O tutti o nessuno. Punti di vista sul disastro del lavoro nella pandemia

di Emanuele De Luca

Delivery driver, Hanoi, Vietnam - foto Pete Walls da 'Unsplash'
Delivery driver, Hanoi, Vietnam – foto Pete Walls da ‘Unsplash’

POV: sei il divano di un percettore di Reddito di Cittadinanza. Sebbene ti dipingano come affaticato nel sorreggere 80 chili di ozioso parassita dei sussidi, in realtà i tuoi cuscini se la cavano benissimo. Non c’è pericolo di fare la bella vita con 780 euro al mese, tanto meno di passare tutto il giorno seduto su di te. Certo, ti senti lusingato ad essere il protagonista di una buona fetta del dibattito pubblico italiano ma sei anche rassegnato a finire i tuoi giorni in tranquillità e fuori dai riflettori, come hai sempre fatto, al settimo piano di un appartamento nel tuo tranquillo quartiere popolare.

Una delle poche certezze condivise in questo anno e mezzo di pandemia è stata l’immediata consapevolezza che molti sarebbero “rimasti indietro”, checché ne dicessero i numerosi slogan salmodiati in televisione da esponenti politici e giornalisti. Non serviva essere delle moderne cassandre per prevedere un esito alquanto scontato: in assenza di un welfare propriamente universale, che garantisse a tutte e tutti la possibilità di sopravvivere nella crisi pandemica, avremmo avuto sommersi e salvati, si sarebbe inevitabilmente allargata la forbice delle disuguaglianze.

C’è da dire che in quel contesto sono state prese diverse misure emergenziali, si è provato a mettere la famosa “toppa” su una situazione che altrimenti rischiava di sfuggire di mano. C’è però un problema di fondo: non era un’emergenza quella che il Paese si preparava ad affrontare rispetto al lavoro e agli ammortizzatori sociali, si trattava per lo più dell’inadeguatezza generale di un sistema già insufficiente e manchevole. La pandemia non ha fatto altro che mostrare con disarmante semplicità le lacune e le crepe insite nell’organizzazione del lavoro e del non lavoro in Italia.

Non a caso gli strumenti a disposizione per compensare una sosta forzata e prolungata dal lavoro si sono rivelati fallaci, alimentando piuttosto che riducendo le disuguaglianze. A farne le spese più alte, secondo i primi dati ISTAT, sono stati in particolare giovani, donne e lavoratori migranti, di fatto i soggetti più fragili del mercato del lavoro, intrappolati tra bassi stipendi, lavoro nero e grigio, contratti a termine e disoccupazione.

Appare chiaro come ci sia uno scollamento tra la realtà del mondo del lavoro, incarnata nelle fatiche quotidiane di un esercito di lavoratori cosiddetti atipici, e l’impianto normativo che dovrebbe garantire le necessarie tutele. Le misure adottate dal governo nell’ultimo anno e mezzo, susseguitesi nei vari decreti, non hanno fatto altro che rispecchiare la frammentazione già esistente nel mondo del lavoro, fornendo coperture a macchia di leopardo che hanno escluso una consistente fetta di lavoratori dai meccanismi di tutela. Di questa situazione sembra essere cosciente anche l’attuale compagine di governo che, per bocca del Ministro Orlando, prova a immaginare una revisione possibile dell’impianto welfaristico italiano per il prossimo luglio, per iniziare a colmare quel “ritardo storico” che l’Italia sconta. Il problema di fondo purtroppo permane, dato che l’orientamento del Ministero del Lavoro è quello di intervenire nuovamente sulla Cassa Integrazione e legare la Naspi alle politiche attive, mentre si depotenzia il Reddito di Cittadinanza.

Figlio prediletto del primo governo pentastellato (“Abbiamo abolito la povertà” gongolava Di Maio dopo l’approvazione), maltrattato da destra a sinistra, deriso, frustrato, picchiato, derubato, il RdC ha comunque rappresentato una minima ancora di salvezza per molti durante la crisi pandemica, nonostante le numerose lacune e storture che lo accompagnano.
Di più, il RdC si è mostrato nella pandemia vestito (quasi) del suo abito migliore, quello privo delle diverse condizionalità che caratterizzano la misura, svincolato dal percorso obbligato nel quale dovrebbero essere inseriti i percettori che, di fatto, prevede l’accettazione di un lavoro qualsiasi esso sia (e qualsiasi sia la relativa retribuzione). Non di certo la misura di rottura chiesta a gran voce da più di 30 anni di lotte ma, sicuramente, una base di partenza sulla quale agire per allargarne le maglie, a partire dalla platea dei possibili percettori. In particolare questa battaglia va combattuta sul fronte di chi può essere titolato a percepire il RdC. Anche in questo caso è la norma stessa a produrre esclusione in maniera lineare, dato che per ora l’erogazione del sussidio avviene su base familiare, con il risultato che solo una persona per nucleo può fare richiesta, con buona pace dei giovani precari, come al solito.

Le battaglie per un welfare realmente universale, individuale, sganciato dalla prestazione lavorativa, capace di ricomprendere tutte le sfaccettature del lavoro contemporaneo, sono l’orizzonte al quale volgere lo sguardo per sperare di superare l’enorme crisi con la quale abbiamo solamente iniziato a confrontarci e che, probabilmente, si mostrerà nella sua brutale potenza a partire dal prossimo sblocco dei licenziamenti, a fine luglio o a fine agosto.

Molte delle lotte nate e sviluppatesi nella pandemia hanno avuto proprio la rivendicazione di un reddito di base universale come minimo comun denominatore. In primo luogo le mobilitazioni del comparto dello spettacolo e della cultura, condotte in tutto il Paese da alcune delle figure più paradigmatiche della precarietà, intermittenti per natura, costretti ad alternare continuamente periodi di lavoro e non lavoro, che hanno visto nell’introduzione di una misura di welfare di stampo universalistico l’unico strumento possibile per garantire una continuità di entrate. L’unico in grado di non lasciare indietro nessuno, per davvero.


POV: Sei la Cassa Integrazione di una cameriera precaria. Dopo diversi mesi di attesa sei finalmente pronta per essere erogata, anche se un po’ ti vergogni. Con che faccia ti presenterai dalla tua beneficiaria così magra e scarna? Sia ben chiaro, non è colpa tua se nella sua busta paga erano segnate metà delle ore, d’altronde è la norma nel mondo della ristorazione. Questo però non ti consola e già ti si chiude lo stomaco nel pensare a come potrebbe rimanerci la poveretta guardandoti accreditata sul suo conto.

Uno dei principali problemi del mercato del lavoro contemporaneo, nonostante la lunga lista di tentativi fatti per arginarlo, resta senza dubbio il lavoro nero. Non sono bastate le decine di forme contrattuali a disposizione delle aziende, non sono bastati gli sgravi fiscali, i bonus, gli aiuti, non è sufficiente nemmeno il potere sanzionatorio in capo all’Ispettorato del lavoro: in Italia si continua ad “assumere” senza contratto e il bacino dei lavoratori in nero resta enorme.

A loro la pandemia ha riservato i danni peggiori, relegandoli a casa da un momento all’altro, senza possibilità di accedere alla cassa integrazione o alla Naspi: lavoratori e lavoratrici della ristorazione e del turismo, badanti, colf, baby-sitter, migranti sfruttati nell’edilizia o nei campi, una lista infinita di figure differenti, tutte ugualmente dimenticate.

Non è però solo il lavoro nero ad aver di fatto escluso una fetta di lavoratori dal meccanismo degli ammortizzatori e della previdenza sociale nei mesi della pandemia. Pensiamo ad esempio a tutte quelle figure del lavoro con una parte di retribuzione “in chiaro” e il restante ammontare dello stipendio in nero. Il cosiddetto lavoro grigio, fondato sul “fuoribusta”, ha determinato una fruizione soltanto parziale dalla cassa integrazione, che agisce ovviamente in compensazione di quanto dichiarato in busta paga. Da un giorno all’altro stipendi ridotti di un terzo, dimezzati se non addirittura praticamente scomparsi.

Ecco come la pandemia ha agito di nuovo su una situazione già disastrosa dal punto di vista dei diritti, oltre che sul piano dei livelli retributivi. Come se non bastasse l’assenza di minime tutele derivanti dal rapporto normato dal contratto (ferie, permessi, malattie e così via) l’altro gravissimo problema in Italia resta infatti quello dei minimi salariali. Il working poor rappresenta un elemento peculiare del lavoro in Italia, un Paese che si trova in fondo alle classifiche dei salariali in Europa. Se da questo punto di vista l’introduzione del Reddito di Cittadinanza ha già prodotto dei minimi effetti (più sul piano dell’immaginario che su quello effettivo c’è da dire) tangibili nelle grottesche lamentele, ad esempio, degli albergatori che si ritrovano senza lavoratori stagionali da spremere per 600 euro al mese, non potrà essere certo questa misura da sola a risolvere il problema. Innanzitutto perché, come già detto in precedenza, risulta ancora troppo condizionata e, soprattutto, quantitativamente insufficiente, in secondo luogo perché solo introducendo un minimo salariale fissato per legge si potrebbe davvero porre fine a questo perverso meccanismo che rende possibile non arrivare a fine mese, pur lavorando 40 ore a settimana (o anche di più).
Reddito di base e salario minimo sono due facce della stessa medaglia, due battaglie complementari che avranno possibilità di successo solo se combattute insieme.


POV: sei un panino con doppio hamburger trasportato nell’iconico borsone giallo fissato alla meglio sul portapacchi di uno scooter sgangherato, sballottato sui sampietrini di via Nazionale a Roma. Non te la passi bene ma, fidati, peggio di te se la passa chi ti sta trasportando, correndo su quel sottile crinale tra l’infrazione stradale (con tutti i rischi che comporta) e la mancata consegna, intento a non perdere punti sull’app per meno di 2 euro a corsa.

Se il lavoro nero, il lavoro grigio, l’assenza di ammortizzatori sociali adeguati e i bassi salari hanno prodotto pesanti meccanismi di esclusione, impoverimento e invisibilità nella crisi pandemica, da meno non hanno fatto alcune delle nuove forme del lavoro, in particolare quelle di piattaforma.

Si è parlato molto di riders ultimamente, figure iconiche dei nuovi modelli di sfruttamento, sottoposti al potere direttivo e sanzionatorio dell’algoritmo senza esserne formalmente dipendenti.
Durante il lockdown e nei mesi successivi i riders hanno continuato a lavorare senza sosta e lo hanno fatto senza le minime tutele garantite da un rapporto di subordinazione, in particolare quelle relative alla malattia, che nel bel mezzo di una pandemia globale non è assolutamente un aspetto di poco conto, considerando anche come si svolge la loro prestazione di lavoro. Girare casa per casa consegnando cibo è stato un fattore di rischio considerevole per molti e contrarre il Covid in questa situazione avrebbe significato non solo uno stop forzato dal lavoro senza indennità di malattia ma, anche, la perdita di ranking nell’app per aver saltato giornate di lavoro. Un disastro su tutta la linea.

Se a questo aggiungiamo che le modalità retributive sono assimilabili a quelle del cottimo, senza un fisso orario (tanto meno un forfettario mensile) sembra quasi impossibile pensare che ci possano essere voci contrarie alla richiesta di un contratto vero e proprio, di natura subordinata, per i riders.

Eppure lo scontro all’interno del comparto sembra molto acceso tra chi vorrebbe rimanere (fintamente) autonomo e chi invece vuole diventare dipendente, anche se, alla luce delle modalità di svolgimento della prestazione, la posizione di chi parteggia per l’autonomia appare scollata dalla realtà, basata sull’apparente convinzione di potersi scegliere i turni e gestirsi tempi e modalità di lavoro, guadagnandone anche dal punto di vista retributivo. Purtroppo, niente di più falso.

Dal canto loro la quasi totalità delle aziende (con l’unica eccezione di Just Eat) perseverano ovviamente nel mantenere i rapporti di lavoro formalmente autonomi, forti anche del contratto collettivo sottoscritto “col favore delle tenebre” da UGL e Assodelivery (l’associazione datoriale che riunisce le principali piattaforme del delivery). Di diverso avviso invece i rilievi tecnici che si sono susseguiti dentro le Procure, in particolare quella di Milano, che stanno progressivamente accertando profili di illegittimità nel rapporto di lavoro tra piattaforme e riders e che possono rivelarsi ottime carte a supporto delle lotte che si sono generate nel settore.

Come spesso accade sono state, infatti, prevalentemente le lotte ad aver acceso i riflettori sulla situazione dei riders e portato a casa risultati tangibili, a partire dalla decisione di Just Eat di uscire da Assodelivery e avviare un percorso di contrattualizzazione per i propri fattorini, ora formalmente dipendenti dell’azienda. Col diffondersi delle piattaforme in Italia si sono quasi immediatamente formate le cosiddette Unions, gruppi di riders organizzati, talvolta supportati da associazioni sindacali ma sostanzialmente indipendenti, che hanno provato a rivendicare diritti e tutele in un settore apparentemente nuovo per organizzazione della prestazione lavorativa, sistema di premialità, retribuzione e così via. Il carattere innovativo delle pratiche messe in campo, che hanno tenuto insieme elementi vertenziali e costruzioni di reti mutualistiche per i riders all’interno dei centri urbani, ha rappresentato la carta vincente per le Unions, che sono riuscite a catalizzare un largo consenso tra i riders, dimostrando che lottare si può, anche quando il “nemico” sembra essere sfuggente, inafferrabile, una mera sequenza di zero e uno che dirige e sfrutta dallo schermo di uno smartphone.

Ovviamente la strada da fare per ottenere risultati significativi è ancora lunga e abbastanza accidentata e la partita si giocherà soprattutto sui livelli retributivi: a prescindere dal fatto che le tutele della subordinazione possano essere (o meno) ritenute incomparabili con guadagni lordi (a volte) più alti derivanti dall’attuale regime di lavoro, solamente la lotta per una paga oraria dignitosa potrà spezzare il fronte degli “ultras della finta autonomia”, mettendo tutti d’accordo sul definitivo riconoscimento del delivery come un lavoro subordinato a tutti gli effetti.

 

 

Emanuele De Luca

Emanuele De Luca, classe 1988, è attivista e coordinatore delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario, associazione sindacale di nuova generazione, per la quale si occupa di precarietà e reddito di base, animando campagne di sensibilizzazione a livello nazionale.