Far ridere una città che muore. Frullatorio

di Frullatorio

Live di Frullatorio, ph Beatrice Donà
Live di Frullatorio, ph Beatrice Donà

All’inizio era Mestre
(David Angeli)

All’inizio era Mestre, perché è necessario partire con la bellezza. Frullatorio ha mosso i primi timidi passi tra la tangenziale e il MOSE (Modulo sperimentale elettromeccanico noto anche come buco del valore complessivo di circa sei miliardi di euro), nato da elementi costretti alla satira dalla dura vita nelle periferie del Paese e dalla formazione primaria ricevuta in luoghi dove il cinismo viene mescolato al primo bicchiere di cabernet, all’età di quattro anni. Quest’area geografica mitologica è il Nord-est, X regio per i romani, comprendente un ameno Trentino ricoperto di pascoli erbosi, eretici e mucche dal muso umido; un laborioso Veneto decorato di capannoni e statali scandite da rotonde coltivate a Prosecco e un piovoso Friuli dove la media delle conversazioni non supera i trecento caratteri spazi inclusi e l’Istria rimane una ferita aperta dove la benzina costa meno.
Questi personaggi, iniziati allo spettacolo dal vivo in un’enorme periferia satellite della nobilissima città di Mestre e distante da questa circa otto chilometri, nel 2015 decisero di inventarsi l’ennesimo buon motivo per rinviare l’incontro con il mondo del lavoro come inteso nelle grandi pianure del Nord.
Con questo unico obiettivo si incontrarono nel cuore pulsante di Mestre: via Torino, nota allora per ospitare la sede centrale del Gazzettino di Francesco Gaetano Caltagirone, già suocero dell’On. Pier Ferdinando Casini. La narrazione dell’epoca la vedeva destinata a divenire la Soho di quella che, nella periferia distante otto chilometri, veniva definita con riverenza Terraferma. Per partire con il piede giusto, i ragazzi avevano scommesso contro questo radioso avvenire, inanellando la prima vittoria della loro esistenza. Ben più luminoso futuro attendeva la bella Mestre, che oggi non vanta nessuna Soho ma è la principale piazza di spaccio di eroina in Italia. Altro primato raggiunto dal ricco Nord-est.
In via Torino, che grazie agli oppiacei (assunti) può ricordare Amsterdam, c’era un appartamento incastrato tra un negozio di autoricambi, un semaforo e un enorme centro congressi dall’altisonante nome di Laguna Palace (sì, c’è anche una laguna da quelle parti, ma niente di serio). L’appartamento era stato chiamato Flat e conteneva nel nome il seme millenaristico di una riqualificazione che mai sarebbe arrivata, nei bagni c’erano della deliziosa carta igienica lilla e i neon viola per non trovarsi le vene ed era un club in cui si organizzavano apprezzatissimi concerti ed eventi culturali indipendenti di spessore.
Era l’estate dei primi mesi di regno di Luigi Brugnaro, grande amico di Mara Venier, e nella gioiosa Mestre (periferie comprese) gli spettacoli dal vivo boccheggiavano perché faceva caldo (ma più che altro era l’umido). Per ovviare al problema i ragazzi, con straordinario senso dell’innovazione in periodo pre #FridaysForFuture, decisero di inventare un live show satirico periodico estivo, con i condizionatori a palla e un sacco di frullati di frutta fresca. Un’idea straordinaria, come andare a fare la spesa con la fame. Fu così che nell’appartamento in via Torino si riunirono i fondatori del Flat, insieme a un poeta e una compagnia teatrale, quasi tutti accomunati dall’essere sempre vissuti lontano da lì, in quella periferia di Mestre distante circa otto chilometri, che poco aveva da spartire con via Torino. Volevano creare un format che ospitasse le realtà più innovative del territorio metropolitano e le demolisse, dimostrando la futilità dell’associazionismo in Veneto, dove quello che conta sono le imprese e un PIL alto da far pesare al Sud. Data la presenza dei frullati di frutta fresca come principale caratteristica sponsor del live show, il poeta propose il nome Frullatorio, votato all’unanimità sorseggiando sofisticate IPA in bottiglia. In nessuna puntata di Frullatorio della spettacolare stagione passata al Flat, nessuno avrebbe mai bevuto un frullato. Mai.
Passò il tempo, il Flat chiuse per contingenze legate alla mancata transizione di via Torino nella Soho della Terraferma, fallimento orgogliosamente pronosticato da tutti in più occasioni. Fu così che compagnia, poeta e musicisti decisero di tornare alle origini spostando Frullatorio in un locale di cui nessuno ricorda il nome nella periferia di Mestre da cui provenivano, distante circa otto chilometri: una città satellite costruita in mezzo alla laguna di cui sopra. Era un posto davvero terribile quello, un’enorme palafitta di legno e pietra attraversata da decine di nauseabondi canali e minacciata da giganti d’acciaio galleggianti, racket di ogni genere, almeno quattro tipi diversi di mafia italiana e un numero imprecisato di varianti straniere. Erano tornati a casa.
Negli anni che portano al presente il progetto si è sviluppato ed è maturato, non ha portato alla chiusura solo il Flat ma buona parte delle associazioni ospitate e annovera tra i suoi goal implosioni di collettivi, rischio di fallimento di progetti per taglio fondi, morte e una barca affondata. Era piuttosto grossa la barca, lunga ventun metri e larga cinque. Attualmente Frullatorio abita presso gli spazi di Argo 16, nella splendida cornice che il live show ha sempre desiderato e finalmente conquistato: Porto Marghera.


Cronaca di uno spettacolo che non vedrai mai
(Jacopo Giacomoni)

Al Grod Festival del 1974 debuttò una performance del collettivo anarco-situazionista dei Bennacør dal titolo Cloyne — che è poi una vecchia parola di origine scandinava che sta per “campagnolo, rozzo”, dalla quale deriva l’attuale “clown”. I cinque performer, vestiti appunto come dei contadini straccioni, improvvisavano sul palco senza alcuna scenografia o oggetto di scena e apparentemente senza canovaccio. La performance fu ripetuta per tutte e due le settimane del festival e già dal secondo giorno alcuni spettatori si accorsero di quello che sembrava essere il principio regolatore dello spettacolo, l’unico caposaldo drammaturgico non soggetto a improvvisazioni.
Il primo giorno l’esibizione era durata all’incirca trenta minuti, il secondo a malapena dieci. Uno spettatore che aveva assistito a entrambe si era accorto che erano terminate quando dalla platea si era sollevata una risata. Tornò così anche il terzo giorno e, per mettere alla prova la sua intuizione, emise una sonora risata poco dopo l’ingresso in scena dei performer. Questi, senza darvi troppa importanza, interruppero immediatamente quello che stavano facendo, si voltarono e abbandonarono il palcoscenico. Gli spettatori attesero per un po’, poi lentamente lasciarono tutti la sala e il sipario si chiuse. Per quel giorno Cloyne era andato in scena.
La voce si sparse rapidamente e a partire dalla replica successiva il principio venne messo alla prova in diversi modi. All’inizio ci fu il tacito accordo tra gli spettatori di non ridere mai, per nessun motivo. La performance si trasformò così in un tour de force: gli attori, che non sembravano affatto turbati dalla sfida, arrivarono a stare in scena per diverse ore. Una volta ci fu un signore che, superati i centottanta minuti, rise per pietà verso gli attori e venne insultato dagli altri spettatori; un’altra si arrivò addirittura alla soglia delle sei ore, finché a una coppia di ragazzi in ultima fila, presi in tutt’altra attività, non venne la ridarella. C’era persino chi andava a vedere Cloyne portandosi le parole crociate o un cuscino per dormire. Qualcuno credeva che prima o poi, in un punto lontano di quell’improvvisazione eterna, sarebbe successo qualcosa di teatralmente fondamentale, qualcosa di così oggettivamente bello da valere tutta l’attesa.
Va detto che gli attori non facevano nulla per provocare il riso. Non avevano il physique du rôle dei clown, non rispettavano alcun tempo comico e non c’erano gag, equivoci o giochi di parole di alcun tipo. Non ammiccavano al pubblico (a essere sinceri non lo guardavano mai) e non erano imbarazzanti. Non si poteva ridere, insomma, nemmeno del loro tentativo di essere seri.
Tutto ciò non faceva che facilitare il compito del pubblico: potenzialmente si poteva far durare lo spettacolo per giorni interi. Eppure, verso la settima o ottava replica, ci fu un cambiamento inaspettato.
Uno degli spettatori — che ormai accorrevano solo per un sadico bisogno di dilatazione temporale — non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere dopo i primissimi minuti dello spettacolo. A ridere davvero, di cuore. Il riso, si sa, è contagioso, e in breve tutto il pubblico prese a sghignazzare mentre gli attori facevano ritorno in camerino.
Nelle restanti repliche gli equilibri si invertirono del tutto: anche se il collettivo non aveva cambiato nulla nell’atteggiamento o nella messa in scena, ora gli spettatori faticavano a restare seri. La gente, pur presentandosi conscia del fatto che nello spettacolo non ci fosse assolutamente niente di comico, poco dopo l’ingresso in scena dei performer lacrimava dal ridere e si tratteneva la pancia dal dolore. Non riuscivano a stare seri, nemmeno a fingere di essere seri.
Le repliche non superarono più i cinque minuti di durata e così gli organizzatori del festival decisero di aumentarne il numero. I Bennacør arrivarono ad esibirsi per tre, quattro, cinque volte al giorno. Gli spettatori, nonostante (o forse proprio perché) si predisponessero a non avere nulla di cui ridere, finivano per assistere al non-spettacolo più divertente della loro vita. Gli attori si presentavano in scena, la gente attaccava a ridere, gli attori tornavano in camerino, lo spettacolo finiva.
All’ultima replica dell’ultimo giorno di festival, alcuni spettatori cominciarono a ridere prima ancora che si aprisse il sipario. La risata si propagò per tutta la platea e ci fu chi sostenne che durò più di trenta minuti. Trenta minuti di un’unica, spontanea risata collettiva. Il sipario non fu aperto e gli attori non lasciarono mai il camerino.
Il giorno seguente i membri del collettivo pubblicarono un comunicato: dichiaravano di aver messo in scena lo spettacolo perfetto e che non avrebbero mai più fatto teatro. Nell’ultima riga annunciavano il loro scioglimento.


Questo testo è arrivato alle quattro del mattino su whatsapp, ore dopo la foto di un bicchiere con la didascalia è whisky, stanotte arriva il pezzo
(Alessandro Burbank)

Faccio un po’ fatica a scrivere di Frullatorio perché rappresenta la città che ho lasciato per cercare fortuna altrove. Fortuna che ho trovato solo in parte ma che pure quella mezza parte serve a poco quando si è lontani da un certo tipo di affetti longevi e dalla laguna. A Venezia ho lasciato mia madre e Frullatorio. Non riesco a scindere caratterialmente le cose belle dalle persone con cui le faccio. I componenti di Frullatorio sono amici, una specie di banda che non accetta compromessi politici in una città dove vige il solo business (e il potere) del turismo e da questo viene ridotta a museo a cielo aperto e anzi le iniziative come Frullatorio vengono osteggiate perché creano massa critica.
Quelli di Frullatorio sono amici che hanno tutte storie molto italiane, per dirla alla Stanis Larochelle, professionisti e studiosi che per fare quello che gli piace compiono più sacrifici del dovuto. Gente che non ha il culo parato e se lo rompe per portare a tutti qualcosa di inedito e unico.
Non immaginatevi Frullatorio come un musical di riders di Deliveroo a Broadway che ballano e cantano coi loro zaini quadrati pieni di panini e pizze e coca-cole rovesciate, ma non si può pensare a Frullatorio senza sapere che chi lo fa non lo fa pagato quanto dovrebbe esserlo o fornito di strumenti e spazi adeguati, lo fa in un contesto di precarietà dove ciascun elemento porta la propria armatura più tipo i Cavalieri dello Zodiaco, che sul palco si trasformano in fortissimi (divertenti e cinici) condottieri. L’obiettivo comune è far vivere una città morta. (L’obiettivo del Comune di Venezia invece è fare l’avvoltoio).
Grazie a Frullatorio quando torno a Venezia sia sopra che sotto il palco, sia davanti che sopra il bancone, mi sento accolto e accettato, è uno spazio diffuso di bene all’interno del quale gravitano giovani personaggi eccellenti del nostro patrimonio artistico nazionale di matrice triveneta, mentre all’esterno si è formata una comunità che oltre ad essere un pubblico entusiasta è la cosa più simile a come mi immagino dovrebbe essere in futuro Venezia, che ricordo essere la città più bella e unica al mondo; piccolo salto col drone per dire che Frullatorio sta lì, si svolge nei campi, si organizza nei bacari (le osterie veneziane), si raggiunge attraversando calli e prendendo vaporetti. Per quanto sia uno show cittadino Frullatorio è anche l’unica realtà, tra le poche rimaste, a fare esercizio di cittadinanza attiva e ritrovo, grazie alla satira e allo spettacolo, avviene un guardarsi in faccia e contarsi che nemmeno le sagre fanno più come un tempo, quel tempo che ha fatto arrivare a noi Venice, Venedig, مدينة البندقية, Βενετία, Venecia, Венеция, 威尼斯 ecc.
Sorge retorica qui la domanda perché far ridere le persone? Cioè perché far ridere nonostante la realtà?
Mettiamo che la realtà sia Brunetta. Che senso avrebbe la figura del comico stando così le cose. Tra l’altro l’internet è parecchio generoso con il neoministro della pubblica amministrazione, dato che, per galanteria, viene offeso per la sua altezza.
Dunque non si ride solo perché una cosa fa ridere, se la battuta è costruita bene ecc ma si ride anche con le persone giuste, la risata è come l’alcol. Se lo condividi sei un grande, come i Veneti i Friulani e i Messicani, appartieni all’ordine dei santi bevitori. Se ridi da solo stai bevendo da solo, ti stai masturbando, ti stai perdendo l’altra metà del gaudio nel mal comune.
Ora, Brunetta, la masturbazione, i Messicani, il musical Cats fatto coi Rider al posto dei gatti; nessuno sa bene dove stiamo andando, una risata è una destinazione illuminata in mezzo al caos. E a Venezia c’è Frullatorio che rappresenta meglio di tutti questo assurdo concetto.


Vengo dal Friuli, dove fanno i terremoti
(Marco Tonino)

Quand’ero piccolo raccontavo le barzellette. Nel mio paesino del profondo Friuli ero considerato un figlio d’arte: mio padre era un grande barzellettiere, la cui fama si estendeva a tutta la comunità collinare friulana e forse oltre. Possiedo delle videocassette di matrimoni in cui viene reclamato sul palco dagli invitati come un novello Barabba e la band mortificata e ridotta a suo gruppo spalla.
Quando gli amici di mio padre mi incrociavano per strada, esordivano con un «che forte che è il piccolo», con un sorriso sardonico che attendeva solo dicessi qualcosa, qualsiasi cosa, tanto avrebbero riso comunque ribadendo soddisfatti: «è proprio forte».
E così, quando a dieci anni mi ritrovai a Telefriuli, nel pubblico parlante di una trasmissione per bambini, capii che era la mia grande occasione.
La conduttrice era la mia ex maestra delle elementari ed ex Miss Friuli, la bionda Gloria. Conservo ancora in un qualche diario la sua foto con quel maglione enorme, i capelli cotonati e una sua dedica sopra. Ma stavamo parlando della mia grande occasione.
Io non ero mai stato in televisione, a differenza di Daniele, che già in seconda elementare il maledetto era andato addirittura in Rai da Sandra Milo. Ma non importa: think global act local. Il Friuli per me non era che un inizio.
«Qualcuno vuole raccontare una barzelletta?». Le parole arrivano dritte al mio piccolo cuore di bambino sospese nel profumo di Gloria, non più solo il nome di un’insegnante con la ricrescita, ma un destino lastricato di fasti che stavo già pregustando.
– Io, maestra.
– Marco, puoi chiamarmi anche per nome ora, qui sono solo una conduttrice.
– Sì maestra.
Certe abitudini non le perdi in un attimo.
Gloria si faceva raccontare sempre prima la storia dai bimbi prima di arrischiarsi nel farli parlare davanti a una telecamera ma: «tu non serve Marco, di te mi fido».
– Sì maestra.
Ero concentrato su altro, era il mio momento.
A dieci anni, per la prima volta in TV, ho raccontato la barzelletta del sordomuto che tenta di comprare un biglietto di sola andata per Treviso, con un cane al guinzaglio.
Quando qualche settimana dopo, la puntata andò in onda, fui davvero sorpreso nello scoprire che ero stato bippato mentre raggiungevo il Climax della barzelletta, una bestemmia con un cane al guinzaglio.
Mia madre mi pregò di non raccontarlo mai a nessuno, vabbè dai, scusa mamma. Mi convinse che avrebbero tanto voluto, ma che per errore non si era registrata la puntata sulla videocassetta. Sfiduciato da mia madre, bandito per sempre da Telefriuli, la mia carriera di barzellettiere è finita nel 1992. Ad oggi, quella di mio padre non conosce crisi.


Venezia è alla fine
(David Angeli)

La nostra fortuna è che secoli fa qualcuno decise di vivere in una laguna per potersi poi lamentare del fatto che ci sono le zanzare tutto l’anno e il clima è umido, come se i Tuareg si lamentassero della sabbia e del blu. La laguna in questione è quella vicino alla meravigliosa città di Mestre, che si dice fondata dal leggendario Mesthle, compare di quell’Antenore che scappò da Troia in fiamme per fondare Padova, provandoci che anche Tito Livio aveva grossi problemi con l’alcool, come tutti noi da queste parti. Un curioso affastellamento di puttanate, invasioni barbariche, ricerca di solitudine e odore di salsedine ha dato vita a un’enorme palafitta in una pozza che nei secoli è diventata piuttosto famosa, roba da (furono) oltre trenta milioni di turisti l’anno. Questa città è completata dalla zona industriale più inquinata d’Italia (gli amici di Taranto potrebbero avere qualcosa da ridire, è giusto, del resto siamo ancora vivi, noi) e abbracciata da un agglomerato ipertrofico il cui piano regolatore è stato steso con uno starnuto sulla mappa dopo aver provato a tirare inchiostro col naso in astinenza da cocaina tagliata col cartongesso dei capannoni. Venezia fa ridere per lo stesso motivo per cui a Charles Aznavour metteva tristezza, perché è un’eterna periferia d’Italia convinta di essere al centro del mondo ma, nonostante tutto, nessuno di noi riesce ad abbandonarla nemmeno mentre affonda (e chi ci prova soffre). L’unica cosa che ci rimane è prenderla in giro mentre muore, e fa davvero tanto ridere.

 

Frullatorio

David Angeli, madrelingua friulana, storico di formazione e giornalista pubblicista. Vive a Venezia e lavora come spia al soldo del Patriarcato di Aquileia, attore, autore, allestitore e receptionist. È tra gli organizzatori del festival internazionale di arti performative Venice Open Stage e ogni sua attività è finalizzata alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione.

Jacopo Giacomoni, trentino, di formazione filosofica presso l’ateneo lagunare, è musicista, autore, attore e dramaturg con diversi progetti all’attivo sul territorio nazionale e oltre. In questa biografia ci teneva a specificare di aver scritto la sua parte dell’articolo prima dell’esplosione del fenomeno LOL su Amazon Prime ma, come i suoi colleghi, ancora non dispone del budget di Jeff Bezos.

Marco Tonino, friulano di paese orgogliosamente terremotato, si forma nel campo delle scienze ambientali conseguendo finanche un dottorato, per poi decidere di proseguire la carriera nelle arti performative. Oltre all’attività di autore e attore, si occupa di organizzazione teatrale. Ambiente e teatro sono le sue due passioni e aspirazioni per il futuro, e niente, fa già ridere così.

Alessandro Burbank poeta veneziano in trasferta permanente a Torino, da anni mescola poesia e performance dando vita a spettacoli che hanno girato l’intera Penisola spesso in autobus, spesso in cambio di vino, a volte di amicizia, raramente di mezzi di sostentamento reale. Autore e performer prolifico, è tra i maggiori esponenti della sua generazione nel settore ma sa anche fare delle ottime polpette.