Il comico è volgare

di Andrea Cosentino

Andrea Cosentino in "Not here not now", ph Simone Telari
Andrea Cosentino in “Not here not now”, ph Simone Telari

Premessa

Della comicità si è detto e scritto molto, ma con conclusioni poco chiare, e senza mai arrivare a definizioni convincenti. L’intento di questo articolo, sotto forma di appunti un po’ ipertrofici e spesso apodittici, è accettare il fatto che non se ne possa dire molto, e provare a suggerire che questa indefinibilità, questo non potersene dire, abbia a che fare con l’essenza stessa del comico. E poi, non sapendone fare a meno, parlare anche un po’ di teatro, come lo faccio, lo frequento e lo conosco, magari solo tra le righe, ma anche forse nelle e – talvolta se mi scappa – anche un po’ sopra.


Un genere di consumo

Partiamo col dire che la comicità non ha bisogno di analisi, anzi. Semplicemente accade, e se non accade nessuna ricomposizione o descrizione a posteriori potrà farla tornare in vita. In un certo senso, e da qui la diffidenza di secoli di cultura accademica nei suoi confronti, il comico si consuma immediatamente – senza bisogno di mediazioni – e dunque viene indistintamente e sbrigativamente bollato come genere di consumo. L’analisi, che opera per tagli e separazioni, fatica a cogliere un territorio espressivo nel quale l’estetico non è distinguibile dall’etico o dal politico e l’individuale fa tutt’uno con il sociale. Perché una cosa è analizzare un testo, ma anche più postmodernisticamente descrivere la polifonia di codici, seguire il sovrapporsi e l’intrecciarsi di linguaggi che compongono una tessitura, altra è comprendere ciò che non gerarchizza né dispone né oppone codici a codici, né codici a corpi, ma semmai li mescola, li attraversa, innestandosi su territori dove non sussistono le condizioni della loro distinzione. Qui sembrano venire a mancare gli strumenti e forse le ragioni stesse per un’operazione critica. Ecco lo scacco: come analizzare, e ancor prima come individuare cioè contornare, ciò che letteralmente non fa testo? In fondo la cultura alta ha semplicemente ricambiato con il disprezzo il fatto che il comico non abbia mai avuto bisogno di lei. Così come le barzellette spiegate smettono di farci ridere, la comicità è qualcosa che va colta all’opera: una autopsia non potrà mai rendere conto della sua complessa vitalità. Con le parole di Roberto Benigni, che è stato oggetto di un mio vecchio studio dal quale riprendo alcuni spunti per questo articolo, «la comicità svelata è svilita».


Condivisione del nulla

Il comico, come meccanismo di produzione di enunciati, è stato indagato a lungo e da diversi punti di vista (da Bergson a Freud, per citare i più noti) e allo stesso tempo sembra avere qualcosa di inafferrabile. Una sintesi plausibile è che l’arguzia, il motto di spirito, la satira, la parodia, l’umorismo, la barzelletta, tutte cose diverse tra di loro, hanno però in comune la tendenza a smascherare linguaggi e rigidità mentali e ideologiche, in qualche modo deridendo gli strumenti con cui siamo soliti decodificare la realtà e costruirci un mondo abitabile. Si ride dell’errore, dell’inadeguatezza al contesto, che si tratti degli inciampi dei clown da circo, della parodia del governatore De Luca da parte di Crozza o del parlare a vuoto di Vladimiro ed Estragone. Il testo comico ha sempre qualcosa di destrutturante, è ad alto contenuto intertestuale, perché cita, parodizza e smonta abitudini testuali consolidate, e nei casi più riusciti è un testo che gioca a sfilacciare la sua stessa tessitura ovvero, per dirla con un paradosso, un testo che non fa testo perché nel suo gioco disfa anche se stesso. La comicità va verso l’afasia, una afasia rumorosa e anche “caciarona” all’occorrenza, che se costruisce mondi è per distruggerli un attimo dopo e gioire del rumore dei cocci che cadono. Ha a che vedere con il meccanismo che si inceppa o l’aspettativa che si infrange, si dissolve e si risolve in nulla. Ma è di questo nulla gioioso che bisogna dire, perché una cosa certa della comicità è che non riguarda il singolo individuo, ma si manifesta appieno quando si è in comunità. Per usare una citazione: la felicità è reale solo se condivisa, ma forse la felicità del comico è la condivisione stessa. E non c’è esperienza più forte di quella che si crea nella condivisione del nulla. Per questo ha qualche fondamento il luogo comune che vuole il comico come l’altra faccia del tragico. E anche per questo aveva qualche ragione Samuel Beckett a scrivere: non c’è niente di più comico dell’infelicità.


Surrogato di felicità

Naturalmente io sono, e so di esserlo, tendenzioso su questo argomento. Sono affezionato a una certa accezione del comico, quella di Michail Bachtin, che nella sua opera su Rabelais costruisce un affresco potente della comicità popolare e del corpo grottesco, la mescolanza dell’alto e del basso, l’indefinitezza dei confini corporei, che a sua volta rimanda alla dimensione della festa, del mondo alla rovescia, del carnevale. Era la modalità che il popolo aveva per dissacrare, cioè la sua modalità di rapporto con un sacro e un potere normalmente subiti. Parliamo di Medioevo e Rinascimento, nulla di più inattuale. Eppure anche oggi, quando le distinzioni tra alto e basso sembrano essere saltate, e per quanto la nostra società non gerarchizzi più i valori verticalmente, non siamo necessariamente più liberi e coscienti. In un contesto violentemente secolarizzato dal mercato, le nostre vite si svolgono per settori a tenuta stagna, i nostri bisogni sono sistematicamente incanalati lungo autostrade di desideri e consumi indotti, le nostre opinioni, magari enfaticamente espresse in rete, solo di rado coincidono con comportamenti efficaci su un piano di realtà. In definitiva anche a noi non è dato costruire una immagine completa e armonica di noi stessi e del mondo che abitiamo. Per questo l’ironia è il modello imperante nella comunicazione social, come altra faccia dell’impotenza. Ma per questo anche credo che una certa forma di comicità dalle radici antiche sia ancora fortemente attuale, e potenzialmente eversiva. Perché è l’unico modo che conosco di rapportarsi alle cose senza pretendere di possederle, senza neanche averne le chiavi di accesso. Non è un caso che la comicità sia stata storicamente la forma espressiva privilegiata di quelle che un tempo venivano chiamate le classi subalterne, di chi è abituato a vivere senza il sostegno di un passato né prospettive di futuro, e allora si aggrappa al presente come che sia, senza poter contare su autonarrazioni salvifiche. Si potrebbe dire che il comico sia una specie di surrogato di felicità, e non necessariamente in senso dispregiativo. In fondo chi può dire di conoscerne l’originale?


Pezzette etimologiche

A questo punto, per dare un segno di una qualche autorevolezza all’articoletto, non ci si può esimere dal ricorrere al dizionario etimologico, e dunque a wikipedia, che è l’autorità indiscussa nell’universo del sapere due punto zero:

«Il termine kòmos (in greco κῶμος) indica, nell’antica Grecia, un corteo rituale, a piedi o talvolta su carri, durante il quale i partecipanti si abbandonavano a un’atmosfera di ebbrezza, a espressioni di sfrenatezza e baldoria, sottolineate da canti, accompagnate dalla musica dell’aulos, della lira e della cetra e condite da disinibite e giocose manifestazioni di oscenità e allusività a sfondo sessuale».

A questo proposito, sono convinto che l’oscenità del comico, e la sua frequente connotazione di volgarità (dal latino: vulgus, popolo, plebe, massa – esageriamo pure con le etimologie, questa per esempio ci dice come ogni accusa di volgarità possa essere rovesciata contro chi la rivolge in accusa di classismo elitario) abbia una stretta relazione con l’impossibilità della scena a contenerlo, come si trattasse di una faccenda che tende sempre a debordare, a non potersi mai chiudere totalmente dentro una cornice. Ob-sceno, fuori della scena appunto, e si tratta stavolta di una etimologia campata in aria e consapevolmente reinventata. E prima ancora che da quella teatrale, fuori dalla scena del corpo individualizzato. Perché, per citare ancora Bachtin, il corpo comico è volgare in quanto grottesco, ovvero un corpo abnorme, sessualizzato e sempre morente o partoriente o defecante, senza confini definiti una volta per tutte, parte mai isolabile del flusso cosmico della nascita e della morte e della trasformazione continua. Figuriamoci se possa mai essere assimilato e ricondotto al personaggio-individuo della scena teatrale moderna, cioè borghese, con i suoi conflitti, il suo carattere, le psicologie e i sottotesti.


La festa o dentro o fuori

Ancora da wikipedia, vediamo le origini del comico in relazione alle forme teatrali:

«Il komos deve essere tenuto ben distinto dalla processione e dal coro greco, essendo quest’ultimo basato su eventi dettati da un copione e sotto la direzione di un corifeo, laddove invece il komos era un’espressione al di fuori degli schemi, svincolata quindi da ogni rigidezza direttoriale, da copioni o prove».

Dunque si direbbe che fin dal principio il comico sia nettamente separato da quelle che pensiamo come le origini del teatro occidentale, e cioè il coro greco, dal quale esce poi il corifeo, quindi l’antagonista e la tragedia e tutto il resto. Invece il komos sembra non avere copione, né schemi, né un direttore. E neanche direzione aggiungerei, ma una forte propensione al lasciarsi accadere. Naturalmente, e storicamente al di là dei miti di fondazione, la comicità può essere (e lo è stata) funzionalizzata, e utilizzata come ingrediente o solo condimento all’interno di testi teatrali dalle caratteristiche e finalità più disparate, dalla narrazione pedagogica al dramma didattico alla commedia sentimentale. Ma rimane qualcosa di irriducibile, che fa resistenza a stare dentro una trama e confini definiti. Nella sua essenza il comico si manifesta in un rituale senza schemi, o forse un antirituale, che non struttura enunciati definiti e non riattualizza miti fondativi, né delinea una temporalità di eventi in una sequenza che li risolve. Non crea testi, né opere. L’opera, come il mito, è qualcosa che si può e si deve guardare dall’esterno, distilla enunciati in una struttura che ambisce alla compiutezza del senso. Il comico, come la festa che ne è il contesto privilegiato di appartenenza, invece non elimina il superfluo, non possedendo una struttura che consenta di riconoscerlo come tale. Di più, il superfluo è l’anima della festa. La comicità è puramente processuale: la temporalità, il divenire non è significato, perché non esiste alcun punto fermo esterno dal quale possa essere compreso. Per questo di nuovo non ha senso analizzare il comico. Non è possibile per chi osservi da fuori comprendere il senso del gioco, perché il suo unico senso è ludico partecipativo. Il gioco comico instaura una temporalità priva di coordinate, non imbrigliata in strutture di significato, solcata da energie che non lasciano tracce, da segni e referenti che si inseguono e si negano senza indicare nessuna direzione o orizzonte di approdo. Il dramma, non avendo svolgimento, non prevede scioglimento. Durante la festa tutto viene consumato, gli avanzi abbandonati in disordine, e dopo la festa, fuori della festa, non c’è nulla.


La risata come segnale

Adesso un piccolo intermezzo biografico, che magari è quel che ci si aspetta, in fondo scrivo da teatrante, anche se qui sto sfoggiando i residui di un breve passato da studioso. Sei un teatrante? Usi il comico? Dicci dei segreti, dacci delle indicazioni concrete e di mestiere, invece di atteggiarti a intellettuale. Ma la verità è che io non ho indagato mai a fondo la comicità come meccanismo. L’unica cosa che cerco di ripetermi quando entro in scena è: non forzare, non affidarti alle gag o alle battute. Quello che ieri ha funzionato, potrebbe non farlo oggi. La battuta, la tecnica, può essere una cosa rassicurante, ma sarebbe un errore farsi rassicurare. Resta in ascolto del presente, guarda e ascolta chi ti sta di fronte, sii tu stesso questo presente, e aspetta che la comicità si manifesti come un miracolo che potrebbe non accadere. Aspetta e spera. Può sembrare poca cosa, ma è l’unico segreto che ho da svelare. Non affidarti alle battute che ti sei preparato, ma stai dove sei e attendi la risata come un dono immeritato. Al fondo, ed è un rovesciamento fondamentale, un comico non cerca di stabilire un contatto per far passare il suo “messaggio” (per dirla con una desueta terminologia da sussidiario), ma piuttosto lancia messaggi come pretesto per stabilire un contatto. Io non ho iniziato il mio percorso da teatrante ingaggiato da qualche compagnia di prosa, magari facendo piccoli ruoli in lunghe tournée nei teatri stabili per spettatori abbonati, spesso annoiati ma compiaciuti della loro stessa noia, che è sempre un indice certo che lì sta passando la Cultura. E neanche ho iniziato nei circuiti della sperimentazione, in quei teatrini metropolitani dove ci si ritrova tra colleghi e appassionati, magari pochi, ma sempre tendenzialmente e preventivamente complici. Di ritorno dai miei studi in Francia, ho fatto i miei primi spettacoli nelle piazze abruzzesi, per circa tre anni. Dovendo fare i conti con la concezione della cultura che trovi in provincia. Montando il palco il pomeriggio e puntando i fari al tramonto, con i bambini che si piazzano lì due ore prima, e gli anziani a chiederti: che ci sta stasera, la musica? No signò, il teatro. Si, ma che fate? E poi si va in scena, avanti a te due file di bambini che schiamazzano, subito dietro gli anziani che stramazzano sulle sedie, e più lontano, appoggiati al muro, o dai tavolini del bar all’opposto della piazza, gli adulti che ti osservano con ostentata diffidenza. Perché in provincia il teatro non è roba per grandi. Eppure è a loro che devi rivolgerti: quello che farà sì che la serata sia un successo o meno è conquistarti la loro attenzione, e soprattutto la prima risata. Poi la seconda di qualcuno che incoraggiato si aggrega, e la terza. E quindi il loro avvicinarsi e prendere posto tra le sedie di plastica fornite dalla proloco. È questo che voglio dire: questa risata così misteriosa, che da Bergson a Freud si è cercato di spiegare come conseguenza di meccanismi psichici individuali, è invece prima di tutto un segnale di riconoscimento sociale. L’espressione che si vuole stare al gioco. Come il neonato che impara il sorriso specchiandosi in quello della madre: questo sorridere non nasce come sintomo di gioia, ma come segnale di corrispondenza e riconoscimento. È una forma, forse la prima, di comunicazione senza contenuti, dunque di comunione. Così nelle piazze abruzzesi: se mi concedi la risata è un patto tra noi, una promessa di legame stabilito. L’adulto al bar lì lontano lancia una risata, altri due al suo fianco si sentono incoraggiati, ridono con lui. Ridono con me. Bene, sono stato accettato, faccio parte della comunità. Adesso lo spettacolo può davvero iniziare.


Cupio dissolvi del teatro

La comicità, da teatrante, mi appassiona perché è l’amplificazione del nucleo politico del teatro, del suo essere un fatto comunitario. Ridere è una triangolazione, non si ride mai da soli. Se il teatro borghese si rivolge innanzitutto al singolo spettatore, la comicità, proprio come dispositivo, per esplodere ha bisogno di prossimità, di uno stare fianco a fianco, di un dialogo aperto tra attore e spettatore, e di un confronto continuo dello spettatore con le reazioni del vicino. Crea e disfa comunità ad ogni passo. Naturalmente, essendo un meccanismo inesauribile, ve ne sono tanti modi, dai più raffinati ai più chiassosi, dai più eversivi ai più reazionari. Se la risata, come abbiamo detto, è anche e prima di tutto un segnale sociale, ovviamente può essere un segnale di diversi modi di associarsi. Quella che detesto ad esempio, ed è purtroppo molto diffusa in quei luoghi d’intrattenimento da élite culturale che sono spesso le nostre scene, è la risatina da strizzata d’occhio, quella un po’ forzata e artificiosa che lo spettatore lancia per dire io sì che ti sto capendo, io sì che sono d’accordo. Un richiamo di riconoscimento e distinzione, che può essere culturale o politico o anche da affinità elettive sentimentali. Quella che invece mi interessa, ma si sarà capito a questo punto, è la comicità clownesca e carnevalesca, il cui orizzonte utopico è la festa, ovvero il crollo di ogni barriera e l’indistinguibilità virtuale dei ruoli di attore e spettatore. Come rilevava Bachtin, alla festa non si assiste ma si partecipa. La risata carnevalesca distrugge tutto ma accoglie chiunque. È un ridere aperto, che costruisce una società momentaneamente senza distinzioni culturali e di classe. La festa celebra un noi che non si contrappone al loro, ma all’io, all’illusione e alla miseria dell’individualismo. Potrei arrivare a dire che la comicità mi appassiona perché è lo strumento teatrale più vicino al dissolvimento del teatro stesso. Cupio dissolvi dell’attore in quanto artista.


Il comico non è un artista

Accade spesso che i comici, dalla cultura alta, vengano rivalutati da morti. È stato il destino di Totò, di Fabrizi, di Villaggio e di non so quanti altri. Sembrerebbe che, parafrasando un celebre saggio di Pasolini, così come il montaggio trasforma il cinema in film, così la morte trasforma la vita in opera, e come tale la chiude e le dà un senso compiuto. Leggibile, decifrabile e valutabile. Fosse anche la vita di un comico, che adesso, da morto, non sfuggirà più alla finitezza, e il suo operare sfuggente potrà assurgere infine alla dignità di opera. Mentre la comicità, nel suo agire in vita, dell’opera fa scempio, la distrugge in favore della celebrazione del presente. Ma c’è un altro fatto interessante a questo proposito: quando muore un comico che hai amato, hai spesso la sensazione di aver perso un fratello o un padre, comunque qualcuno di famiglia. Questa familiarità non ha molto a che vedere con l’ammirazione, meno ancora con la venerazione, ed è addirittura l’opposto della distanza, quella che è riconosciuta all’artista. Sembra esserci una specie di irriducibilità di fondo del comico rispetto al mondo dell’arte, e forse è giusto così. Il comico non si pone mai su un piedistallo, né potrebbe essere diversamente, pena il fallimento della sua stessa missione. L’artista invece si tira sempre un po’ fuori della mischia, pretende di guardare le cose dall’esterno. Dirò di più, all’artista, nelle dinamiche di comunicazione contemporanee, è addirittura richiesta una certa prosopopea (ai più viene naturale, c’è da dire). Una certa affettazione, un darsi importanza, è necessaria per essere riconosciuti artisti. È in fondo ancora una volta in azione il desiderio così umano di farsi comunità, e però in questo caso una comunità che si contrappone al fuori, alla massa, al volgo. Chi l’arte – il teatro nel caso che conosco meglio – la produce, la diffonde, ne pontifica o anche semplicemente ne fruisce, vuole sentirsi parte di un mondo eletto. Ci piace sentirci tra asceti e intenditori, magari iconoclasti che però la sanno più lunga, non solo sull’arte stessa ma persino sulla vita. Devo averlo già detto: l’iconoclastia è la più potente iconologia del contemporaneo. E più la fortezza è vuota più va protetta decorata e santificata. La profezia di Benjamin si è avverata al contrario: è scomparsa l’opera ed è rimasta l’aura. L’aura è il brand dell’arte. È per questo, volendola buttare sul personale, come ci si aspetta ed è giusto, e allora lo farò in extremis ma senza remore né pudore, che un comico non sarà mai davvero accettato fino in fondo nel monte Olimpo. All’artista è richiesta la prosopopea ma io non sono tra coloro cui la cosa viene bene. Di più, a me vendere aura mi fa orrore, e in questo caso a me mi si può ben dire. Allora tanto vale essere orgogliosamente e solo un clown, di quelli che escono e gli dai un buffetto e gli dici bravo fratè, m’hai fatto ride.

 

Andrea Cosentino

Andrea Cosentino (Chieti, 1967) è attore, autore, comico e studioso di teatro. Premio speciale Ubu 2018. È inventore, proprietario, conduttore e conduttrice unico/a di Telemomò, la televisione autarchica a filiera corta. Tra i suoi spettacoli La tartaruga in bicicletta in discesa va veloce (finalista Premio Scenario 1998), il ‘dittico del presente’ costituito da L’asino albino e Angelica (i cui testi son pubblicati in “Andrea Cosentino l’apocalisse comica”, a cura di Carla Romana Antolini, Editoria e spettacolo), Antò le Momò-avanspettacolo della crudeltà, Primi passi sulla luna (testo pubblicato da Tic edizioni), Not here not now, Lourdes (spettacolo vincitore “Teatri del sacro 2015” con la regia di Luca Ricci), Trattato di economia (in collaborazione con Roberto Castello, testo pubblicato con Altreconomia) e Kotekino riff.
Le sue apparizioni televisive vanno dalla presenza come opinionista comico nella trasmissione AUT-AUT (Gbr-circuito Cinquestelle) nel 1993 alla partecipazione nel 2003 alla trasmissione televisiva Ciro presenta Visitors (RTI mediaset), per la quale inventa una telenovela serial-demenziale recitata da bambole di plastica. È promotore del PROGETTO MARA’SAMORT, che opera per un’ipotesi di teatro del-con-sul margine, attraverso una ricerca tematica, linguistica e performativa sulle forme espressive subalterne, ed è recentemente confluito nella compagnia ALDES.

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