«Qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore»*
di Valeria Vannucci
Non siamo qui per fare una storia del comico, men che meno una storia del comico nella danza contemporanea, per questioni legate allo spazio e al tempo adeguati per una vera ricerca. Quello che faremo, invece, è cercare di delineare un percorso genealogico per mettere a fuoco, sia pur in minima parte, come siamo arrivati oggi a parlare di comicità nella danza.
Il titolo di questo articolo è una citazione di Henri Bergson, dal suo Il riso. Saggio sul significato del comico (1900) cui fa riferimento Caterina Giangrasso Angrisani per introdurre il suo studio sul rapporto fra ironia e danza alla Biennale di Venezia. Indagando le varie connessioni fra arte coreutica e quegli «aspetti del mondo reale e teatrale che possono generare il riso e la risata»(1), la studiosa allarga la sua lente d’ingrandimento rintracciando le diverse sfumature che intercorrono fra ironia, comicità e umorismo (ma anche sarcasmo, beffa e grottesco), senza trascurarne la dimensione trasgressiva e tagliente. Sappiamo della differenza, sancita da Luigi Pirandello, che contrassegna comico e umoristico, quella distinzione che separa l’avvertimento del contrario dal sentimento del contrario, che bene introducono i risvolti peculiari degli strumenti chiamati in causa.
Se la tradizione classica ha connaturato l’insieme del comico come genere basso, riguardante il deforme e l’imitazione delle qualità peggiori degli individui, con capofila Aristotele, la filosofia più tarda inizia a rivelarne aspetti inediti e profondi. Spostando l’attenzione sull’ironia, così si legge nella definizione di Francesca Brezzi:
«Termine che deriva dal greco eironéia e significa dissimulazione, finzione. In filosofia indica un atteggiamento di eccessiva svalutazione, reale o simulata, di se stessi, del proprio pensiero. Ha avuto due forme fondamentali: l’Ironia socratica e quella romantica. Nei dialoghi platonici l’Ironia è la sottovalutazione che Socrate fa di se stesso e delle proprie capacità, fingendosi ignorante e interrogando l’altro che si ritiene esperto. Costituisce quindi il primo momento, critico-negativo del mondo socratico che porta l’avversario a riconoscere la contraddittorietà della posizione prima creduta vera. Alla fine del Settecento e ai primi dell’Ottocento nell’ambito della poesia e della filosofia romantica il concetto di Ironia ritorna in primo piano con tutt’altro significato: essa indica l’atteggiamento di distacco ironico dell’artista di fronte alla realtà e alla sua opera, atteggiamento di superiorità nato dalla consapevolezza della propria genialità e quindi di insofferenza di fronte ai vincoli e alle leggi»(2).
Fra l’una e l’altra, come si vede, c’è un mare. Ma vediamo come, riferendoci alla Storia della danza, si è approdati all’Ottocento e a tutto quello che, rispetto a questo ambito, ne è seguito. Teniamo conto, in questa dimensione, che la terminologia comique non rimanda esattamente e in ogni caso al nostro comico, riguarda più che altro – e non universalmente – quelle declinazioni del rurale e del folklore che caratterizzavano questa corrente, il carattere delle danze e l’atmosfera a cui si esse si riferivano.
Nato nelle corti italiane con la definizione di “ballicto”, per indicare quelle manifestazioni che integravano musica, danza, canto e declamazione, il termine “ballet”, adoperato negli ambiti del teatro drammatico e lirico e impiegato anche per definire l’opéra comique, veniva utilizzato negli spettacoli dell’Opéra per indicare le parti danzate presenti dopo il prologo e all’interno o fra gli atti delle opere musicali, la cui linea estetica ufficiale si costituiva di una rigida simmetria per simboleggiare il trionfo dell’armonia, dell’ordine e della razionalità, sulla scia del classicismo almeno fino alla fine del XVII secolo – ad esempio l’aplomb divenne un principio emblematico del periodo, essendo ripreso dal rapporto logico fra braccia e gambe proprio dell’iconografia classica. Negli stessi anni cominciano ad apparire una serie di pubblicazioni atte alla sistematizzazione, all’analisi e alla conservazione del materiale inerente all’arte coreografica.
Inoltre, questi sono gli anni dell’istituzionalizzazione della suddivisione dei ruoli, spartiti in base alle caratteristiche fisiche dei danzatori e alle loro competenze, che prevedevano il serieux, il demi-caractèr e il comique (3). Ancora nello stesso periodo due importanti edizioni relative principalmente alla tecnica e alla gestualità, riprendendo anche le specificità più antiche rispetto al tempo delle pubblicazioni, ovvero Della tragedia antica e moderna di Pier Jacopo Martello del 1715, una ricca testimonianza sulla danza italiana, che oltre a mettere in evidenza il carattere dinamico e aereo, colmo di salti capriole e rovesciamenti, concentrava alcune parti sul dialogo fra mimica e danza; e la Nuova e curiosa scuola de’ balli teatrali a opera di Gregorio Lambranzi, che l’anno successivo alla pubblicazione appena nominata, elaborò un campionario di figure ritratte nei gesti più caratteristici del tempo, inserendo inoltre le forme più legate alle maschere della Commedia dell’Arte (4).
Una successiva evoluzione portò al ballets pantomimes, genere spettacolare inaugurato nelle fiere parigine di Saint-Germain e di Saint-Laurent, che si differenzia dal ballet (pur essendo usato, in alcuni casi, come sinonimo) proprio per il carattere contenutistico che possedeva, allontanandosi dalla forma degli spettacoli principalmente fini a se stessi, e anche dal balletto riformato, che utilizza la denominazione di ballet pantomime o ballet d’action, in cui ci si riferisce al recupero della pantomima antica e all’elaborazione del gesto in una direzione di verosimiglianza – estrapolata dalla direzione attoriale del periodo –, all’interno di una struttura narrativa che trattasse di soggetti aulici (5). Abbandonando sempre di più l’astratta geometria dei movimenti corporei e spaziali, propri del teatro antico, e della spersonalizzazione per l’uso della maschera (nonché di alcuni dettami del classicismo, precedentemente enumerati, nati in seno alla fondazione da parte di Luigi XIV dell’Académie Royale de Danse nel 1661), questo linguaggio portò a sfumare il carattere buffonesco e caricaturale della pantomima ereditata dalla Commedia dell’Arte per adattarsi a diversi soggetti, compresi quelli mitologici.
Gli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento, inoltre, vedono accolti a Vienna una serie di artisti italiani con soggetti tratti principalmente dalla Commedia dell’Arte, ma anche i primi tentativi di rinnovamento di Franz Hilverding e la sua ricerca di una forma che mescolasse, all’interno di una struttura coreografica elaborata, danza e pantomima, mentre in Francia alla condizione di stallo per la danza dell’Opéra si contrappongono le sperimentazioni del balletto narrativo a opera di artisti come Charles Le Picq.
Il recupero del gusto antico e l’ondata di moda improntata sul goûte grec trovano un ulteriore elemento da aggiungere che rinnovò lo stile dei passi, dei movimenti collettivi, dei disegni e dei costumi alla luce di una scoperta archeologica relativa ancora alla metà del secolo. Fra il 1738 e il 1748 i reperti degli scavi di Ercolano e Pompei portarono alla luce uno stile decorativo analogo a quello cinquecentesco ideato da Raffaello, che si rifaceva agli affreschi rinvenuti nella Domus Aurea neroniana appunto agli inizi del XVI secolo. È importante sottolineare questo punto, in quanto nel Settecento esiste una forte analogia fra l’arabesque e la grottesca, che oltre a denotare appunto la cifra raffaellesca, contiene al suo interno un immediato riferimento proprio a quelle grotte in cui si trovavano confinate le antiche residenze romane, il cui stile e le figure rappresentate: «rivelano anche la componente fantastica, immaginaria, di questo antico stile pittorico che affascinò così tanto l’Europa tra il Cinquecento e il Settecento da diventare durante la Rivoluzione francese una vera e propria moda» (6). Per quanto riguarda l’arabesque coreografica, il termine non andava a indicare un passo specifico come appare oggi nella tecnica accademica, piuttosto si riferiva allo stile adottato nelle composizioni coreografiche rispetto alle particolarità fantastiche dei reperti archeologici cui si faceva cenno, queste figure fluttuanti metà umane e metà animali o vegetali in cui l’arabesque veniva: «intesa come bizzarria e libertà creativa ispirata all’arte antica – con cui – la nuova generazione di coreografi legittimò le nuove posizioni senza aplomb, senza opposizione tra le braccia e le gambe o con le braccia e le mani allungate nell’aria come nelle Vittorie alate dell’arte romana e leggere come nelle danzatrici di Ercolano» (7).
Verso la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si riscontra, oltre la presenza di generi come l’eroicomico e il tragicomico, una tendenza – certamente collaterale rispetto al panorama dominante – in cui, all’interno di composizioni di ballo non inerenti alla dimensione comica, i coreografi solevano inserire degli episodi di carattere ironico per alleggerire il pubblico, come si evince da alcune recensioni e libretti dell’epoca. Nel XIX secolo il comico prende sempre più spazio nelle opere coreografiche, facendo prendere vita, come soggetti principali, a figure come automi o marionette, il cui carattere solo apparentemente leggero si concentra sempre di più sull’altra faccia di queste medaglie, ossia sul riflesso oscuro che può scaturire dalle stesse.
«Le forme espressive grottesche del Settecento sono però lontane dagli esiti performativi del mondo contemporaneo. Può oggi la danza […] misurarsi con un approccio ironico? Si può veicolare l’umorismo con i mezzi corporei della danza?» (8), domandava Caterina Giangrasso Angrisani introducendo la sua analisi.
La risposta – o alcune possibili risposte – a questa domanda sta negli interventi dei coreografi contemporanei racchiusi in questo numero di 93%.
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(*) Ringrazio Caterina Giangrasso Angrisani per la preziosa collaborazione e l’attento sguardo che da sempre la contraddistingue. Per l’elaborazione di questo articolo è stato di fondamentale ausilio il suo saggio Danzare l’ironia alla Biennale di Venezia, edito dalla stessa istituzione e inserito nel progetto Scrivere in residenza della Biennale College 2018. Il titolo del presente elaborato ricalca un enunciato di Henri Bergson citato dalla stessa nella suddetta pubblicazione.
1. C. Giangrasso Angrisani, Danzare l’ironia alla Biennale di Venezia. Uso creativo dell’ironia, del senso del comico e dell’umorismo nella danza, Biennale College ASAC, La Biennale di Venezia, Venezia 2018, p. 4.
2. F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton, Roma 1994, p. 56
3. Nella lettera IX dell’edizione del 1760, riportata da Flavia Pappacena, così Noverre descriveva i tre generi sopracitati: «Il genio di tre danzatori che scegliessero uno di questi generi, dovrà essere tanto diverso quanto la loro statura, il loro volto e il loro studio. Uno sarà grande, l’altro galante e l’ultimo divertente. […] La statura adatta al danzatore serio è senza dubbio quella nobile ed elegante. […] La statura che risulta più adatta al demi-caractèr e alla danza seducente, è senza dubbio quella media; essa riunisce tutte le bellezze della statura elegante. Che importa dell’altezza, se delle proporzioni piacevoli brillano ugualmente in tutte le parti del corpo? La statura del danzatore comico esige meno perfezione: più sarà ridotta, e più renderà grazia, gentilezza e ingenuità all’espressione», F. Pappacena, Il linguaggio della danza classica. Guida all’interpretazione delle fonti iconografiche, Gremese, Roma 2012, p. 95
4. Nello stesso anno riaprì la Comédie-Italienne per i comici italiani a Parigi
5. Cfr. F. Pappacena, Dal libretto di ballo alle note per la messa in scena, in «Acting Archives Review. Rivista di studi sull’attore e la recitazione», anno III, n. 6, novembre 2013, p. 4
6. F. Pappacena, Il linguaggio della danza classica, cit., p. 134
7. Ivi, p. 137. Un caso esplicativo riguarda I capricci di Cupido e del maestro di ballo di Vincenzo Galeotti del 1786, in cui figure fantastiche e reali si mischiano e si incontrano sulla stessa scena
8. Giangrasso Angrisani, Danzare l’ironia alla Biennale di Venezia, cit., p. 4
Valeria Vannucci
Valeria Vannucci (Roma, 1993), laureata in Storia, teoria e tecniche della danza all’interno del corso di laurea magistrale in Teatro, Cinema, Danza e Arti digitali della Sapienza – Università di Roma (2020). Nel 2018 vince “Scrivere in residenza”, bando della Biennale di Venezia per settore Danza e redige il saggio Tersicore bendata: eros alla Biennale Danza di Venezia, pubblicato dalla stessa istituzione nel 2019. È cofondatrice e redattrice della rivista di critica teatrale «Le Nottole di Minerva», collabora col progetto editoriale «93% – Materiali per una politica non verbale», col network www.sciami.com, con la testata di arte e cultura contemporanea «Artribune», con l’archivio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, col festival Biennale MArteLive per il settore danza ed è collaboratrice personale del coreografo e danz’autore Davide Valrosso.