Il calcio può essere inclusivo?

di Marco D'Ottavi

foto tratta dal Civico Archivio Fotografico di Milano, fondo Cesare Colombo, "Fotografie in Comune", Milano 1955 - 1957
foto tratta dal Civico Archivio Fotografico di Milano, fondo Cesare Colombo, “Fotografie in Comune”, Milano 1955 – 1957 – http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/dettagliofotografia/SUP-3a030-62006

A vent’anni, per diversi anni, ho fatto parte di una squadra di calcio. Era una di quelle squadre di livello infimo, al più basso grado che lo sport riesce a concepire. Giocavamo spesso la domenica mattina e ogni volta mi ritrovavo a maledire la sveglia, il freddo, i postumi della notte precedente. Ricordo ancora alcune di quelle mattine: gli occhi gonfi, lo stomaco sottosopra a macinare chilometri in giro per la città alla ricerca di campi sempre più distanti, in quartieri dai nomi sconosciuti, campi nascosti dalla nebbia, aperti alle intemperie. I miei compagni, poi, erano le persone più distanti da me che riuscivo a immaginare: c’era un barista che parlava solo delle sue scopate, un macellaio particolarmente fumantino con cui una volta sono quasi arrivato alle mani, l’allenatore vendeva ricambi per auto e nel tempo libero faceva torte che poi fotografava e metteva su Facebook. C’erano anche padri in crisi, liberi professionisti noiosi, addirittura uno che per vivere si occupava della barca di qualche milionario. A scriverlo ora mi accorgo quanto suoni incredibilmente snob, ma insomma: io ero uno di quegli studenti di lettere idealisti e dal lunedì al sabato bazzicavo i corridoi dell’università, poi la domenica me ne correvo su campi di pozzolana durissimi, a rischiare di farmi male (successo), di litigare (successo, quasi in ogni partita), di finire in panchina, di rovinarmi la giornata per una sconfitta o un gol sbagliato. E come se non bastasse pagavo per farlo e lo facevo con persone diversissime da me, con cui fuori di lì non avrei avuto nulla in comune. Eppure poi con loro andavo a pranzo dopo le partite o a cena finiti gli allenamenti, parte integrante di un gruppo sballato che ancora oggi resiste in una chat.

Se racconto queste cose non è per megalomania, ma per mettere in luce un aspetto del calcio che spesso viene ignorato o dato per scontato nel discorso pubblico. Ovvero che, prima di essere intrattenimento, il calcio è un’esperienza identitaria a cui le persone prendono parte perché vogliono riconoscersi in qualcosa. Per chi pratica o ama lo sport è una sensazione familiare: il gioco è una forma di comunità, con un suo linguaggio e dei codici che livellano le differenze sociali, culturali ed economiche. In questo senso diventa anche un perfetto strumento per aggirare le barriere comunicative, smussare i pregiudizi, avvicinare voci inconciliabili.

Qualche settimana fa nella Roma ha esordito il diciannovenne Ebrima Darboe. Darboe è un migrante: è partito a 14 anni dal Gambia su un autobus, è passato per la Libia, sbarcato a Lampedusa e infine mandato in uno SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dove gli è stata data la possibilità di allenarsi con una scuola calcio. Lì è stato notato dalla Roma che ha deciso di puntare su di lui, trovandosi per le mani un giovane calciatore molto forte. In Italia chi arriva coi barconi, chi non ha famiglia, amici, possibilità, insomma chi non è già incluso, è per definizione escluso. Il calcio però ha il potere di ribaltare questo assunto, perché per sua natura non può avere sovrastrutture complesse. Su un campo da calcio Darboe smette di essere quello dei “35 euro”, uno che ci vuole rubare il lavoro, per diventare più semplicemente “uno scarso” o “uno forte”, giudicato per le sue capacità e non per la sua storia (non che nel calcio non ci sia il razzismo, anzi, ma “dentro al campo” le dinamiche dominanti sono altre). Il suo non è il primo caso di migrante che si riscatta attraverso il calcio, e anzi c’è il rischio di creare una scissione tra queste due narrazioni: da una parte la favola di calciatori come Darboe, dall’altra tutti gli altri, quelli che non hanno un talento così grande da farli emergere in contesti così particolari come il calcio professionistico e che quindi possono essere ignorati. Questa visione sciatta dimentica però che stiamo parlando delle stesse persone e che il calcio può funzionare come un mezzo per facilitare un dialogo che spesso sembra impossibile. La storia di Darboe sarà un esempio positivo in un contesto mediatico che ne è povero e, speriamo, potrà offrire una vetrina a tutte quelle realtà che portano avanti battaglie per i diritti attraverso il calcio.

Una delle più significative – non l’unica – è quella di Liberi Nantes, un’associazione sportiva dilettantistica attiva a Roma dal 2007 con lo scopo di dare un sostegno sia pratico che psicologico a rifugiati e richiedenti asilo politico attraverso il calcio. Fare parte di una squadra rappresenta per loro uno strumento unico di evasione, un modo per ricostruire dei rapporti personali e anche nell’aprirsi al prossimo. Come fosse una lingua comune tra persone di mondi diversi, il calcio aiuta i volontari a creare una rete di sostegno per i migranti, accoglierli in una comunità e farli sentire accolti e non respinti. Uno degli aspetti più assurdi di questa esperienza, e che ci fa capire come nel calcio la spinta tra inclusione ed esclusione sia sempre presente, è che per 12 anni, fino al 2019, la Liberi Nantes ha partecipato al campionato di terza categoria (che è l’ultimo livello della piramide calcistica italiana) senza poter fare classifica, perché i suoi calciatori, ragazzi in fuga da guerre, fame e povertà, non avevano la possibilità di presentare i documenti anagrafici richiesti per il tesseramento.

Se il calcio è inclusivo in maniera naturale attraverso il gioco, può esserlo in maniera diversa, ma non meno stimolante, anche attraverso il tifo e la partecipazione, due aspetti spesso stigmatizzati perché raccontati solo in maniera violenta, ma che invece rappresentano una risorsa unica per questo sport. Negli ultimi anni si è parlato molto di calcio popolare per descrivere l’esplosione di squadre nate dal basso, dall’impegno cioè dei tifosi. Il termine mi sembra voglia creare una contrapposizione tra poveri e ricchi, ma questa divisione vale a tutti i livelli (anche in Serie A potremmo fare delle distinzioni nette a livello economico). Queste squadre invece non nascono intorno a intenti pauperistici, ma con l’idea che anche nella sua creazione una squadra di calcio può avere un’organizzazione inclusiva e non piramidale. Ci sono sì i ruoli, ma c’è anche azionariato popolare, divisione delle spese, assemblee per prendere decisioni, partecipazione.

Proprio per la loro natura collettiva, queste squadre nascono spesso intorno a degli attori politici già esistenti, come associazioni e centri sociali. Il calcio diventa quindi un mezzo per fare politica, proprio per la sua capacità di avere un linguaggio facile e immediato con cui raggiungere più persone. Non che sia una novità: avere una squadra in Italia è un modo per fare politica da sempre, ma se Berlusconi comprò il Milan per la sua rivoluzione liberale, il calcio popolare è diventato invece un modo per riunire le persone e farle collaborare a una causa comune. Che si tratti di piccoli paesi di provincia o affollati quartieri della periferia, una squadra di calcio può nascere e crescere intorno all’idea che una comunità possa fare politica tifando, sognando vittorie, promozioni, emozionandosi per dei calciatori, rendendo il calcio anche un’esperienza comunitaria.

Ed è questo l’aspetto che ignorava il progetto della Superlega: il fatto che, prima di essere intrattenimento, il calcio è una forma di cultura, e le persone non lo seguono (o praticano) solo perché è più divertente che guardare una serie tv – anche perché spesso non lo è – ma perché gli attribuiscono un significato più profondo. I dodici club della Superlega, interessati a creare uno spazio privato in cui rinchiudere il calcio, pensavano invece che, al contrario, questo aspetto fosse ormai perso.
È da più di trent’anni che si discute dell’idea di creare una lega parzialmente o totalmente chiusa tra i migliori club in Europa, ma non è un caso se l’effettivo tentativo di realizzarla sia arrivato oggi, nel 2021, dopo una crisi economica e sociale che va avanti da dieci anni e che la pandemia ha acuito in maniera drammatica. In un momento in cui è sempre più difficile creare dei contesti di inclusività, Andrea Agnelli e gli altri presidenti dei club più ricchi hanno pensato che l’esclusività della loro Superlega fosse uno sviluppo inevitabile, legato all’evoluzione della società, dei suoi consumi culturali e di cambiamenti economici che la pandemia ha accelerato. Dopotutto questi club sono da molti anni in conflitto con l’idea del calcio come comunità. Sono contro il tifo organizzato, contro l’accessibilità del loro sport a chi non ha abbastanza soldi, contro l’idea non tanto che il calcio è del popolo, come si è detto spesso in quei giorni, ma che il calcio non è solo una forma di profitto.

Anche il fatto di volersi rendere più appetibili ai mercati stranieri – uno dei principi della Superlega era di allargare il bacino di utenti pescando da Asia, Medio Oriente e Stati Uniti – non va letto come un tentativo di includere più tifosi; piuttosto è il modo in cui le aziende sfruttano a loro vantaggio la globalizzazione, che è agli antipodi di un’idea di calcio più aperto. Avere un club cinese in una Superlega europea avrebbe reso il calcio più inclusivo? No, al contrario. Paradossalmente, in questi paesi dove il calcio è meno radicato come fenomeno culturale, esistono tantissime piccole comunità che si costituiscono e sostengono attraverso il tifo per le squadre europee. Nel primo episodio della serie di documentari This is football viene raccontata la storia di un gruppo di tifosi del Liverpool in Ruanda, un paese devastato, negli anni Novanta, da un terribile genocidio. Pur lontani migliaia di chilometri e vivendo spesso in condizioni precarie, questi tifosi si riuniscono per vedere le partite, comprano le maglie, sostengono la squadra come se fossero nati e cresciuti davanti ad Anfield. «Molti di noi non hanno genitori, fratelli o sorelle. Quindi per me la maglia del Liverpool significa avere una famiglia. Ecco perché amo il Liverpool», è stata questa la spiegazione data da uno di questi tifosi per provare a spiegare una passione che sembra quasi follia. Se volete approfondire, potete cercare i video dei tifosi in Asia che riproducono i cori e le coreografie delle tifoserie europee in maniera quanto più fedele possibile, uno spettacolo insolito e curioso. Più che alle squadre, queste comunità si sentono vicine ad altri tifosi. Quello che vogliono è condividere con degli sconosciuti uno stesso linguaggio, spesso incomprensibile a chiunque non frequenti le curve e non viva il tifo come una liturgia. Una dimostrazione abbastanza accurata di come il calcio abbia un valore più identitario che non di passatempo molto popolare e, quindi, remunerativo per chi lo comanda.

Nei giorni delle proteste contro la Superlega, tra quelli che hanno portato i club a fare marcia indietro in maniera un po’ patetica in meno di 48 ore, i più attivi sono stati i tifosi inglesi, dove banalmente il concetto di tifo come esperienza comunitaria è molto più radicato, anche ad alti livelli, rispetto a Italia e Spagna. E nessuna squadra tedesca si è detta neanche disponibile a partecipare alla Superlega, in un paese dove per regolamento i tifosi detengono il 50% più uno delle società e hanno voce in capitolo quando si tratta di prendere delle decisioni. In quei giorni i sostenitori del Chelsea sono scesi in strada con un cartello con su scritto «We want our cold nights in Stoke», che mi sembra abbastanza indicativo di cosa pensi davvero la comunità più coinvolta di come deve essere organizzato il calcio. I tifosi, protestando contro la stessa dirigenza che negli ultimi anni ha speso miliardi e ha portato il Chelsea in cima alla piramide del calcio, avevano usato questa frase (usata da un commentatore alcuni anni prima) per ricordare che il calcio non è guardare Messi e Ronaldo che si affrontano dieci volte l’anno dentro uno stadio che sembra finto mentre sediamo comodamente davanti al televisore dopo aver pagato l’abbonamento. Il calcio è una somma di momenti e di esperienze molto diverse tra loro, dove lo Stoke, piccola squadra del nord ovest dell’Inghilterra, e Messi possono convivere nella stessa dimensione. Ed è questo che lo rende significativo e davvero affascinante per molte persone.

È difficile spiegare in maniera lineare lo scarto tra la proposta della Superlega e un’idea di calcio inclusiva e comunitaria, in una realtà come quella del calcio professionistico dove le disuguaglianze sono enormi e vengono considerate come ineluttabili; c’è, tuttavia, un esempio perfetto che fa capire di quanto quella proposta da questi dodici club fosse un’idea totalmente anti-inclusiva. Da qualche anno il calcio femminile è in grande crescita e anche in Italia sta trovando un suo spazio, grazie a un enorme lavoro portato avanti dal movimento e da alcune calciatrici (e nonostante questo, solo poche settimane fa qualcuno si è sentito in diritto di cacciare una donna perché «le donne non giocano a calcio»). La Superlega, però, semplicemente aveva scelto di ignorare il loro futuro, cancellando con un colpo di spugna una realtà che si sta consolidando. Nei comunicati di quei giorni si vagheggiava un percorso uguale per le squadre femminili dei dodici club, ma quello che sembrava più che altro un “buon proposito” buttato là, non considerava comunque che i rapporti di forza tra squadre nel calcio femminile sono molto diversi. Se l’idea della Superlega maschile era quella di creare una iper-competitività tra le squadre più ricche e forti, nel femminile sarebbe accaduto l’esatto contrario. Avrebbero messo nello stesso torneo l’Inter, arrivata settima in Serie A (il cui livello non è ancora molto alto) e il Liverpool, addirittura nella seconda divisione, con il Barcellona femminile, che in questa stagione ha dominato a livello europeo vincendo la Champions League, creando così una lega sbilanciata. Al contrario squadre molto forti come il Paris-Saint Germain e il Lione, la formazione più importante e vincente del calcio femminile, sarebbero rimaste escluse. Questa scorciatoia, ovvero costringere le squadre femminili allo stesso destino di quelle maschili, avrebbe distrutto un intero movimento solo perché non rientrava nell’unica categoria che la Superlega stava cercando di proteggere (cioè sé stessa). La cosa, in fondo, suona in modo non diverso dal vecchio discorso dei maschi bianchi e benestanti, che strillano e fanno casino per difendere i loro diritti secolari.

Non vorrei tuttavia che passasse il messaggio che la Superlega sia il primo e unico momento in cui c’è stata una spinta dall’alto per rendere il calcio qualcosa di esclusivo. In L’elogio della finta, Olivier Guez racconta come nel Brasile dei primi del Novecento i calciatori neri, schiavi, non potevano letteralmente toccare i calciatori bianchi, appartenenti alle élite del paese. Per riuscire a stare in campo allora, questi avevano trovato il modo per far spostare gli avversari da una parte mentre loro andavano dall’altra: il dribbling. Da una condizione di estrema inferiorità, i neri brasiliani hanno inventato quello che ancora oggi è uno dei gesti più belli e divertenti da vedere su un campo da calcio.

In generale l’evoluzione di questo sport, ma anche di molte altre cose mi viene da dire, viene dal confronto tra l’alto e il basso, tra una spinta conservatrice e una innovatrice. Il fallimento della Superlega ci dice qualcosa di interessante su come il calcio potrebbe evolversi in maniera più inclusiva. Evitare di chiudersi nella propria torre d’avorio mentre tutto intorno crescono le macerie, ma al contrario permettere che esperienze diverse possano arricchire e diversificare l’esperienza. È vero per il calcio, ma viene facile pensare che possa essere una soluzione utile anche per altro, non trovate?

 

Marco D'Ottavi

Marco D’Ottavi è nella redazione della rivista online L’Ultimo Uomo. È nato a Roma, ha studiato a Roma, e sempre da Roma ha fondato il progetto Bookskywalker, diretto Crampi Sportivi e collaborato con diverse riviste.