Far ridere è un affare da umani
di Marco Chenevier
Ho iniziato questo mestiere per una risata. Una risata provocata, mio malgrado. Durante il liceo infatti, il professore di latino, mi convinse/obbligò a portare in scena un breve estratto dello Pseudulus. In latino. Piccolo dettaglio: noi eravamo in terza liceo, e alla festa di fine anno, dove la “scena” sarebbe stata presentata, c’erano tutti i “grandi”. La vergogna preventiva era enorme.
Ma il professore in questione era molto persuasivo e, non so come, mi ritrovai imbarcato in questa faccenda. Iniziammo così le prove, imparammo le battute, i gesti, le posizioni rispetto al pubblico che ci sarebbe stato alla festa di fine anno.
La sensazione che sarebbe stato un disastro aumentò quando, alla vigilia della festa, il professore ci svelò il suo asso nella manica: i costumi. Delle finte toghe latine. In fodera. Sbrilluccicante. Non avevamo mai provato indossando quelle palandrane, ma il tipo di stoffa bastava.
Già all’entrata sul palco gli sghignazzi non si fecero attendere. Alle prime battute in latino aumentarono, ma quando, intimando a Pseudolo di caricare di impropèri non so quale altro personaggio, allargando maestosamente il braccio come avevamo provato, la mia toga si strappò rumorosamente, le risa ci sommersero.
Oltre a sentirmi ridicolo, mi sentii felice. Provai una sensazione di piacere, nel vedere tante facce divertite.
In quell’occasione sentii due modi di ridere molto differenti, e quanti altri ne esistono, quanti finti, quanti sinceri.
Una cosa è certa: è difficile fingere di ridere. Perché non è solo un suono, ma un complesso di atteggiamenti, smorfie, sonorità e ritmi, è un respiro saltellante e fuori controllo.
E quando la risata è finta, si sente.
Quando ho deciso di intraprendere questo mestiere, l’ho fatto con la chiara intenzione di sentire ancora quella sensazione, e quella sensazione mi si è riproposta ancora e ancora, e ancora oggi quando riesco a far ridere una platea, percepisco del piacere.
Sulla risata esiste una letteratura davvero vasta, circa gli effetti su chi ride, e sui meccanismi che la innescano. I tempi, la matematica della comicità, sono dei fatti, e dei fatti tecnici.
La mia prima formazione è stata teatrale, per tre anni, presso l’Accademia Internazionale di Teatro di Roma. La pedagogia lecoquiana prevede, alla fine del ciclo di studi, il clown (1). Per Lecoq il clown era la materia più complessa, e credo che avesse ragione. E non bastano tre anni, per imparare a conoscere il proprio clown: è il lavoro di una vita. Di una vita di fragilità esposta, rivendicata e accettata. Il clown è la verità portata in scena, la propria verità, nell’accettazione delle proprie meschinità, nell’apertura al tempo presente: essere qui, e ora. E piangere per lo scoppio di un palloncino, come un bambino: perché non ci sono più protezioni. Ma, anche questa, è una faccenda molto seria.
Quando ho iniziato a studiare danza, con maestri come Annapaola Bacalov e Diana Damiani, ho scoperto un mondo fatto di sensibile, di attenzione. E di grande serietà!
Tutta quella serietà, in fondo in fondo, mi ha sempre (anche) divertito. Perché era il presupposto fondamentale per trovare il proprio clown. Sono convinto che un buon danzatore debba trovare il proprio clown, assieme al proprio corpo.
Durante il mio percorso di studi ho avuto inoltre la fortuna di incontrare il primo collaboratore di Jacques Lecoq: Isaac Alvarez. Sono stato suo allievo e poi assistente per sette anni. Isaac non praticava più il clown: aveva avuto un cancro a un polmone, curato con successo, ma che gli cambiò per sempre la vita. Non riusciva più, diceva, a provocare il riso. Non aveva più voglia di togliere tutte le maschere, per mostrarsi nudo. E così le indossava, le maschere, e preferiva emozionare, con il corpo. Il corpo poetico.
Da autore mi sono ritrovato ad amare indistintamente queste due anime, queste due facce, queste due smorfie, quella del riso e quella del pianto.
Ma da interprete, il piacere più grande lo provo quando sento di essere il veicolo della risata. Ed è certamente per questo che spesso, molto spesso, mi dedico a creazioni che, a metà tra danza e teatro, tra situazioni e dispositivi coreografici, provocano “delle risa”.
Se da performer la risata del pubblico mi provoca piacere, ammetto che anche da pubblico amo ridere. Soprattutto a teatro. Questo perché ridere nell’esperienza artistica provoca in me una sensazione di distacco, mi allontana per permettermi di vedere in maniera più globale. E credo che il teatro abbia la possibilità di lavorare sul rapporto micro-macro, per permetterci appunto di “vedere il mondo”, ed un po’ di sano distacco, a volte, è molto utile.
Ho la sensazione che in quest’epoca caratterizzata dall’affastellamento di informazioni, spesso contraddittorie, dalle bolle di filtraggio (2), dalle mille verità intersecate ai complessi rapporti di potere, dalle post-verità, la serietà non sia sempre l’approccio più efficace. Non è una ricerca di leggerezza, per me, quanto la ricerca di una porta d’accesso, per condividere un’esperienza artistica senza protezioni. Ecco: credo che ridere aiuti a far crollare le protezioni dietro le quali ci nascondiamo, che sappia aiutarci a metterci a nostro agio, per aprirci ed esperire qualcosa.
Non so esattamente perché nella danza in particolare, la risata sia spesso considerata come fuori luogo. Ma anche qui Lecoq – le mélodrame (1) – ci fornisce delle chiavi interessanti, notando come la medesima proposta artistica, la medesima esperienza, possa essere vissuta in maniere molto distanti, secondo la propria collocazione sociale e culturale, secondo, in definitiva, il rapporto di potere all’interno del quale ci relazioniamo all’opera.
E un melodramma, con tutta la sua portata emotiva, sarà vissuto con empatia e sentimento da chi si riconosce, e invece potrebbe provocare addirittura l’ilarità in chi non si immedesima con i protagonisti dell’azione scenica. Quel distacco permetterà la risata (3).
La risata ha qualcosa di istintivo, di ancestrale e popolare. Aristotele (4) definisce “bassi” i personaggi comici; e questo retaggio credo che ce lo portiamo ancora addosso. Il concetto di “basso” rinvia anche a un legame alla terra, e chi si eleva ambisce al cielo, ambisce alla tragedia, ambisce alla serietà. Forse.
Ed è forse per questo antico retaggio culturale che la comicità ha anche lo stigma di essere considerata minore, rispetto a ciò che è non lo è. Questo perché un certo tipo di approccio accetta la dicotomia comico/serio, accettando di conseguenza, consapevolmente o meno, che ciò che è comico non possa essere serio. Ma, sia tecnicamente che concettualmente, la comicità è una cosa seria. Molto seria.
Perché invece la risata ci ricorda tutto questo ambire lascia il tempo che trova, tutti questi sforzi ad elevarci, infatti, finiranno per accompagnarci, inesorabilmente, alla morte.
Ed ecco, per me, un altro legame fortissimo tra la risata, il distacco e l’esperienza artistica: la morte. La morte, che si avvinghia all’eros, al piacere, e che “livella” tutte le differenze.
Il clown “nero” resta per me una delle zone teatrali favorite.
La risata dei buffoni è ancora un altro capitolo; la satira, la risata quale atto liberatorio, di emancipazione e di vendetta, soprattutto verso il potere.
All’inizio del mio percorso, ho sperimentato molto estetiche che mi permettessero di denunciare attraverso la satira gli abusi di potere, allacciandomi inconsapevolmente a una tradizione antica come il teatro stesso. In principio “accostavo”, piccole creazioni satiriche, buffonesche, a composizioni coreografiche e a performance urbane.
Poi, poco a poco, tutto si è sfaldato in creazioni ibride, che della danza hanno fatto una disponibilità, e della risata uno stato. Corpi disponibili, e una drammaturgia spesso interattiva, spesso comica.
Bergson (5) però aggiunge un elemento interessante alla risata, definendola una lente per l’individuazione delle rigidità umane. Ecco un altro elemento: il riso è, per gli esseri umani, essenzialmente legato ai suoi comportamenti. Ai suoi paradossi, alle sue parole e rigidità. Anche nel caso del riso provocato da comportamenti animali, normalmente accade quando vengono umanizzati: non aderendo alle norme, appunto, umane, provocano il riso.
Far ridere è un affare da umani, ed è quindi qualcosa di politico (6).
Ma i tempi sono cambiati, almeno in Europa. Come la grande serietà che trasudava dai titoli degli spettacoli che hanno caratterizzato la Modern Dance oggi sembra un po’ datata, la risata non sembra più avere quella forza sovversiva con cui appariva in altre epoche. Sia in epoche antiche, dove giullari e buffoni, ma anche i comici dell’Arte, rischiavano la vita qualora avessero esagerato, sia pochi decenni fa, quando la censura ancora colpiva. Il nostro sistema economico, politico e culturale ha disinnescato da una parte il potere catartico del tragico, dall’altro il potere sovversivo del comico, in virtù dello Spettacolo (7).
La temperie culturale, il contesto, l’economia: il neocapitalismo in cui siamo avvolti caratterizza, normalizza e trasforma tutto, come un re Mida impalpabile. L’idea della performatività, dell’incessante lavorìo e produttività (8), hanno trasformato gli artisti in case di produzione, impegnate a compilare scartoffie e ad accumulare date, giornate di assunzione, partecipazioni a festival, stagioni e rassegne come collezionisti frettolosi, che guardano al numero. Il denaro, il pochissimo denaro che in quest’ambiente circola, ha influenze sui modi di produzione, sulle estetiche prodotte e sui rapporti che si costruiscono e si sfaldano. E poco importa se si devono spremere i giovani, magari sottraendo loro finanziamenti e opportunità. Competizione, sfruttamento e ossessione del denaro sono dettate da un sistema che noi stessi avvalliamo e al quale aderiamo; magari sbuffando, magari lamentandoci, ma vi aderiamo: ad un sistema di ideologie che cercano di monetizzare tutto, e di assorbire più tempo/vita possibile a ogni soggetto.
Cosa resta? Tutto. E niente. Resta, almeno per me, un sorriso sornione che cerchi di trasformare l’impeto, il tentativo di allontanarsi un po’, per vedere meglio, o per scorgere qualcosa. Sono forse tentativi goffi, tanto vale farci su una risata, mentre tentiamo. E danzare.
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1. Le corps poétique, Jacques Lecoq
2. The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, Eli Pariser
3. Essai sur la signification du comique, 1900, Henri Bergson
4. Tragique et comique sur les scènes contemporaines : pour une «poétique complexe», Mireille Losco-Lena
5. Le rire, Henri Bergson
6. Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia: saggi di pensiero critico, Karel Kosík
7. La Société du Spectacle, Guy Debord
8. La Société de la fatigue, Byung-Chul Han
Marco Augusto Chenevier
Marco Chenevier vive e lavora tra Francia e Italia. Coreografo, danzatore, regista e attore, sviluppa, in qualità di autore, una ricerca che attraversa i codici linguistici, ne esplora i limiti e mette in discussione forma e struttura, creando originali ibridi nati dalla fusione tra danza, teatro, circo, cabaret, giochi di società e tecnologia.
Diplomato all’Accademia Internazionale di Teatro a Roma, ha studiato presso la scuola di danza contemporanea Filomarino e con Annapaola Bacalov a Roma.
Per sette anni è stato studente e poi assistente di Isaac Alvarez (primo assistente di J. Lecoq) in Francia, presso il Théâtre du Moulinage.
Ha collaborato in qualità di danzatore con diverse compagnie tra Italia e Francia (Romeo Castellucci e Cindy Van Acker, Cie CFB451 in seno al CCN di Roubaix – Carolyn Carlson, Cie Lolita Espin Anadon).
È stato invitato, tra gli altri:
Festival Torino Danza (Italia), Festival Interplay (Italia), Festival Agitato (Francia), Be Festival 2015 (UK) – primo premio miglior spettacolo, International Mess Festival (Bosnia), Teszt Festival (Romania), OpenDance Festival (Italia), Teatri di Vetro (Italia), FITT Festival di Tarragona (SP), Noorderzon Performing Arts Festival (NL), Festival Mirabilia di Fossano (Italia), International Ancient Greek Drama Festival (Cipro), Barhat Rang Mahotsav Festival (India), Sarajevo Winter Festival (Bosnia) – primo premio per la danza contemporanea, Festival di Namyangju (Corea del Sud), Torino Spiritualità (Italia).
Attualmente è co-direttore del Festival T*Danse – Danse & Technologie e del Teatro della Cittadella di Aosta.