Le fiamme di Lucifero

di Antonio Rezza

Antonio Rezza in "Fotofinish" di Rezzamastrella, ph Giulio Mazzi
Antonio Rezza in “Fotofinish” di Rezzamastrella, ph Giulio Mazzi

Ridere muove le budella, intacca l’intestino e sbatacchia le frattaglie. Almeno se il motivo è sempre quello. Ma se il motivo non lo è, si tramuta in ammicco, in spalluccia, in toccata di gomito che crea assuefazione e falsa partecipazione. Il riso più nobile è quello di chi lo determina, se chi fa ridere si smascella da sé contestualmente a ciò che dice, allora riderà chi ride ultimo. Ma se lo sbellicando non avverte il rimbombo delle viscere, allora è meglio che non rida neanche l’altro. Far ridere è il sogno di tutti, a chi non piace essere brillante durante una conversazione che ristagna? Spesso nell’arte viene declassato a disimpegno, rispetto alla mesta complicità che crea la commozione. La condivisione, la solidarietà, l’adesione, il coinvolgimento, tutte ipocrisie per menti poco sopraffine. Nel teatro il riso è visto con sospetto, spesso la critica appoggia il pregiudizio che il riso dissolva la sperimentazione, non si fa più ricerca se chi ascolta è sfigurato dalla forza di un tornado. Meglio la connivenza fasulla di un ideale cui nessuno crede, meglio il mellifluo della compassione sulle tragedie del misero passato che allarga il deretano e si lascia trapassare dall’infamia di chi è vivo. Mai il riso che devasta è stato incline al compromesso, tuttavia, per chi ragiona con la narrazione del ministro, sembra che far ridere non sia un’attività dell’intelletto. Peraltro a cena, dopo la rappresentazione, gli stessi che fino a poco prima singhiozzavano artefatti sul proscenio istigando al piagnisteo, tentano di essere smaglianti, vanno a caccia di aneddoti trascorsi per fomentare il pubblico dileggio, irridono il più timido e si danno occhiate compiaciute per scatenar l’approvazione. Ma è un riso inferiore, è il ghigno di chi cerca di incantare, di colui che vuol lasciare un buon ricordo: buono ma mai risolutivo. Il riso, quello autentico, è figlio dell’inferno, non c’è figura più inquietante di un essere che ride, con lo scompiscio se ne va via il decoro, ci si abbandona al fremito, si vibra in singolar sussulto e si scatena lo scompiglio. Una persona per strada che piange in un cantuccio può indurre al dispiacere ma non rabbocca lo sgomento; un uomo che sulla stessa via ride solingo a squarciagola, fa spavento, aizza il raccapriccio e suggerisce la distanza. Esistono percorsi elementari per provocare lo sghignazzo controllato, la linea retta piace a molti, e ognuno, quando sta su un palco, è convinto di lavorare in trattoria. Si offre allo spettatore la sganasciata da osteria e lo si affossa nella comicità vincolata alla battuta. Situazionismo senza situazione, opportunismo privo di opportunità. Si toglie l’occasione al sofferente e lo si manda a luccicare con una pacca sulla spalla e la mannaia sulla testa. Vi sono alcuni che anticipano la risata del pubblico con la loro, per tirar fuori a chi vede il risucchio di un istinto primitivo. Nel mio immenso privilegio io rido solamente di quel che mi fa ridere, diffido del codice opponendolo all’oggettività. Non tutto ciò che mi rallegra è assoluto, se è frutto di un sistema di segni va abbattuto all’origine, quel che deve sopravvivere è il clamore obiettivo, la malvagità attaccata al collo della bestia, la sanguisuga che succhia e poi detona. È inutile far la lezioncina di come si può ridere sull’assurdità, di come il contingente sia sempre inferiore all’inatteso, di quanto la vita di tutti i giorni diverta solamente perché ognuno si rispecchia nel suo dramma quotidiano. Superfluo fare classificazioni. Ma è basilare imporre un’idea radicale: che, in un’opera, il riso prelibato è tecnicamente più complesso del pianto organizzato; nella vita comune, all’opposto, è più facile far ridere che approdare al mugolio. Questo perché l’esistenza di ogni giorno è una succursale dell’arte, è come non si vorrebbe essere e si è. Al mattino è più facile imbattersi in qualcuno che ti fa fare una risata piuttosto che in un altro che ti appioppa una lacrima sul grugno. Il realismo, che tanta menzogna concepisce, arraffa tutto ciò che è vero riproducendolo per come era, ma inverte il rapporto tra la commozione e lo sganascio: se nella vita si ride maggiormente, grazie a un riflesso masochista involontario, nell’arte si commisera in partenza, si sobilla volentieri all’afflizione, non per scelta ma per necessità, fa parte della celebrazione di stati d’animo prima evocati e poi evacuati in mezzo allo sciacquone dei singhiozzi. Concretamente il riso è solo quello che torce le interiora, le aggroviglia e le sballotta in astrazione molle. Ci si può sconquassare allo stesso modo per una battuta grassa che per una situazione metaforica. La differenza pare non esserci. Ma chi ride dell’irrazionale, mentre smascella allucinato, rimbalza sulla sedia e non ha tempo per impacchettare il dolore, che è come il pane quotidiano, ce n’è sempre un pezzo per ognuno. E allora frignate, magari finanziati dallo Stato delle cose, ma lacrimate con la simulazione che trafora. Mentre io mi bagno gli occhi tra le fiamme di Lucifero: se venite vi scaldo il culo, così lo ammorbidisco. Comprimari senza ali a sbattervi per chi vi paga. In ogni palazzotto.

 

Antonio Rezza

Antonio Rezza è nato. Ha pubblicato Non cogito ergo digito, Ti squamo, Son[n]o e Credo in un solo oblio, vincitore del Premio Feronia 2008. Insieme a Flavia Mastrella ha realizzato numerose opere teatrali messe in scena anche all’estero (tra cui Pitecus, Io, Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28, Doppia identità, Fratto_X e Anelante). Insieme hanno partecipato più volte al festival del Cinema di Venezia (Escoriandoli, Il passato è il mio bastone, Samp), hanno realizzato per Rai 3 i programmi televisivi Troppolitani (2000) e La tegola e il caso (2018) e collaborato con le case editrici Bompiani, Il Saggiatore e La Nave di Teseo. Hanno ricevuto numerosi riconoscimenti fra cui il Premio Alinovi per l’arte interdisciplinare (2008), il Premio Hystrio e il Premio Ubu (2013), il Premio Napoli (2016) e il Leone d’Oro alla carriera per il Teatro (2018). L’opera narrativa di Antonio Rezza è stata pubblicata in una nuova edizione presso La nave di Teseo.

www.rezzamastrella.com