Appunti sparsi sul digrignare i denti
di Daniele Villa / Sotterraneo
La prima volta che il pubblico ha riso davvero, fragorosamente, come un’unica grossa bestia feroce a un nostro spettacolo per noi è stato quasi uno shock. Non era previsto né calcolato – un po’ l’inesperienza, un po’ l’ingenuità, era il nostro secondo spettacolo, eravamo ancora in cerca di un linguaggio personale e non sapevamo cosa aspettarci. Il pubblico ha riso all’inizio e non ha quasi mai smesso, se non nei momenti in cui in effetti non c’era nulla da ridere. Insomma, l’alchimia funzionò alla perfezione, le cose andarono nel migliore dei modi possibili e per noi fu un’epifania. Correva l’anno 2007 e lo spettacolo si chiamava Post-it, un pezzo costruito per quadri su temi come caducità, fine, scomparsa, oblio, morte: ah ah ah.
Ne parlammo a lungo. Perché era stato bellissimo. Sentire quell’attivazione, quella risposta, far provare quel piacere quasi erotico ed esserne contagiati… ma al tempo stesso avere la sensazione di non aver perso un’unica stilla del senso di quello che portavamo in scena, della sua malinconia, complessità, ambiguità. Forse si poteva fare, quindi: si poteva far ridere senza essere consolatori, divertire senza distrarre, intrattenere (intra-tenere, tenere dentro) senza essere terapeutici, essere complici senza compiacere.
Va detto che ricordo anche alcune reazioni negative di addetti ai lavori, un po’ contrariati dalla nostra “leggerezza”: nel 2007 far ridere nel teatro di ricerca era ancora un po’ un tabù.
Certo, anche la nostra epifania era un po’ ingenua: nella storia del teatro c’erano maestri inarrivabili che col riso avevano segnato capolavori, ma noi non li avevamo ancora studiati, non credevamo che questa cosa ci riguardasse finché non ci è successo. Abbiamo scoperto che ci piace far ridere grazie alle prime risate del pubblico, non prima. Poi abbiamo scavato, studiato, approfondito e abbiamo messo a fuoco che ci interessa la risata come mezzo e non come fine, che nella risata cerchiamo il risus purus di Beckett, il riso dell’assenza di senso e della sua umana e (appunto) risibile ricerca.
E qui si potrebbero fare infinite distinzioni (col rischio di categorizzare fin troppo): comico, satirico, sarcastico, demenziale, ironico, postmoderno, gag, super-gag, slapstick, tragicomico, umorismo… va da sé che sul riso e i suoi paradossi si potrebbe discutere per ore, io stesso potrei contraddire alcune cose che ho appena scritto – perciò proviamo a sintetizzare così: non c’è niente da ridere, per questo l’essere umano è geniale, perché ride lo stesso, non fosse altro che per sottolineare che non c’è niente da ridere. Lo fa per digrignare i denti e dire all’universo che sa di essere una creatura risibile ma questo non lo paralizzerà, lo fa per scelta insomma. Ciò detto, in questa sede più che teorizzare preferiamo raccontare qualche esempio concreto, esperimenti empirici di come e perché si è attivata la risata in alcuni dei nostri spettacoli, anche se ovviamente – l’ennesimo paradosso – a raccontarli non faranno mai ridere…
In Post-it, verso la fine, celebravamo un piccolo funerale: circondavamo un cadavere di oggetti che consumavamo subito come se seguissimo un’esistenza umana in time-lapse: un castello di sabbia eretto e subito sfaldato, una partita di scacchi che arriva allo scaccomatto in pochi secondi, una piantina di basilico che perde tutte le foglie insieme. Fra le tante cose che accadevano una faceva (quasi) sempre ridere il pubblico, nonostante il silenzio generale di quel panorama di oggetti morti: un’attrice riempiva di monete un salvadanaio di terracotta e immediatamente estraeva da una tasca un martello per fracassarlo in mille pezzi e riprendersi i soldi. La risata era rapidissima, poi si tornava repentinamente al silenzio di quella sepoltura in fast-forward.
Chiamiamola gag, effetto di straniamento, trovata – per noi in fondo va bene (quasi) tutto, basta che la risata sia un po’ come una “trappola”, basta che lo spettatore rida e subito si domandi cosa c’è da ridere: quando da spettatori ridiamo così, per noi vale già il prezzo del biglietto.
Dies irae (2009) era uno spettacolo in cinque episodi sul collasso della civiltà. Il primo episodio consisteva nella ricostruzione di una scena del crimine (leggi: massacro), fatta per mezzo di un immaginario da graphic-novel con tanto di suoni onomatopeici e schizzi di vernice rossa su pareti di carta bianche. Il tutto giocando con slow-motion e accelerazioni, rapide coreografie descrittive e un distacco glaciale fra tono e contenuto. Il pubblico rideva più o meno per tutta la durata dell’episodio, ma questo non impediva al pezzo di raggelare la platea al momento conclusivo: l’ultima azione era una prolungata tortura su un’attrice che seminascosta urlava a squarciagola mentre le venivano amputate le dita e cavati gli occhi. Quando la replica andava nel migliore dei modi possibili, si passava dalla risata collettiva modello sit-com ai brividi lungo la schiena nello spazio di pochi secondi.
Ecco, qualche comico televisivo va in giro dicendo che “ridere fa bene”, qualche stand-up comedian dice che “ridere rilascia la tensione”… Tralasciando gli aspetti neurologici, diciamo solo che per noi nessun esempio “terapeutico” di risata è interessante, quelle sono risate-vicolo-cieco. Per noi far ridere è un atto di magia nera e chi vi partecipa cova rabbia, malinconia, sgomento, furia, intelligenza: ci piace far ridere di dolore e al tempo stesso avvertire la risibilità del tuo infinitesimale dolore umano, ci piace che la risata non dia scampo, vogliamo ridere e far ridere come ride un umano.
Che è probabilmente l’unico animale che ride, dice Nietzsche «l’unico animale che soffre così tanto da essersi inventato il riso».
Del resto quando ridi digrigni i denti. È un gesto ancestrale riscontrato nel comportamento dei cuccioli di primate durante alcuni giochi d’apprendimento del combattimento. Se chiedete a noi, quindi, il riso è una forma di lotta, più che una cura.
In L’origine delle specie (2010) un enorme pupazzo mascotte di panda dichiarava di essere l’ultimo esemplare della sua specie e chiedeva al pubblico di aiutarlo a morire. Veniva rapidamente raggiunto da un pupazzo mascotte di Mickey Mouse che cercava di convincerlo a mutare per risultare più divertente, a evolversi per adattarsi all’ecosistema circostante. Mickey Mouse mostrava anche una dettagliata slide delle metamorfosi del suo personaggio, dal tratto stilizzato degli esordi fino alle forme più tondeggianti e morbide (leggi: rassicuranti) del presente. Il pubblico rideva quasi sempre, poi con un’iniezione letale terminavamo l’ultimo panda.
In fondo è vero: ridere può essere anche reazionario. Il filosofo Henri Bergson per esempio individua nel riso – tra le altre cose – la rassicurante sensazione di sentirsi parte di una maggioranza contrapposta all’oggetto della derisione: in questo senso il riso può configurarsi come uno strumento di conservazione sociale.
Al tempo stesso però il riso dissacra, denuda, rovescia i totem e smonta i tabù, per questo nell’Alto Medioevo la Regola di San Benedetto bandiva il riso dal mondo cristiano: «quanto alla comicità, alle parole oziose che inducono il riso, le condanniamo per sempre e in ogni luogo […]. Poiché il Signore condanna coloro che oggi ridono, è chiaro che l’anima fedele non deve mai ridere».
Il riso insomma è un coltello a doppio filo e maneggiare i coltelli, si sa, è pericoloso. L’effetto comico è complesso, conflittuale, paradossale: una platea che vibra in una risata sta dentro a questa contraddizione interiore e collettiva al tempo stesso.
In Homo ridens (2011) aprivamo il pezzo con una carrellata di immagini terrificanti: una fossa comune dell’Olocausto, una bambina denutrita del Sudan con un avvoltoio appollaiato poco distante, un arto dilaniato rimasto sull’asfalto dopo l’attentato alle Twin Towers. Mostrando le immagini proponevamo “motti di spirito” al pubblico su ognuna di esse, chiedendo poi di votare il più efficace oppure di votare l’opzione “non c’è niente da ridere”. Alcuni rimanevano raggelati e ci guardavano con disprezzo (o perplessità o sgomento…) e poi guardavano gli spettatori che ridevano con disprezzo (o perplessità o sgomento), alcuni non volevano ridere ma perdevano il controllo e ridevano, altri abbracciavano la provocazione e ridevano di gusto e votavano i loro motti preferiti, altri ridevano ma poi si rifiutavano di votare. Alla fine della votazione vinceva sempre e comunque l’opzione “non c’è niente da ridere”.
Si può ridere e razionalizzare. Anzi forse ridere può rinnovare uno shock che il tempo e l’abitudine hanno in parte anestetizzato.
Nel 2011 erano ormai alcuni anni che facevamo ridere e quella performance per noi era un’indagine improrogabile: capire il riso come meccanismo istintivo, studiarlo come dispositivo manipolatorio e liberatorio, parlarne apertamente col pubblico, dire loro possiamo farvi ridere (possiamo farvi ridere?), però domandiamoci insieme di cosa parliamo quando parliamo di riso umano.
Se negli anni, con quel pezzo o con altri, siamo in qualche modo riusciti a far ridere cantando il nostro tempo e le sue contraddizioni, se quella risata ha sempre avuto a che fare con un’aperta lotta dentro la nostra percezione della realtà, storicamente e geograficamente situata, allora quando ha riso con noi il pubblico ha digrignato i denti verso se stesso e quindi un po’ ha riso di se stesso. A noi piace quando ci succede come spettatori o quando riusciamo a farlo succedere a qualcun altro. Questo sì che è divertente, per dei primati evoluti come noi. O no…?! In fondo temo di aver detto semplicemente che per noi far ridere è una cosa serissima.
In BE LEGEND! (2013) tre bambini mettevano in scena con noi dei brevi mockumentary sull’infanzia di tre personaggi iconici: Amleto, Giovanna d’Arco e Hitler. Tutti e tre i pezzi finivano coi bambini che inscenavano la morte del loro personaggio da adulto e un attore portava fuori scena i loro minuti cadaveri. Il piccolo Amleto si dissanguava recitando il suo celebre “il resto è silenzio”, la piccola Giovanna urlava a lungo bruciando viva avvolta dal suono di un incendio, il piccolo Adolf ingeriva del cianuro e (per sicurezza) si sparava un colpo in testa: tutte queste morti erano ridicole, ma non facevano mai ridere.
Questo punto d’equilibrio, questo paradosso, è quello che cerchiamo. A volte ci riesce e quando ci riesce per noi è abbastanza. Che uso faranno gli spettatori di questo paradosso sta a loro, alla loro intelligenza e sensibilità, non pensiamo di aver nulla da insegnare né di dover recapitare messaggi. Ce l’ha insegnato un maestro dell’umorismo, Ionesco, scoperto mentre scoprivamo la risata a teatro: non reco messaggi, non sono un postino, diceva lui.
L’amico e collega Massimiliano Civica dice che il tragico crede ancora nell’umano mentre il comico no. Probabilmente è vero, ciò non vuol dire che chi ride sia cinico, quanto piuttosto che ridere è sintomo di disincanto (leggi: pensiero critico).
L’amico e collega Roberto Castello nel suo spettacolo con Andrea Cosentino Trattato di economia a un certo punto dice (citiamo a memoria) «l’ironia è di chi sa vivere»: se consideriamo che essere ironico significa “dire il contrario di quello che pensi” (già il greco antico eironeia portava con sé questa idea), allora diventa ragionevole pensare che in effetti l’unica creatura consapevole della propria morte si sia dotata dell’arma intellettuale dell’ironia per poter sopravvivere a se stessa.
Il nostro lontano e mai conosciuto di persona collega Jerome Bel diceva qualche anno fa: «comincio a credere che più la gente ci vede fare coste stupide in scena più diventa intelligente». Come non essere d’accordo…? A maggior ragione se in scena assisti alla manifestazione della nostra stupidità collettiva, come civiltà, come comunità professionale, come identità etnico-culturale, come specie.
Perché noi siamo neurologicamente stupidi.
La razionalità, quella vera, ci chiede uno sforzo, un costo energetico che non siamo programmati per fare e che spesso e volentieri evitiamo.
Noi siamo, come dice ancora Bergson, donne e uomini che fanno ridere perché somigliano a macchine inceppate che rimbalzano contro le pareti come giocattoli caricati a molla.
Ogni volta che qualcuno riesce davvero a mettere in scena (in parole, in immagini, in musica…) queste macchine paradossali, forse guadagniamo tutti qualche grado di umanità e intelligenza, fosse anche solo per un’ora.
In Overload (2017) decine di cose comiche accadono mentre il personaggio dello scrittore americano David Foster Wallace cerca di raccontarci per intero una giornata della sua vita, quella che terminerà col suo suicidio. Il pubblico ascolta, empatizza, segue il racconto ma ride immancabilmente a ogni singola interruzione. Quando tutto va come previsto però, quando la replica è la migliore delle repliche possibili, ogni volta che le interruzioni si esauriscono e torniamo ad ascoltare Wallace il dolore è lì, intatto: ridere non ci ha fatto dimenticare l’impotenza di DFW, la sua lotta contro il rumore di fondo, la sua angoscia, la sua resa, che potrebbero essere le nostre.
A questo serve ridere, almeno per noi: è un esercizio di distacco che raffredda un tema o una scena in modo da innescare un meccanismo analitico al posto di uno emotivo, ed è al tempo stesso un esercizio di intelligenza perché smonta qualsiasi cosa rivelando il carattere relativo del nostro rapporto col reale. Lo stesso Wallace faceva ridere ma diceva anche che era l’ora di smetterla di ironizzare, ridere e divertirsi a tutti i costi, che era l’ora di «essere noi i genitori». Vai a capirci qualcosa allora, ridere è un problema o no?!
Sì, per questo è interessante.
Ridere per decostruire, smontare e denudare rivelando il carattere relativo delle nostre percezioni non significa rimanere impantanati nel post-moderno, non significa che non esista alcuna verità o realtà ultima delle cose e niente ha senso quindi ah ah ah: il punto è che l’accesso a quello che Eco chiamava «zoccolo duro di realtà», quello strato oggettivo di cui non si può forzare l’interpretazione, è davvero difficile da raggiungere e quasi sempre territorio di scontro, autoinganno, negazione. Perciò quando mettiamo in scena qualcosa con ironia, quando i nostri spettacoli sono divertenti e i testi contenuti negli spettacoli fanno ridere, magari questo rende tutto più accessibile, più facile da fruire, più comodo per il flusso dell’attenzione e la chimica cerebrale, ma lo scopo ultimo in realtà è incasinare le teste e rendere tutto più ambiguo, complicare le cose sul piano razionale, anche solo perché diventa difficile capire perché si sta ridendo, e di chi, e di cosa – o almeno questa sarebbe la nostra idea, la nostra strategia (ormai non più ingenua) che quando riesce trova un punto d’equilibrio fra complicità e conflitto col pubblico, che capisce perfettamente il senso dell’operazione e gioca con noi a questo gioco serissimo per far sì che la magia nera avvenga, che questo sentimento del contrario ci attraversi ancora una volta, che il teschio di Yorick passi ancora di mano in mano.
Sotterraneo
Sotterraneo è un collettivo di ricerca teatrale nato a Firenze nel 2005. Le produzioni del gruppo – sempre riconoscibili per il loro approccio avant-pop in equilibrio fra immaginario collettivo e pensiero anticonvenzionale – replicano in diversi dei più importanti festival e teatri nazionali e internazionali, ricevendo negli anni numerosi riconoscimenti tra cui Premio Lo Straniero, Premio Hystrio, BeFestival First Prize, Silver Laurel Wreath Award/Sarajevo MESS Festival e due Premi UBU di cui uno per lo “spettacolo dell’anno 2018” con ‘Overload’. Sotterraneo fa parte del progetto Fies Factory, del network europeo Shif Key ed è residente presso l’Associazione Teatrale Pistoiese.