinamopress.it/news/in-nome-del-decoro
https://www.globalproject.info/it/produzioni/decoro-biopotere-e-nuove-forme-di-governamentalita/21372 -
Un decreto “a caldo”, intitolato alla memoria di Willy Duarte, il ragazzo barbaramente ucciso a Colleferro nell’autunno 2020 dai suoi coetanei, pestato a morte perché intervenuto per sedare una rissa. Il decreto ha previsto pene più severe per chi partecipa ad una rissa davanti a un locale: da tre mesi fino a 5 anni, a sei mesi fino a sei anni
Carmen Pisanello
Carmen Pisanello è scrittrice e ricercatrice indipendente, lavora nell’ambito del terzo settore, della progettazione sociale e della mediazione interculturale. Si occupa di esclusione sociale, sociologia del controllo, intersezionalità e giustizia sociale. Autrice, fra l’altro, del volume In nome del decoro, dispositivi estetici e politiche securitarie (OmbreCorte 2017). La sua ultima pubblicazione è Scrivere sui muri, un libro illustrato per bambini di tutte le età (MomoEdizioni 2021).