Aporie, categorizzazioni e Lucio Battisti

di Liv Ferracchiati

teatro di Epidaurus, Grecia - foto di Christos Sakellaridis da Unsplash
teatro di Epidaurus, Grecia – foto di Christos Sakellaridis da ‘Unsplash’

Inclusione\esclusione nel Teatro.
Posso parlare di tutto, liberamente. 
Dai temi dei miei lavori, alla facilità\difficoltà di produzione, al rapporto generazionale.
Ecco, non so perché, però percepisco che, pur essendoci diverse opzioni, il suggerimento sia quello di parlare dei temi. Mentre si parla del pezzo che potrei scrivere, non posso fare a meno di pensare: «Me lo staranno chiedendo perché vorrebbero che io scrivessi qualcosa sui miei soliti temi?». Temo di sì.
Allora, però, va fatta una premessa.

Mi categorizzo o non mi categorizzo?
Io vorrei, non vorrei… ma se vuoi…
Categorizzarsi è riduttivo, certo.
È l’esatto opposto di quello contro cui, puntualmente e mio malgrado, lotto.
E la domanda sarebbe: perché devo lottare?
Eccoci, mi sto inoltrando, passo dopo passo, nella contraddizione.
Sto cadendo vittima, stavolta per mano mia, della contraddizione che vorrei enunciare.
Come posso indicare una falla comunicativa che finisce per categorizzare le persone senza categorizzarmi io per primo?
Impossibile.
Eccola.
Eccola, lì.
È l’aporia che ammazza, certe volte.
Come posso modificare le cose? Cambiare il sentire, l’immaginario?
Impossibile, ci vorrebbe troppo tempo.
Decenni.
Come può uno scoglio arginare il mare?
Anche se non voglio torno già a categorizzare.
Chi si definisce appanna le altre sfumature del sé.
D’altronde, l’identità è un concetto complesso e, ancora oggi, fondamentale.
Siamo in una fase storica in cui i tasselli che compongono le nostre identità sono ancora utili per comunicarci agli altri.
Forse lo saranno per sempre.
O forse no?
Alcuni di questi “tasselli identitari”, in certi frangenti, ci servono per ottenere diritti basilari, diritti civili. Perché se esiste ancora qualcuno che ritiene i neri diversi dai bianchi, non può stupire se questioni meno palpabili disorientino fino a questo punto.
Forse un giorno non servirà più, ma intanto…
Esisterà un momento, se il nostro Pianeta non ci estinguerà come specie (scelta eventualmente di estrema lucidità e lungimiranza da parte sua), in cui basterà semplicemente presentarci col nostro nome, inteso come coordinata della nostra specificità.
Il nostro nome e basta.
Chi sei?
(Nome)
Fine dei giochi.
Invece, oggi:
chi sei?
(Nome)
Sì, ma…
Cosa?
No, dico…
Che?
Ti piacciono, diciamo… hai capito… oppure…?
Oppure?
No, mi chiedevo…
Dimmi.
Beh…
Sì?
No, poi mi domandavo se per caso ti sentissi più… diciamo… oppure…?
Oppure?
No, mi chiedevo…
Ah…
Sì?
Beh…
E da allora, solo oggi non farnetico più, dice una canzone.
D’accordo, mi categorizzo di mia sponte, ma solo per cinque minuti: sono una persona, e già questo potrebbe bastare, transgender.
Arriviamo al punto.

Dicevamo: inclusione\esclusione nel Teatro.
Che faccio, devo partire dai miei soliti temi?
Che poi, pensavo, quali sono i miei soliti temi?
Ho realizzato circa venti spettacoli, intendo proprio da quando ho iniziato a far teatro, e solo tre di questi, ad oggi, trattano dell’identità di genere.
Per il resto, quasi sempre, credo si ruoti intorno ad una domanda piuttosto semplice e, al contempo, irrisolvibile: chi sono?  
«Conosci te stesso», ci suggerisce l’oracolo di Delfi. 
Niente è più universale dell’indagare se stessi, se questa indagine si imposta come indagine sull’Uomo. 
Ogni volta che mi viene richiesta un’intervista però, aleggia in me il solito sospetto, ovverosia che il giornalista voglia trattare il solito tema.
Il solito tema non inteso come indagine sull’essere umano che credo di svolgere, negli esiti dello scontro\incontro tra natura e cultura, bensì come argomento morbosetto, quasi da rivista scandalistica.
Mi domando: è da considerare inclusione voler parlare di un argomento ancora socialmente vivo e irrisolto? Oppure è una sottile forma di esclusione?
Soprattutto se lo si vuole trattare in maniera stereotipata e superficiale, con poco spazio, senza un reale approfondimento, giusto per solleticare la curiosità sul fenomeno, senza che sia direttamente agganciato al lavoro trattato.
Pongo questa domanda a costo di incappare nel fraintendimento.
Ad ogni modo, ogni volta che sta per uscire un articolo inizia il toto-titolo.
Potrebbe veramente uscire fuori di tutto.
Tra l’intervista e la sua pubblicazione c’è quel lasso di tempo in cui: tremo.

“IO TRANSGENDER”
“QUEL TRANSGENDER DELLA SERA”
“SEI TRANSGENDER IN CERCA D’AUTORE”
“QUEER E ORA”
“QUEER E SEMPRE”
“IO, ME E I TRANSGENDER”
“VITA DA TRANSGENDER”
“IL MIO TEATRO TRANSGENDER”
“LA DODICESIMA TRANSGENDER”
“I TRANSGENDER NON FINISCONO MAI”
“BALLA COI TRANSGENDER”
“L’UOMO CHE SUSSURRAVA AI TRANSGENDER”
“SONO ANDATO IN TRANS”

Provo a spiegarmi meglio: sfruttare un tema d’appeal e designare un autore teatrale come colui che tratta solo e soltanto alcuni temi, semplicemente perché mette all’interno dei propri testi teatrali personaggi transgender, è inclusione o esclusione?
Proprio per non cadere in questa crepa della comunicazione mi sono trovato spesso a rifiutare pagine di rilievo.
Una volta, in un’intervista, dove avevo parlato di quali fasi si compone il mio lavoro, quindi di fatti meramente tecnici, non di nodi tematici, ad articolo pubblicato ho notato che sotto alla mia foto c’era una piccola scritta in grassetto e recitava così: “autore transgender”.
È inclusione o esclusione usare questa dicitura?
È un modo per comunicare il fenomeno e “normalizzarlo” o è un modo per creare un recinto intorno alla persona di cui si parla? Quasi come a neutralizzarla rispetto al resto del mondo, rispetto ad altri argomenti, ad altro teatro, come a dire:
«Non vi preoccupate quest’autore si occupa solo di questo».
E cosa significa essere un autore transgender?
Carlo Goldoni è un autore cisgender?
Shakespeare è un autore cisgender?
Ibsen è un autore cisgender?
Sono paragoni troppo alti, fa sorridere la sproporzione.
D’accordo.
Allora, racconterò un aneddoto relativo a un mio collega, praticamente mio coetaneo. Eravamo in accademia negli stessi anni, abitavamo addirittura nella stessa palazzina. Recentemente ho visto un suo lavoro. Nel suo testo sono protagoniste due coppie, due coppie che, se dobbiamo essere specifici, sono formate da persone cisgender eterosessuali, ricalcano proprio tutti gli stilemi, non sono due coppie qualsiasi, sono proprio molto cisgender e molto eterosessuali.
E dico “molto” senza alcun giudizio, lo esplicito per chiarezza, parlo di dati di fatto oggettivi.
Il tema del lavoro però è altrove.
Dunque, giustamente, nessuno si sognerebbe di dire che è uno spettacolo sul cisgenderismo.
Ora, non sono uno sprovveduto, sono consapevole che si tratta di un tema acquisito dalla nostra società, anzi fondante, e che dunque avere due coppie cisgender ed etero è accessorio, non dirimente; ma non è una forma di esclusione additare un mio lavoro come lavoro sui soliti temi perché all’interno dei testi inserisco personaggi transgender?
Ho notato, tenendo laboratori di drammaturgia, che i partecipanti, di norma quasi tutti sui vent’anni, sono molto sensibilizzati su certi temi, ma in modi diversi da quelli della mia generazione e da quelli delle generazioni precedenti.
Loro i soliti temi li hanno metabolizzati, per loro sono diventati: solidi temi.
Se ancora per noi, identità di genere o orientamento sessuale, vengono sentiti come il tema, per i più giovani sono concetti talmente acquisiti che mettere al centro di una propria drammaturgia, ad esempio, un personaggio transgender non equivale a parlare di transgenderismo, ma significa mettere in campo un’umanità come un’altra.
Ma i temi non solidi, sono soliti.
Dunque, mi succede, durante le interviste, di fare molta attenzione a non citare i soliti temi perché so che altrimenti mangeranno tutto il resto, perché so che usciranno titoli di giornale non particolarmente intelligenti, per accalappiare tre secondi l’attenzione svogliata di un pubblico di lettori ormai bombardato da notizie provenienti da ogni parte.
Ad ogni modo, siccome il tema “genere” è pervasivo, struttura la nostra esistenza e ha ricadute su qualunque aspetto della nostra vita, ho deciso che è il caso di continuare a indagarlo.
Perché è pervasivo rispetto alle vite di tutti, anche di chi è più inconsapevole, può diventare un recinto, una gabbia, una gabbia da scardinare.
Pochissimo, ci mancherebbe.
Per non categorizzarmi ho dovuto fare una scelta: quando il tema sarà presente, il fuoco sarà sempre altrove, eppure, come un fiume carsico, scorrerà e manderà avanti la mia indagine.
Questo accade, ad esempio, nel mio La tragedia è finita, Platonov. Si parla di tutt’altro, si parte da un testo che Čechov scrisse a diciassette anni, un testo molto cisgender, molto eteronormato.
Sono pulito.
Il fuoco tematico è in una domanda molto cechoviana:
«Perché non viviamo come avremmo potuto?»
Ci sono quattro donne e due uomini.
Platonov, il protagonista del dramma e un Lettore, personaggio aggiunto da me.
“Lettore” perché la cornice drammaturgica è proprio il rapporto tra opera d’arte e fruitore, come può un’opera d’arte influenzare in modo concreto la vita di chi ne fruisce.
Sono davvero pulito, non si rintracciano i soliti temi.
Il Lettore, stando a bordo palco, prima osserva da vicino i personaggi che lo hanno quasi ossessionato e poi entra così dentro la storia che ci dialoga, modifica le loro traiettorie e, addirittura, mescola la sua vita privata alle vicende del testo originario.
Vita privata che ha creato, inconsciamente, parallelismi con le dinamiche relazionali del testo originale. Quasi si confonde, perde cognizione di cosa sia reale e di cosa sia immaginario.
Dov’è il solito tema? Dov’è quell’ambiguo (ambiguo con accezione più che positiva) che disarciona dai nostri riferimenti standard?
Nel mio corpo messo in scena: il Lettore, che è un ruolo maschile, sono io.
O meglio: presto il mio corpo a quel personaggio.
Non è un ruolo en travesti, intendiamoci bene.
È semplicemente un nuovo modello d’uomo. Un’altra possibilità.
Non mi servo più delle parole, ma di un corpo.
Il mio. Mi servo del suo essere “dato di fatto”, mi servo del suo esistere.
Riguardo a tante chiacchiere: tutto è dato per assodato, per già pienamente metabolizzato.
In Un eschimese in Amazzonia, che è stato definito continuamente autobiografico senza che io lo avessi mai scritto da qualche parte, invece gioco su un altro tipo di spiazzamento.
Ad un certo punto estrapolo un monologo da pagina 81 di Testo tossico di Preciado, è l’unica porzione di testo non mia.
Sono seduto su una sedia, a ridosso del pubblico in sala, le luci sono soffuse e c’è sotto Murcof che rende l’atmosfera densa, piacevolmente sofferente.
Io dico a fatica le parole che Preciado ha scritto, come se fosse una confessione intima, ma in quelle parole, di mio, non c’è niente. 
Dopo verrà svelato l’arcano, ma quasi nessuno ha voglia di cogliere questo svelamento.
È inclusione o esclusione risolvere uno spettacolo-performance esito di anni di ricerca come lavoro autobiografico tout court che tratta certi temi?
Pongo questa domanda e torno ai titoli, alle interviste, agli uffici stampa.
Anzi, vorrei concludere con un frammento di autofinzione.
Io sono croce e delizia di ogni ufficio stampa. Vorrei riportare a memoria, quindi colmando certamente con l’invenzione, talune lacune, un dialogo tipo tra me e un ufficio stampa.

Sull’uscio di un panettiere

UFFICIO STAMPA Come stai?
IO Bene, grazie, tu?
UFFICIO STAMPA Bene, bene.

Pausa

Senti…
IO Ho capito.
UFFICIO STAMPA Eh, sì…
IO Un’intervista?
UFFICIO STAMPA Sì, potresti avere un bello spazio, la prima pagina.
IO Ah..
UFFICIO STAMPA Eh, sì…
IO Però?
UFFICIO STAMPA Vogliono parlare del tuo ultimo lavoro, però…
IO Però?
UFFICIO STAMPA Però poco… più che altro vorrebbero parlare…

Pausa di due secondi almeno

…di te

IO Ancora?
UFFICIO STAMPA Beh, lo sai, a me non piace come cosa, ma il tema tira.

A questo punto della conversazione io puntualmente mi infervoro, mi appassiono, sempre come fosse la prima volta.

UFFICIO STAMPA Lo so, non lo devi dire a me.
IO Scusa, sì, hai ragione, non ce l’ho con te.
UFFICIO STAMPA Quindi che faccio? Accetto? È un bello spazio.
IO Pensi che titoleranno come al solito?
UFFICIO STAMPA Sai che sui titoli ci possiamo fare poco.
IO Ma perché è tutto così becero?
UFFICIO STAMPA Non prendertela con me.
IO Ma no, no…Il titolo sarà: “Čechov transgender”?
UFFICIO STAMPA Non possiamo escluderlo.

Tutto questo è esclusione o inclusione?
Me lo chiedo sinceramente.
Non so perché mi viene in mente l’incipit de Le Confessioni di Rousseau, con il suo intento di autobiografia, intus et in cute:

«Mi accingo a un’impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell’uomo sono io».

 

 

Liv Ferracchiati

Liv Ferracchiati (Todi, Italia, 1985) si diploma in regia teatrale presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano nel 2014, dopo una laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza di Roma.
Nel 2015 fonda la compagnia teatrale The Baby Walk e debutta al Ternifestival con l’anteprima di Peter Pan guarda sotto le gonne – Trilogia sull’Identità (Capitolo I, spettacolo premiato al Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro), sul tema dell’infanzia transgender, di cui cura regia e drammaturgia.  Nel settembre 2016, sempre al Ternifestival viene presentato in prima nazionale Todi is a small town in the center of Italy, testo e regia Liv Ferracchiati. Nel giugno 2017 il suo testo Stabat Mater vince il Premio Hystrio Nuove scritture di Scena 2017, mentre nel  luglio 2017 Un eschimese in Amazzonia – Trilogia sull’Identità (Capitolo III), scritto, diretto e interpretato da Liv Ferracchiati, vince il Premio Scenario 2017.  Ad agosto 2017 Antonio Latella seleziona per per la Biennale Teatro 2017. 45. Festival Internazionale del Teatro di Venezia una monografia di tre lavori scritti e diretti da Liv Ferracchiati (Todi is a small town in the center of Italy, Peter Pan guarda sotto le gonne e Stabat Mater). 
Alla Biennale Teatro 2020, una menzione speciale è stata attribuita dalla giuria internazionale a La tragedia è finita, Platonov, riscrittura dell’omonimo testo di Anton Čechov, in cui Liv Ferracchiati è anche regista e interprete.  Nel 2021 La tragedia è finita, Platonov viene ospitato anche al Festival Dei Due Mondi di Spoleto e al Festival delle Colline Torinesi.   A ottobre 2021 verrà pubblicato il suo primo romanzo, Sarà solo la fine del mondo, con Marsilio Editori.