Perché se l’uomo è l’unico animale che sa ridere, ne approfitta così poco?
di Luca Zacchini
«Non potremmo apprezzare il comico se ci sentissimo isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un’eco. Non è un suono articolato, netto, conchiuso; è qualcosa che vorrebbe prolungarsi ripercuotendosi a poco a poco e tuttavia questa ripercussione non può continuare all’infinito. Può espandersi all’interno di un cerchio largo quanto si vuole, ma il cerchio rimane comunque chiuso. Il nostro riso è sempre il riso di un gruppo».
(Henri Bergson)
Che tristezza.
Caffè senza zucchero per tutti. Sì, amari come la vita. Ma corretti a Sambuca.
Questo è il rituale che precede ogni spettacolo de Gli Omini e racconta molto del nostro rapporto con il teatro, oltre a spiegare la propensione che abbiamo nell’evitare le matinée. Una piccola botta di energia e una dose di stordimento.
Far ridere è sempre stata una nostra prerogativa. Una condanna forse. Ridere una prerogativa e far ridere una condanna. O forse il contrario. O forse una difesa. Nella vita come nella scena.
Tutto fu non chiaro da subito. Il giorno in cui capimmo che fondare un gruppo di teatro era l’unica possibilità per inserirsi nel mondo del lavoro senza impazzire e rimanere nel legale. Era il 2006 e facevamo sul serio, così come faceva sul serio la crisi mondiale. Uno disse che avremmo dovuto mettere le mani nella sabbia della poesia, io dissi che avevo un vaso di sabbia in cantina e andai subito a prenderlo. Un grande vaso di vetro, pieno di sabbia nera. Lo appoggiai in centro tavola e rimase tra noi. L’altro dei tre che eravamo, un paio d’ore dopo, battendo un cucchiaio sul tavolo, urtò un granello della suddetta sabbia uscita dal suddetto vaso. Il granello schizzò in una traiettoria invisibile e andò a sbattere contro il vaso di vetro, che ancorché pieno si crettò, in maniera lenta e netta, in un taglio che lo divise in due in orizzontale. Dalla nuova inaspettata apertura si liberò la sabbia che inondò il tavolo e le nostre mani. Incredule mani. Increduli noi. Incredulo anche il vaso che si scoprì fragile, nel suo minuscolo punto di rottura. Il messaggio fu forte ma non lapalissiano. Stentammo a decifrarne i segni, tra la poesia e la cazzata, tra il caso e la sfiga, e poi la cucina da ripulire.
Le nostre menti sono sempre state accomunate dall’essere poco teoriche, abbiamo trovato risposte nel fare, provare, sbagliare, ascoltare e aggiustare. Istintivamente abbiamo da subito cercato qualcosa che ci facesse ridere e potesse far ridere, anche se (o proprio perché) uno dei nostri obiettivi è sempre stato quello di cercare d’indagare i nostri tempi e i nostri contemporanei. E così il tempo è passato ed eccoci qui in queste condizioni. A ricordarsi di quando si rideva in teatro e di quando poi ci si fermava a parlare con gli spettatori. Forse dopo un anno di chiusura dei teatri, uno può anche chiedersi, cosa ci sia da ridere. Ma è brutto segno quando non si riesce a ridere di una cosa.
Intorno alle risate
Dal palco alla platea. E dalla platea al palco.
Si calcolano sempre dei momenti dove la risata è matematica, ce la si aspetta, ce la si aspetta corale, val bene prevedere una pausa. O comunque prendersela. Può provocarla un gesto, una battuta, una dinamica. Una pausa. In quei casi dal palco si gestiscono, per quanto possibile, i tempi del pubblico. Le risate corali hanno un inizio, più o meno ben definito, ma hanno un finale a strascico. Tipo un tuono, c’è un boato, ma c’è un prima (breve) e un dopo. Inutile riprendere a parlare sul palco, se si ride in sala di gusto, meglio stare in ascolto, trovare il giusto tempo, quello che può contribuire a creare un unico respiro tra attori e spettatori. Ci sono battute che diventano metodo per questo. Battute di cui non si era prevista la potenza dilagante e che riescono a prendersela tutta solo grazie alla ripetizione e alla reazione del pubblico nel tempo. In sostanza, grazie alle repliche. Queste battute in alcuni casi arrivano a generare un lessico interno alla compagnia, un alfabeto comune che permette una comunicazione pratica e veloce anche nella gestione della risata. Nel nostro caso, può capitare che durante le prime letture di un nuovo copione, ci si trovi di fronte ad una battuta alla minonno. Dichiarandolo, ci stiamo mettendo in guardia dalla fretta, ci stiamo dicendo di lasciare tempo alle parole, di concedere pause. Questo perchè minonno, in anni di repliche de “La famiglia Campione”, si è sempre confermata una risata lenta, graduale, a strascico.
NONNA – Ai tempi de’ tedeschi, minonno.
NONNO – Mi’ nonno?
NONNA – Minonno.
NONNO – Tuo nonno?
NONNA – Le mine misero.
pausa
NONNO – Aaah, minonno.
pausa
Nella durata di queste due pause, sta l’ascolto degli attori e la possibilità di conoscere uno ad uno gli spettatori, che si svegliano piano, si uniscono all’onda, si contagiano e, nel più ruspante dei casi, se la spiegano a voce alta. Inoltre la battuta alla minonno, essendo dialettale ha esiti completamente diversi a seconda della latitudine, si può dire che più ci si allontana dalla Toscana più l’ilarità lascia campo allo sbalordimento. Il che non deve stupire e men che mai dispiacere.
Prevedere delle risate può portare infatti all’indesiderabile momento nel quale ci si aspettava una risata. In quei casi è auspicabile non farsi prendere dalla tristezza, dissimulare e porgere ancor meglio quello che si ha da offrire. La frustrazione che si può accumulare offrendo uno spettacolo comico a una platea impassibile può provocare ferite negli animi degli attori più passionali. Talvolta l’attore passionale può accumulare una dose di rabbia, che in combinazione con l’adrenalina può dare esiti di rara penosità durante lo spettacolo e pericolosità subito dopo la fine. L’effetto completamente opposto lo può creare la presenza dello spettatore che rischia di svenire dalle risate. Esso dopo l’ennesima risata corale, non riesce a smettere di ridere, fino a che una qualche battuta, lo costringe alle convulsioni e all’impossibilità di contenersi per continuare ad ascoltare e proseguire il normale andamento della serata. Questo tipo di spettatore può provocare anche nel performer più distaccato un certo divertimento e lo espone a un altro tipo di pericolo. Assecondandolo troppo, si rischia un sovraccarico di autostima nell’attore, che potrebbe dare allo spettacolo il doppio di quanto il suo fisico, al netto dell’adrenalina, possa sostenere.
C’è poi il prezioso momento in cui l’attore (non per mestiere), viene colto da risata. Essa può essere provocata da uno spettatore, da un collega sul palco, da un agente atmosferico o imprevisto generico; fatto sta che in quel momento avviene una gioiosa manifestazione del qui e ora e una lampante dimostrazione di partecipazione.
Quando si ride a teatro, si aggiunge un elemento in più di condivisione tra i partecipanti. La risata, essendo la più sonora delle reazioni possibili (escludendo l’urlo di dolore o di paura, materia più rara a teatro), si prende tempo e spazio, ci rivela agli altri e svela quelli che ci stanno accanto. Ci può far sentire diversi o in sintonia col mondo. Ci può far sentire arguti o completamente deficienti. Continuando con Henri Bergson:
«Un uomo, al quale chiesero perché non piangesse a un sermone a cui tutti versavano lacrime, rispose: ‘io non sono della stessa parrocchia’. Ciò che costui pensava delle lacrime sarebbe ancor più vero per il riso».
Chiunque avrà notato che:
Ci sono degli spettatori che ridono spesso anche fuori dal coro. I ridanciani, contribuiscono spesso ad ammansire il performer se non a lusingarlo. Quando costituiscono la maggioranza del pubblico, si può parlare di spettacolo ridanciano, quando sono due o tre, potrebbero essere amici o parenti del performer.
Ci sono degli spettatori che hanno una risata iper-contagiosa, che il performer di spettacolo ridanciano, vede come pura manna, e ha nello spettatore anti-risata la sua nemesi.
Lo spettatore anti-risata è quasi sempre presente in ogni sala, chiaramente lo si può meglio notare quando lo spettacolo è comico. Di solito la sua faccia è basita, impassibile ma permeata da un giudizio molto severo nei confronti dell’artista. Se lo spettatore anti-risata ha anche un taccuino è sicuramente un critico.
Ci sono degli spettatori che ridono solo fuori dal coro. Spesso anche se la risata non è di per sé sinistra lo diventa col tempo.
Ci sono degli spettatori che impongono la propria risata con violenza, hanno volumi inaccettabili e una cadenza ritmico-mantrica, tipica del malato di mente o del monomaniaco. In questo caso il pubblico e il performer sono uniti dalla comune voglia che qualcosa o qualcuno li allontani dalla sala.
Ci sono spettatori che s’indignano quando il resto del pubblico ride di una situazione che lui stava trovando atroce. Per spezzare una lancia a loro favore, c’è da dire che capita anche al performer, quando agisce sul filo del rasoio, di trovare alcune risate completamente fuori luogo.
Ci sono infine interi pubblici che, per pudore e per un certo rispetto che ogni singolo spettatore usa sull’altro, si trattengono per tutto lo spettacolo e ti fanno sapere che si sono divertiti come pazzi, solo quando li incontri uno alla volta, al momento che ormai avevi dato tutto per perso.
Ci sono cose che fanno ridere tutti dappertutto e cose che dividono. Sulle cose che dividono anche noi stessi, ci piace di più lavorare.
Se inizialmente la nostra voglia di essere comici andava di pari passo con quella di stupire, di provocare, o come ci direbbero altri, di dissacrare, in seguito abbiamo imparato a ridere delle nostre debolezze. A mettere sotto il mirino della comicità tutte le miserie quotidiane, le incomprensioni, le contraddizioni, le manie, i disagi, le solitudini, ovvero tutto ciò che è tragico nel nostro essere umani. Così, la risata a teatro fa prendere dal dramma della vita quella minima distanza indispensabile a capire che siamo tutti sulla stessa barca, alcuni ai posti di comando, alcuni ritirati sotto coperta, alcuni agli ordini e senza ripari, ma tutti solcando un grandissimo fiume di merda.
Luca Zacchini
Luca Zacchini, attore, autore e illustratore di pesci e santi.
Nasce in Casentino (AR) nel 1981 e dà il meglio di sé nei primi dieci anni di vita. L’inesorabile declino inizia sul finire delle scuole medie e prosegue a tutt’oggi. Per colpa di un vecchio burattinaio s’invaghisce perdutamente dell’arte scenica non ancora maggiorenne. È un amore indefesso e fesso e a tratti anche corrisposto. Il fatto di non riuscire a capire bene il senso della vita lo porta a perseverare nell’ambito artistico e in particolar modo nella ricerca teatrale. Pare che qualcosa abbia trovato. Nel 2006 fonda Gli Omini, compagnia con la quale continua a indagare l’uomo e il tempo presente, nel tentativo di avvicinare le persone al teatro, con l’obiettivo di riuscire a ridere delle nostre debolezze e sulle nostre macerie. Pur non riconoscendo il ruolo del regista collabora, come attore, con Massimiliano Civica dal 2010. Ama contraddirsi da sempre e così continuerà.