Ma come fanno quelli seri?
di Riccardo Goretti
Nel corso degli anni mi sono accorto che il mio fare è sempre stato un fare comico, o quando non comico, ironico, e quando non ironico, sbagliato. È una cosa realizzata a posteriori, figuratevi. Dirò di più, anche tutti i miei punti di riferimento artistici son gente che ha sempre preferito far ridere nella produzione: ho sempre preferito Daniil Charms a Dostoevskij, Antonio Rezza a Peter Stein, Woody Allen a Bergman. Perché sono pigro? Può essere. Ma mi sembra un po’ misera come spiegazione. Sia da dare a me stesso che a voi che leggete in questo momento. No, non è questo il punto. Credo ci sia una ragione più profonda. È perché i comici (quelli che interessano a me e che di conseguenza sono gli unici degni di essere presi in considerazione in una articolo scritto da me, se permettete) sono artisti che hanno guardato la tragedia in faccia e hanno deciso di non arrendersi ad essa. L’hanno anzi plasmata, trasformata per «portare sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte». E questa, a parte le parole di De André, è una banalità, direte voi. Eh, mica tanto, vi risponderei io. Ma lasciatemi aggiungere: il comico non passa la mano nella grande missione dell’artista di portare un senso, delle risposte, o un accenno di significato nelle nostre vite di per sé piuttosto scialbe e ripetitive. Anzi, egli è il primo a farsi baluardo del “messaggio universale da recapitare”. Anche perché suscitare il riso richiede la ricerca di trigger nascosti molto in profondità nello spettatore, né più né meno che suscitare il pianto. No, il comico ci parla, e ci consegna la sua verità, il suo punto di vista, la sua weltanschauung. Ma ci consegna questo bel pacchetto già minato – meglio, “autominato” – dall’interno. Il germe del dubbio, contenuto nell’ironia, va a mettere in discussione il messaggio recapitato col quale egli stesso viaggia. E l’autore dello stesso (messaggio) ci suggerisce all’orecchio: «Ecco, secondo me è così. Oppure anche no. Potrebbe anche essere vero il suo esatto contrario. Scegli tu, io ho da fare». Questa, questa è la magia del comico, dell’ironia. Questo è quello che mi ha sempre trainato violentemente tra le fila dei clown.
Sono un comico, e mi contento di essere un comico, e se non lo fossi mi ritroverei talmente spaesato che probabilmente finirei per essere comico anche mio malgrado. Spesse volte, durante una “prova generale col pubblico” di quelle che si fanno dopo mesi di lavoro chiusi in teatro e per la prima volta si mostra il risultato a occhi esterni, osservando come una scena che faceva ridere nella mia testa poi non suscitava nemmeno un sorriso (o viceversa, qualcosa che io credevo quasi accessorio suscitava scrosci di risate) mi sono ritrovato a chiedermi tra me e me: ma quelli che fanno spettacoli dove non si ride… come fanno a capire se una replica sta andando bene? E questa domanda, che suona così paradossale e quasi infantile, pian piano alle mie orecchie sembra sempre più plausibile. La risata è un termometro immediato, la vasta platea non la può fingere, l’andamento di uno spettacolo è costantemente monitorato dall’onda di energia comica che rimbalza dalla scena alla sala e viceversa. Si può dire di essersi tanto commossi, dopo, e magari non è vero, o si può fingere che il tema dello spettacolo ci ha interessato moltissimo, dopo, e magari non è vero, ma se per un’ora e mezzo non ha riso nessuno, non si può certo fare credere il contrario al performer che è appena sceso dal palco. Ovviamente, questo non significa che uno spettacolo che fa ridere abbia successo in automatico. Io faccio ridere, per esempio, molto ridere, eppure non sono mai stato di successo. Ma qui si aprono altre biforcazioni del discorso di cui per ora poco ci cale.
E dunque, ritorniamo alla teoria. Ho detto di come ho capito lungo il percorso che ciò che mi interessa sono le verità “autominate”, i messaggi che contengono in sé il germe ironico che li distruggerà non appena recapitati. Bravo no? Un bel discorso, ok. Ma cosa vuol dire? Come faccio ridere, io? Su cosa? Con che strumenti? Con quali meccanismi?
Dunque, anzitutto, onestamente, non so se sono la persona più adatta per condurre questo determinato tipo di autoanalisi, ma proviamoci.
C’è una cosa, un aneddoto da cui vorrei partire. Ai tempi in cui successe ovviamente non mi significò granché (anche perché era il 2002, mi sembra, avevo 23 anni e la mia carriera nel teatro doveva ancora iniziare), ma, pur nella sua totale insignificanza apparente, devo dire che mi sono ritrovato a ripensarci più di una volta, negli anni a venire. Detto aneddoto mi coinvolge solo in quanto spettatore, quindi nuovamente non è granché per parlarvi del mio modo di far ridere, ma tant’è, mica mi pagano per scrivere questo articolo, quindi vi dico quello che mi fa più voglia dirvi e non vi lamentate troppo, su.
Tanti e tanti anni fa, esisteva dalle mie parti un Festival di musica meraviglioso chiamato Arezzo Wave. Grazie a quel festival ho potuto vedere esibirsi, prima di aver compiuto i 25 anni, artisti del calibro di Sonic Youth, Residents, Moby, Cypress Hill, Nick Cave, Tricky, Joe Zawinul, Mercury Rev… e tutto questo gratis. Come se non bastasse, alla selezione musicale, nelle ultime edizioni della kermesse, era stata accoppiata una selezione di comici al pomeriggio, chiamata CabaWave. Vi vorrei parlare qui dell’esibizione dei Pali e Dispari. Ve li ricordate? Duo milanese di comici “da Zelig seconda ondata”, di grande successo nei primi anni del Duemila. Bene. Ora, i Pali e Dispari, bontà loro, facevano parte di una grande squadra di comici che io in quegli anni fingevo mi piacessero, perché piacevano a tutti. Lo so, non giudicatemi. «A vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si hanno in testa a quell’età». Per il quieto vivere dicevo anche io «Eh sì son veramente dei grandi», e poi mi andavo a riguardare le vhs con le puntate registrate di Avanzi e Tunnel. Ma a parte fare dell’assurda terapia di gruppo con voi lettori sul mio desiderio di essere parte del branco a vent’anni, diciamo che ho fatto questa premessa solo e soltanto per farvi capire che andai all’esibizione del duo comico senza grandi aspettative (ovviamente), e preparandomi a dover far finta di ridere per tutto il tempo. Invece risi, per davvero, e moltissimo. Perché? Cosa era accaduto? Presto detto: i radiomicrofoni dei performer avevano dei problemi, e tutti i quaranta minuti previsti per la loro esibizione furono interamente incentrati su questo fatto. I due, da scafati professionisti, non avevano proseguito nel loro copione testardamente ignorando la difficoltà, ma si erano calati perfettamente nel “qui e ora” improvvisando insieme al pubblico che non sentiva le voci, o le sentiva a tratti, e partecipava attivamente al tentativo di risoluzione del problema. Risultato finale, dei “tormentoni” studiati a tavolino non se n’era vista nemmeno l’ombra, e sul palco c’erano persone, per così dire, in mutande, a nudo, in tutta la loro traballante umanità. Lì per lì non me ne resi conto, ma questo accadimento stava lavorando dentro di me e plasmando il mio gusto futuro: la comicità come gesto in cui attore e spettatore si prendono a braccetto, accettando di essere entrambi poveri esserini limitati, in balia di ogni tipo di possibile contrattempo (manco c’è bisogno di chissà cosa, bastano dei semplici radiomicrofoni ad archetto che non funzionano), e procedono insieme verso l’ineluttabile destino che li accomuna. Sto leggendo troppo tra le righe di una sfortunata esibizione di due cabarettisti ormai dimenticati? Può darsi, ma non credo sia un caso se poi nel mio teatro (per esempio) io non cerco mai di mascherare i miei difetti (sono piuttosto grasso, tanto per dirne una, e se posso metto la cosa in risalto), o se provoco sempre il pubblico alla risposta per vedere cosa succede e costruirci sopra delle parentesi di improvvisazione… o se non uso mai i radiomicrofoni ad archetto.
(quest’ultima è ovviamente una battuta)
(Lo so che sembra andare in contraddizione con tutto quanto è scritto sopra, ma è anche questo il senso del comico, no? Il “contrario” di pirandelliana memoria. Tipo.)
(vabbè certo se poi le spieghi è chiaro che le cose fanno meno ridere)
Comunque.
Questo significa forse dunque che non mi fa ridere (o non mi interessa, o non mi preoccupo mai di) niente di copionato, predeterminato, deciso a tavolino? Si riscontra forse in tutto questo la mia own personal versione della famosa differenza tra “atto” e “azione” di cui tanto parlava il buon Carmelo Bene? Sicuramente no. Ma andiamo a vedere, e procediamo con ordine.
Dunque, come abbiamo visto, sicuramente mi fa ridere (e mi interessa – o se preferite “mi interessa e quindi mi fa ridere”) la fragilità, l’incertezza, l’umanità disvelata. Insomma, nuovamente, quasi si potrebbe dire, siamo ancora sul concetto di “opposto della troppa sicurezza”. Cioè l’assunto di base da cui ho iniziato questo scritto. Ok, e mettiamolo da una parte. Stip ca trov.
Mi fa ridere (e mi interessa) la spontaneità, dunque mi fa ridere (e mi interessa TANTISSIMO artisticamente) l’improvvisazione. Questa è una cosa che condivido con moltissimi dei miei collaboratori – o per meglio dire, compagni di percorso –, siano essi miei affini nel campo della comicità “territoriale” toscana come Massimo Bonechi e Andrea Kaemmerle, o piuttosto nel campo dell’assurdo e del nonsense come Stefano Cenci, o ancora del post-drammatico più “borghese” come Lucia Calamaro… ecco, a nessuno dei testé nominati piace ripetere e ripetere il copione per così come è. Le battute cambiano, vivono, di sera in sera, mutandosi anche drasticamente. Ricordo distintamente un momento di prova e ricerca con la Calamaro (a buon diritto ritenuta una delle maggiori drammaturghe viventi in Italia), in cui, nei panni di regista, notando che avevo ripetuto due volte la battuta nello stesso modo mi apostrofò: «Riccardo, che sei venuto a fare oggi? A recitare? Sei venuto a farmi la recitina?». Eppure erano parole sue, quelle che stavo ripetendo. Ma per lei, non sentendole “vive”, erano, giustamente, parole fredde e inutili. Cioè parole morte.
Del resto, l’improvvisazione, il rigiramento della battuta, la sperimentazione real time è figlia diretta di quella fragilità e incertezza di cui sopra: il performer si mette volontariamente in una condizione precaria (e il pubblico in qualche modo lo sa, o per meglio dire, lo sente. Altrimenti, pensateci, perché una cosa improvvisata fa sempre ridere, e se poi la si mette a copione e la si canonizza 99 volte su 100 non fa ridere più? Sembra una banalità, ma mi pare una domanda più che lecita) e davvero non sa se riuscirà nemmeno ad arrivare in fondo alla frase, perché dipende dalla sua presenza nel momento, e non più da un ripetersi scelrotizzato di parole mandate a memoria mesi prima.
Ed ecco dunque, la presenza, l’esserci. E qui si apre una pagina infinita di dibattito, volendo (che, sempre volendo, mette anche un punto sulla questione tanto chiacchierata ultimamente del “teatro in streaming” o “teatro in video”. Sono esse forme di teatro accettabili? No. O meglio sì, se sono fatte bene, ma non sono e non possono essere chiamate “teatro” proprio perché escludono la presenza fisica del performer e del ricevitore… ma davvero lasciamo perdere ché non è questa la sede e fin troppa polemica è stata fatta a riguardo), poiché è proprio l’essere, l’esserci insieme, che fa la differenza nella mia arte. È un patto mutuato.
«Ciao, spettatore. Siamo qui insieme. È stasera, siamo in questo bel teatro, e sono le ventuno. Tu sei seduto scomodo forse, io non dovevo mangiare tutti quei minipanini all’aperitivo perché ora mi sento gonfiotto, eccoci, siamo qui io e te e quello che io dirò e farò è solo per noi, e ti assicuro che è diverso da quello che ho fatto ieri e sarà diverso da quello che farò domani».
Non so se riesco a non farlo suonare banale, quindi mi spiego con un altro esempio che mi vede sempre nei panni di spettatore e non di artista attivo. Forse avrete capito che non mi piace parlare di me e del mio modo di vedere le cose del mestiere, il che è un bel paradosso per uno innamorato di sé stesso al mio livello, e che (credo) il mondo intero vede come un narciso egoriferito senza speranza. Pure, è così. Ma dicevamo, l’esempio.
Perché quando vado (andavo?) ai concerti, la parte che mi emoziona di più è costituita da quello che dicono i musicisti e i cantanti tra una canzone e l’altra? È una cosa che mi mette molto in difficoltà, perché molto spesso quello è il momento in cui le persone che ho intorno scelgono di parlarmi per dirmi tutte delle cosine loro: «Bello no?», «Ti stai divertendo?», «Mi passi lo zaino?», no, no, NO, zitti mi dovete stare tra una canzone e l’altra, perché QUELLA è la parte che cambia tutte le sere. Le canzoni possono venire più o meno bene, eseguite con più o meno perizia, ma le note e le lyrics sono una scienza esatta (a meno che non si sia ad un concerto jazz o art rock), mentre ciò che viene detto sul momento è un qualcosa di unico e irripetibile. «È solo per noi, spettatore». Spero di essere riuscito a spiegarmi. Di esempi a riguardo, peraltro, ne son piene le fosse. E non sarò certo io a doverli sciorinare qui.
Tutte queste cose elencate finora però, mi si dirà, sono il come, non il cosa.
Cioè, ok, fragilità, improvvisazione, presenza, ma, o Goretti, di cosa accidenti parlano le tue pièce? Che dice, insomma, questa tua arte, questo tuo teatro?
Quali i temi?
Ho capito, grazie, basta così, adesso rispondo.
I temi che mi sono cari (e anche di questo mi sono accorto cammin facendo, e NON sulla base di un progetto predeterminato su carta, ma SEMPRE e SOLO facendo quello che mi andava di fare quando mi andava di farlo. Davvero. Sono serio. Trovo che sia una conditio sine qua non per essere in pari con sé stessi. E non c’entra nulla il sistema, o la ribellione ad esso, o il non allineamento, credetemi. Non sono James Dean. E si vede, direte voi. Vergognatevi, questo è body shaming.) (avete fatto caso anche a quante parentesi apro? Lo sapete che è anche un problema nella vita reale? Quando mi sentite parlare, tipo nelle interviste, incespico così tanto solo perché appena metto in fila tre parole mi vengono in mente mille incisi che potrei infilare tra esse e il verbo della frase, che si allontana sempre di più, finché la frase non ha più senso alcuno e non si capisce più nulla) (Solo in scena quando improvviso questo problema scompare, lì vado quasi sempre dritto al punto, se casomai servissero altre prove che QUELLA è la mia vera vocazione artistica) (sta di fatto comunque che non c’è verso a questo punto che voi vi ricordiate quale era l’inizio della frase che sta venendo continuamente interrotta da questa valanga di cazzate forse superflue, onde per cui lo ripeterò alla fine di questo ennesimo inciso, per comodità e per non farvelo ricercare nelle righe addietro, così potrete leggere di fila la fine di questa parentesi e proseguire finalmente nel “fuori parentesi” e la frase sarà comunque di senso compiuto, ok? Avete capito? Allora vado eh. Pronti?… Dunque: I TEMI CHE MI SONO CARI) sono proprio quelli che da quelle caratteristiche del “come” figliano spontanei. Dalla fragilità figlia la miseria umana, dall’improvvisazione figlia il nonsense, o comunque lo squilibrio, dalla presenza figlia la brutale verità. Immagino che anche a sto giro senza esempi non si capisca proprio bene bene cosa voglio dire. Non ci sono problemi, andiamo a chiarificare.
Perché dovrei ridere della miseria? Perché sotto sotto, so che mi appartiene. Tutto è pena al mondo, senza necessariamente arrivare all’estremo accorato “tutto mi fa male” di Kurt Cobain nella suicide note. Da che mondo e mondo (e dàgli) è meglio sentire rabbia che pena, specie per sé stessi. Ma la rabbia è la negazione della pena, più interessante è il suo superamento, o il suo “quadrato” se vogliamo: la compassione. E se la compassione è il “quadrato” della pena, a mio modo di vedere, il riderci sopra è il “cubo”. Non è un caso se dallo slapstick in poi i più grandi comici della storia recente abbiano messo in scena solo disgrazie e inceppamenti. Ci siamo mai chiesti perché? Ecco, secondo me il motivo è da rintracciarsi in quella filiazione diretta della miseria umana (e, ampliando neanche di troppo il raggio, ovviamente anche della sua condizione esistenziale) dalla fragilità dell’esecuzione. Dal dubbio. Ti faccio ridere su questa cosa, non essere come me, io sto peggio di te, ma sappi anche che potresti stare come me, anzi lo sai che potrebbe benissimo succedere anche a te. Quale è la soluzione? La medesima: prendiamoci a braccetto. Non credo sia un caso che uno dei miei ultimi spettacoli da autore (insieme al già citato Stefano Cenci e al cantautore siciliano Lorenzo Urciullo in arte Colapesce) si intitolasse «Stanno Tutti Male».
Perché dovrei ridere del nonsense? O comunque perché dovrebbe interessarmi? Semplice, il mondo che abbiamo per le mani è NOIOSO. Come i bambini giocano inventandosi storie di ogni tipo (perché lo intuiscono da subito che il posto dove sono capitati risulta piuttosto limitato e ripetitivo. Specialmente ripetitivo. Molto ripetitivo), così i grandi sfuggono da questa grande mordacchia tramite il fantastico, il poetico, il romanzesco. E, in campo comico, soprattutto il nonsense. O comunque il filo-nonsense, che è ancora più la mia cup of tea. Sto scherzando? Sto dicendo sul serio? Sto cercando di farti ridere o piangere? Non è strano che tu non sappia come reagire? Perché vuoi per forza essere condotto a una reazione piuttosto che lasciarti andare alla sincerità del tuo stesso corpo che cambia nella forma e nel colore? Voglio dire: siamo così abituati a trattenere le risate in vita (troppe, troppe sono le situazioni in cui non si può ridere no? E non fatemi nemmeno entrare in argomento “su cosa si può scherzare e su cosa no”, perché lì davvero divento violento, poi il discorso non finisce più e chissà quanti cazzi di parentesi mi tocca aprire) che almeno nell’arte dovremmo poter essere autorizzati a reagire come ci pare, o no? Ecco, pare di no. Comunque, visto che non è scontatissimo che il nonsense sia una filiazione dell’improvvisazione (per quanto i cadaveri squisiti dovrebbero insegnarci che), voglio precisare che infatti Bergonzoni non mi ha mai fatto ridere. Il nonsense calcolato è un nonsense. Di quelli che però non fanno ridere. Now that’s a catch 22. Go figure.
Perché dovrei ridere della brutale verità? Qui ovviamente c’è da fare un distinguo. Non è che la brutale verità fa ridere di suo. Ce n’è di moltissimi tipi, di brutali verità. Se no facciamo l’errore che il comico inglese Simon Amstell imputa alla frase «Comedy is tragedy plus time», che lui saggiamente vorrebbe correggere in «Comedy is tragedy plus time PLUS JOKES», per evitare di trovarsi a incappare in terribili tragedie e semplicemente fermarsi ad aspettare che la cosa diventi comica. Per quanto. Ma comunque. Per rimanere nel campo degli stand up comedians, vi/ci/mi viene incontro un esempio davvero a fagiolone nell’ultimo spettacolo del grande Louis CK (Sincerely, Louis CK), ossia il primo monologo che egli abbia prodotto nell’era POST scandalo sessuale che lo ha travolto. Sicuramente la parte più esilarante dell’intero set è quella in cui il vecchio Louie affronta proprio i fatti che lo hanno portato quasi sull’orlo della rovina finanziaria (e umana). Perché? Perché è brutale verità, figlia della presenza: sono io, sono proprio quello dello scandalo #metoo, non facciamo finta di no, voi lo sapete, io lo so, accidenti, parliamone allora. Pronti? Via!
Ma la verità, ho scoperto, mi interessa anche quando NON è così brutale. Certo, a volte non fa esattamente ridere, come abbiamo già detto, ma ugualmente mi interessa. Da qui, credo, prende le mosse la mia passione per la biografia. E se avete seguito il discorso finora (e questo è un grande SE), vi immaginerete che nel mio teatro possono darsi solo e soltanto biografie di persone qualsiasi. Persone straordinarie nella loro quasi totale ordinarietà. O meglio, persone praticamente ordinarie che l’occhio (e il cuore) dell’artista rende straordinarie. Altrimenti l’artista che ci sta a fare? Troppo comodo raccontare la vita di Frida Kahlo, o di Steve Jobs.
E dunque, riassumendo, il mio rapporto con il comico (che è come dire “il mio rapporto col teatro”, ma percaritàdiddio questo sillogismo vale solo e soltanto per me) si va così componendo.
Sempre ribadendo che la presente è un’analisi “a posteriori”, a cose fatte, a bocce ferme – bocce ferme AD OGGI ovviamente, magari domani mi sveglio e sono Michelangelo Antonioni o Terrence Malik, chi lo sa. MAGARI davvero, da un certo punto di vista (specie quello economico).
Comunque, ecco:
Sono un comico “fragile”, mai assertivo, un grande bofonchiatore se vogliamo, ma ho la mia chiara, netta posizione sul mondo e sulle sue piccolezze, e mi piace riderne e farne ridere perché, di base (come tutti, credo, o se non altro come tanti) ne ho infinita paura e sgomento. Amo parlare delle persone alle persone, quasi mai mi lancio in tematiche di impegno civile, o se sì, lo faccio sempre tramite storie piccole («La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano»). Nel caso in cui io non stia parlando di vite umane troppo umane, passo all’estremo opposto, e divento talmente astratto che, si può dire, non parlo di niente («Vero, parlo di sogni»). Il rapporto che si instaura col pubblico è quello di mutua confessione, sto parlando di te, spettatore, ma è come se anche tu stessi parlando, e stessi parlando di me, con me. Insomma, stiamo entrambi parlando di noi, anche se tu (ci si augura), per il momento stai zitto. Improvviso, e improvviso tanto (e improvviso bene, a quanto pare, visto che è praticamente l’unica cosa in cui mi sono davvero specializzato, e, come tutto, anche in questo caso è solo questione di esercizio), né mi pare possibile fare diversamente, e quando non posso farlo un po’ soffro e cerco assurdamente di lasciarmi COMUNQUE spazi di libertà all’interno della battuta (come sa bene, forse in parte disperandosi, il giovane regista Liv Ferracchiati che recentemente mi ha portato alla Biennale di Venezia nei panni del maestro elementare Platonov by Anton Checov). Quando sono in scena sono lì, proprio lì, e cerco rapporto, ve ne sarete accorti anche da questo scrittino, nel quale (figurati) cerco rapporto anche qui: parlo direttamente, e davvero “parlo come mangio”. Tanto. E di tutto. E disordinatamente.
Ciò che non rientra in questo quadro, ecco, mi interessa poco. E se so spiegarmi abbastanza male anche su ciò che mi interessa, immaginatevi su ciò che mi annoia. All’alba dei 42 anni però (e 42 è SEMPRE la risposta, lo sappiamo bene) posso dire di essermi in qualche modo “arreso” all’esser fatto così, e guardandomi indietro aver compreso che questi sono i tratti salienti del mio fare artigianale. «Del doman», come sempre, «non v’è certezza».
«E questo è tutto quello che ho da dire sull’argomento».
(spero abbiate apprezzato la doppia citazione a fine articolo: Lorenzo de’ Medici e Forrest Gump. Roba forte eh?)
(e ovviamente le parentesi)
(ma ormai lo sapete)
Riccardo Goretti
Riccardo Goretti, classe 1979, è attore e autore di teatro. Dapprima fondatore della compagnia Gli Omini, prosegue dal 2011 come solista con spettacoli firmati da lui (i primi 4 raccolti nel 2018 da Titivillus Editore nel volume retrospettivo “Una vita straordinaria – il teatro di Riccardo Goretti”) o con collaborazioni con grandi nomi del teatro e della musica contemporanei (Lucia Calamaro, Liv Ferracchiati, Silvio Orlando, Colapesce, Stefano Cenci, Giorgio Rossi e molti altri).
Ogni informazione su di lui all’indirizzo www.riccardogoretti.com