Roma. La battaglia delle fioriere

di Sarah Gainsforth

Roma, la “Citta del Sole” – da www.picweb.it

A cavallo tra un centro storico turistificato e una delle aree periferiche più frammentate di Roma, quella che si dipana lungo l’asse della via Tiburtina – moderno tempio del gioco d’azzardo –, la nuova stazione Tiburtina a Roma è un luogo vuoto, di passaggio, un luogo dei flussi. È infatti un luogo la cui architettura, esito di un concorso internazionale di progettazione bandito nel 2001 da Rete Ferroviaria Italia per realizzare il principale scalo per l’alta velocità della Capitale, non ha nulla da dire. Tiburtina sarebbe dovuta diventare la principale stazione ferroviaria della città, soppiantando la più antica stazione Termini. Con un “boulevard” sospeso a nove metri dal suolo, una “galleria-ponte” votata al consumo, la stazione avrebbe dovuto “ricucire” e “connettere” due quadranti della città che sembrano attaccati per caso. È rimasta perlopiù vuota, una scatola di vetro sospesa nel nulla, circondata da capolinea di autobus. Uno di quei luoghi soleggiati e faticosi dove prendere di corsa una coincidenza, comprare un giornale e una bottiglia d’acqua per un euro di troppo, è il luogo dello spaesamento. Sul lato nord della stazione, Parnasi, poi indagato per la vicenda dello Stadio della Roma, ha costruito un complesso immobiliare grigio chiaro. Si chiama La città del sole, avendo appropriato il nome (Casa del Sole) del complesso di case economiche alle sue spalle, che impalla e oscura, progettato nel 1929 da Innocenzo Sabbatini, la cui pianta progressivamente digrada a ogni piano, una costruzione a terrazzamenti poco pretenziosa e altamente funzionale. Le torri dritte di Parnasi sono invece rivestite di pannelli che sembrano griglie, o gabbie, grigi e irregolari, che schermano gli interni dal sole e dalla vista della terra, per meglio vendere aspirazioni di separatezza. L’attacco a terra degli edifici – dove ringhiere e nastro arancione sorprendono il pedone che si avvicina alla ricerca del punto esatto dove è stata spostata la fermata dell’autobus – semplicemente non c’è. Sul fronte stradale le torri sono staccate da terra, sospese, per metri, su piloni circolari sotto cui si apre qualche spazio direzionale e commerciale. Tutto – il sopra, il sotto, il dentro e il fuori – appare vuoto. Di fronte la stazione dei pullman, dove sappiamo che ogni mese, trovato in possesso di importanti quantitativi di hashish, verrà arrestato un ragazzo nigeriano. I comunicati dei carabinieri lo descrivono come l’ennesimo. Ma andiamo avanti, sull’altro lato della stazione, verso la nuova sede della banca che più di altre ha puntato sull’immobiliare, la BNL. Sarebbe, si dice, a forma di vela. L’edificio di vetro, lucido e sottile, termina infatti a punta nell’aria, ma più che una vela sembra la pinna di uno squalo o una grossa lama di acciaio. Lo squalo o la lama sovrasta la stazione e, se questa avrebbe dovuto “connettere” i quartieri ai suoi lati, la banca taglia lo spazio e occulta la vista dei palazzoni densamente abitati della Tiburtina che prosegue verso la periferia diventando impossibile da ricordare senza l’aiuto di una mappa. Non c’è alcun senso, connessione, continuità o logica tra un edificio e quello successivo, tra le case, le fabbriche dismesse, le sale slot, i casinò, i bar tristi e i parcheggi pieni, la fermata della metro, i lavori eterni, i marciapiedi che svaniscono, i tralicci dell’alta tensione, le fermate dell’autobus e i tubi di plastica che sbucano da terra, i pezzi di terra recintati, i cartelli piantati a caso, gli edifici appiccicati alle curve della strada, le fabbriche ridotte a scheletri di amianto e a rifugio per disperati, sgomberate, murate, e abbandonate di nuovo, riabitate, arse dal fuoco, e poi dimenticate di nuovo. La via Tiburtina era, un tempo, il polo industriale-produttivo di Roma. La ridefinizione globale del lavoro ha poi svuotato un paesaggio che oggi è fatto di relitti, dove «la città esce da sé: si stacca dalla base fisica che l’aveva determinata per scomporsi in una miriade di spazi e di eventi che esplodono e sbalzano al di fuori dei suoi limiti consolidati», scrive Lidia Decandia, citata da Elena Maranghi in Fuori Raccordo. Ancora, spaesamento.
L’area della Tiburtina, e in particolare di Pietralata, sarebbe il cuore del progetto presentato per la candidatura di Roma a sede dell’Expo 2030. Progetto che avrebbe al centro i temi della casa e della sostenibilità ambientale.


Espulsioni

Ma torniamo indietro, accanto alla stazione, all’ombra della banca. In un grande lotto vuoto e brullo in Piazzale Spadolini, in attesa di un compratore, si era insediato il campo informale di Baobab Experience che da solo accoglieva il flusso di migranti transitanti per Roma, con un posto dove dormire e un piatto di pasta all’aperto ma anche molto altro – visite mediche, assistenza legale, e umanità. Quarantuno sgomberi dopo, quello spazio è pronto per essere edificato. Il Baobab ha proseguito le attività di accoglienza, in una città dove l’accoglienza è stata criminalizzata e paralizzata dopo Mafia Capitale, sul marciapiede. L’info-point e il punto informale di accoglienza di Baobab hanno trovato un nuovo spazio, sempre in strada, nei pressi di Piazzale Valerio Massimo. Una ordinanza del Municipio II autorizza, fino al 31 ottobre, la distribuzione di cibo e vestiti, e l’assistenza legale e sanitaria. «Il quarantunesimo sgombero è stato solo il quarantunesimo tentativo di frazionare il dramma capitolino della non accoglienza, così da renderlo meno smaccato: il banale trucchetto di disperdere i senza fissa dimora in modo tale da renderli meno visibili e sfumare nell’anonimato urbano i torti di un’amministrazione pavida, negligente, indifferente». Anche il quarantunesimo tentativo è fallito e Baobab, nella totale assenza del Comune, resiste.

Forse però sarebbe meglio parlare non di assenza ma di persecuzione. L’ultimo sgombero di Baobab il 14 luglio è infatti stato promosso da Federica Angeli, giornalista di Repubblica che con i suoi reportage allarmistici ha fatto indignare interi quartieri di Roma, nominata dalla sindaca Raggi «delegata alle periferie». Lo sgombero, voluto da Angeli e messo in atto da Comune, Questura, Prefettura, Municipio, Grandi Stazioni, Rete Ferroviaria italiana e BNL, è stato accompagnato prima da dichiarazioni di totale disinteresse sulla sorte delle persone senza tetto allontanate, poi dal solito e ben noto refrain «le persone allontanate hanno rifiutato i posti nei centri di accoglienza offerti», grande classico della mitologia del senza tetto volontario su cui molto ci sarebbe da dire, e infine da un vero a proprio attacco, via social, a Baobab. Lo sgombero è stato presentato come un’operazione di «riqualificazione». Sono stati buttati i documenti di migranti e rifugiati, tavoli per la distribuzione dei pasti, gli effetti personali dei senza fissa dimora. «Tutto – buttato via» scriveva il Baobab. Angeli, che ha sempre rifiutato di incontrare i volontari di Baobab, ha annunciato che erano stati previsti «una serie di interventi per prevenire il riemergere di fenomeni di bivacco soprattutto nella prospettiva dei prossimi mesi invernali». A gennaio l’anno scorso erano già nove le persone morte di freddo sui marciapiedi a Roma. Ma a Tiburtina sono arrivate le fioriere anti-bivacco.

La mattina del 14 luglio sono comparse delle strutture in legno posate a terra proprio dove di solito dormono i senza dimora che non hanno altro posto dove andare. A dire il vero, a guardare la prima foto diffusa sui social dal Baobab, non sembravano per niente fioriere. Erano solo assi di legno incollate a formare quadrati, scatole vuote, senza fondo e senza coperchio. Sembravano delle basi eleganti e minimali per letti e materassi – giuro che l’ho pensato. Subito dopo, però, ho colto qualcosa di più sinistro, e ho pensato che sembravano bare. E questo, in fondo, sono.

Sono bare per quanti ogni anno vanno a nascondersi nelle fabbriche abbandonate della Tiburtina per riemergere e magari fare normalissimi lavori in città durante il giorno. Una di queste fabbriche è la ex Penicillina, oggi un immenso scheletro dove la via Tiburtina taglia la periferia senza senso. Affaccia sulla strada e si va estendendo dove l’occhio non arriva. Da polo produttivo, lo scheletro della ex Penicillina è diventato un ghetto. Nei capannoni e nelle ex fabbriche dismesse nell’area della Tiburtina, nell’estrema periferia di Roma in zona Tor Cervara, abitano i senza acqua, luce a gas, tra rifiuti tossici, topi e spazzatura, centinaia di migranti esclusi dal sistema di accoglienza e privi di soluzioni abitative alternative. Negli ultimi dieci anni a Roma le condizioni di migranti, rifugiati e richiedenti asilo è deliberatamente peggiorata. L’inefficienza del sistema di accoglienza, l’indifferenza delle istituzioni, l’assenza di soluzioni abitative e una strategia deliberata affinché migranti e richiedenti asilo restino nell’illegalità, stanno creando i nuovi ghetti di Roma. Tra uno sgombero e l’altro, i migranti si spostano da un rudere all’altro. Quando diventano visibili, i comitati per il decoro urbano si lamentano.

Nel 2018 e negli anni precedenti la ex fabbrica era abitata da circa centinaia di migranti. Altri vi si aggiunsero, dopo gli sgomberi di due edifici poco distanti, in via Vannina. Poi fu la volta di via Costi. E alla ex Penicillina c’erano seicento persone. Poi, all’alba del 10 dicembre 2018 un ingente spiegamento di forze ha sgomberato il rudere che di fatto era già vuoto, perché i migranti se ne erano andati. Il sito della ex Penicillina va bonificato. I soldi non si trovano, ci sono infinte questioni burocratiche, nessuno la vuole, nessuno sa che farne. Se non, di tanto in tanto, un palcoscenico per un po’ di propaganda con uno sgombero che costa chissà quanto ai contribuiteti, e poi di nuovo il nulla. Nel 2018 l’edificio fu scenograficamente, e inutilmente, murato. A distanza di tre anni dallo sgombero, un incendio è scoppiato al suo interno. «Ieri sera e stamattina siamo stati all’ex Fabbrica della Penicillina, dopo il grave incendio accaduto. Ad abitare quel luogo infernale sono, in molti casi, le stesse persone sgomberate dalla fabbrica nel dicembre 2018. Già questo basterebbe per evidenziare come le decine di sgomberi che hanno riguardato, negli ultimi anni, gli accampamenti informali di Tor Cervara abbiano avuto come unica conseguenza quella di creare un esercito di invisibili, privati dei loro diritti fondamentali e costretti a vivere in condizioni disumane» ha scritto Federica Borlizzi.


La città inventata del capitale

Tutto questo, dai recinti residenziali alti e verdi, non si vede. In una periferia frammentata l’oggetto casa invita all’introversione, si stacca dal contesto, diventa un nodo tra tanti – casa, lavoro, tempo libero – collegati tra loro dalla strada, da percorrere in automobile, o dalla ferrovia, con i treni che ad alta velocità tagliano territori senza vederli. Intorno alla stazione i lavori di “riqualificazione” dell’area vanno avanti da mesi. Si vendono lotti di terreno edificabili, si producono rendering fantasiosi in cui il contesto magicamente scompare dietro una quinta di fronde verdi che ondeggiano tra raggi di sole, fornendo ombra a figure umane che passeggiano spensierate. Si prevede la costruzione dell’ennesimo albergo. Si leggono descrizioni idilliache: la Città del Sole sarebbe un «capolavoro estetico perfettamente integrato e in armonia con il contesto». Perché gli edifici pubblici in stato di abbandono, i marciapiedi stretti e rotti, le stazioni dei pullman, i rumori dei motori, gli odori dei gas di scarico e dei cassonetti pieni da lì non si vedono e non si sentono. La Città del Sole, oltretutto, promette di essere non solo un capolavoro estetico e sostenibile, ma anche «un’opera di riqualificazione urbana». Ma viene da chiedersi: come fa l’architettura a rigenerare e riqualificare il contesto se lo ignora completamente? È la relazione con il contesto – o dovrebbe esserlo – che rende un progetto immobiliare “sostenibile”, che lo qualifica e lo valorizza. Ma spesso le parole come “riqualificazione” servono a mascherare altri obiettivi.
Dal punto di vista economico, invece, obiettivi e interessi sono decisamente più chiari. È il gioco dei valori immobiliari, della speculazione edilizia, del profitto privato. Un gioco in cui, più che il contesto reale, conta la sua narrazione. Il marketing in grado di vendere una visione diversa delle cose, il racconto di una storia dove l’identità di un luogo è espunta completamente dal suo contesto.
Roma, una città che vive di un’economia moribonda, che strenuamente sceglie di non reinventarsi e si incatena prepotentemente ai meccanismi della rendita, diventa così la «vittima di una narrazione deteriore che ha ben poco a che fare con la realtà». Queste parole sono prese dalla dichiarazione rilasciata al quotidiano Il Messaggero da un manager del settore immobiliare. L’articolo in questione presentava lo studio annuale di Scenari Immobiliari, secondo cui «la Capitale è pronta per diventare centro di grandi interessi». Uno scenario allettante, se non fosse che la stessa Scenari Immobiliari, in realtà, più che un centro studi è un centro di marketing per il settore immobiliare.
Le cose stanno diversamente. A Roma i valori immobiliari sono calati in media del venti per cento negli ultimi dieci anni. Di questi dati non c’è traccia nei rapporti di Scenari Immobiliari, semplicemente perché i valori riportati sono “nominali”, sono proiezioni, narrazioni che vorrebbero incantare gli investitori per convincerli a venire a spendere i propri soldi nel mattone romano. Roma, assicura Caltagirone, «è una metropoli sicura, il diritto di proprietà viene totalmente rispettato, i prezzi degli immobili rappresentano un’ottima occasione per gli investitori speculativi sia per quelli più prudenti. Comunicarlo a chi immette liquidità significa mostrare la vera anima della città». Bisogna puntare sul “marketing internazionale”. L’importante, ribadisce Caltagirone, «è che Roma sia promossa e raccontata per quello che è, non per la visione imposta da altri». L’importante, insomma, non è rilanciare l’economia oltre la rendita, oltre il turismo, investire in servizi, spendere i milioni di euro di fondi disponibili per rendere Roma non attrattiva, ma semplicemente vivibile per chi già ci abita. L’importante sarebbe raccontare Roma come se fosse una città dove tutto funziona, dove non ci sono senza tetto sui marciapiedi, dove non c’è criminalità, dove c’è un’idea di futuro.

È davvero plausibile sostenere, come fanno organi di stampa in larga parte di proprietà di chi ha interesse in campo immobiliare, che simili operazioni immobiliari saranno in grado di innescare una vera rigenerazione urbana? «Che l’architettura possa riscattare la società è cosa da dimostrare: soprattutto quando è solo disegno di forme e non contemporanea ricerca dei valori di cui le forme possono essere espressione. Se percorriamo gli anni passati da Roma come capitale del Regno d’Italia vediamo in tante occasioni case e quartieri sorti nella presunzione e nell’illusione di essere e poter rimanere oggetti singoli, distinti e caratteristici: tali furono invece solo nelle fotografie che accompagnarono l’inaugurazione, poi la loro espressione fu condizionata e trasformata dal formarsi della città intorno, cioè dal diventare essi stessi ‘città’ da volumi e architetture come erano stati pensati». Questa è la riflessione di Italo Insolera, da cui scaturisce una convinzione inversa: è il contesto che qualifica l’architettura, non viceversa. Non sono le fioriere a fare una città. Non sono le immagini, le narrazioni in cui l’abitare è un’esperienza frictionless, priva di frizioni, facile, comoda, gioiosa. Priva di ostacoli, barriere, limiti, dove si può comodamente galleggiare da una parte all’altra dello spazio urbano senza sforzo, costantemente avvolti da una luce dorata. Questa è l’essenza del sogno, pieno di fascino, della città gentrificata. Che, come effetto collaterale, produce l’espulsione dei più poveri. Ma noi non abbiamo neanche quella. Da noi ci si limita a espellere i poveri e ad aprire qualche locale dove vendere bicchieri di vino a dieci euro al calice. Fuori, la città è difficile, impossibile, faticosa, ostile e punitiva. E a quanto pare la colpa sarebbe dei poveri. Tra le case, le torri residenziali e le stazioni, gli alberghi e le sale slot, i ruderi abbandonati e i centri commerciali deserti, lì in mezzo dove non si può più stare, le fioriere servono semplicemente a marcare i confini e i limiti fisici tra chi è dentro e chi è fuori.

 

Sarah Gainsforth

Ricercatrice indipendente e giornalista freelance. Scrive di trasformazioni urbane, abitare, diseguaglianze sociali, gentrificazione e turismo. Ha scritto per Internazionale, La Repubblica, L’Espresso, Il Manifesto, Valigia Blu, FanPage, Roma Today, Dinamo Press e Jacobin Italia.  È autrice di Airbnb città merce, Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (Derive Approdi, 2019), finalista Premio Napoli 2020, e Oltre il turismo, Esiste un turismo sostenibile? (Eris Edizioni, 2020). Vive e lavora a Roma.