Ridere fa star bene: intervista ad Ambra Senatore

di Valeria Vannucci

Ambra Senatore in "Maglie", foto di Giorgio Sottile
Ambra Senatore in “Maglie”, foto di Giorgio Sottile

Come vedi il rapporto fra danza e comicità nell’attuale panorama della danza contemporanea?

In Francia, da parte dei programmatori, c’è un po’ di diffidenza. Come se dove si ride non ci fosse serietà. Per gli spettatori, invece, l’aspetto comico risulta essere un fattore importante di prossimità con l’opera, una porta per sentire come possibile un rapporto con la danza contemporanea, altrimenti – e fin troppo spesso – percepita come autoreferenziale, per addetti ai lavori.
Non conosco abbastanza altri contesti oltre quello francese, e quello italiano di oggi mi sfugge.
Ad ogni modo, non intendo dire che uno spettacolo che comporta elementi o momenti comici sia per forza riuscito. Né che nei miei facciamo ridere perché così lo spettacolo piace. Come ogni elemento di un lavoro, il riso ha senso se viene da una motivazione onesta e coerente con il progetto.
Credo che in Italia ci sia più frequentemente spazio per la comicità in scena (nella danza). Forse perché anche nel quotidiano c’è maggiore spazio alla battuta ironica, alla presa in giro esplicita – bonaria o meno – di se stessi, del contesto, degli altri. Non so dirlo con precisione. In Francia dicono che nei miei lavori si percepisce l’italianità. Ho sempre pensato che dipenda da una vitalità concreta portata in scena, di cui gioco, sorrisi e riso fanno parte.
Mi pare che in Italia ci sia come una “scuola” che porta ad avere la presenza del comico nei lavori di diversi autori. Ma, come dicevo prima, non conosco abbastanza la scena di oggi.
Il comico – e non so se dovrei piuttosto parlare dell’ironia – può emergere anche dall’assurdo, dal surreale. Negli spettacoli che fanno (anche) ridere ritrovo questi elementi.


Esistono degli elementi di ispirazione comica per i tuoi spettacoli anche al di là del mondo della danza e del teatro? Penso al panorama cinematografico in particolare, ma anche altri settori.

Ho scoperto di far ridere, mio malgrado, mentre creavo il mio primo assolo EDA-solo nel 2004. Non avevo previsto che facesse ridere, ma è emerso da sé e ho volentieri assecondato quella deriva (che non era l’unica: per me il solo era anche tragico). Da allora ho dovuto capire come gestire questa caratteristica quasi intrinseca del mio essere in scena e del mio comporre – anche in gruppo – per trovare la giusta misura, per non cadere nell’ammiccare. A volte la giusta misura mi sfugge, anche se non vorrei.
Nell’ambito di un processo creativo, non parto mai dicendomi «voglio far ridere»; non è mai una premessa, anche se ormai so che accadrà. Ma non è mai stato un partito preso. Credo che l’ispirazione esista, ma non ne sono consapevole. La vita vera di tutti i giorni mi fa incontrare il comico molto spesso, da sempre. Dall’infanzia. In famiglia ridevamo tanto a tavola, in viaggio.
Da quando mio figlio guarda i cartoni animati ho capito che probabilmente alcuni cartoni animati e film visti da piccola avevano avuto una influenza: i personaggi che cadono solo quando si accorgono di non avere suolo sotto i piedi; esplosioni e disastri terribili messi lì per far ridere: Tom e Jerry, la Pantera rosa, Beep Beep. I libri per l’infanzia di Gianni Rodari, di Richard Scarry. Le comiche di Stanlio e Olio; i film di Totò; quelli di Bud Spencer e Terence Hill, di Renato Pozzetto, di Verdone; il trio Marchesini-Lopez-Solenghi, forse anche Raimondo Vianello, Renzo Arbore e quelli della notte…
Non sono riferimenti colti, ma mi sono resa conto solo durante quest’ultimo anno del peso che probabilmente hanno avuto nel mio immaginario. Soprattutto a livello inconscio. Non ho mai consciamente o volontariamente fatto riferimento a essi, ma credo che mi abbiano nutrita ben bene. Tanto quanto amici buffi dei miei genitori e persone frequentate da bambina. Nei viaggi in Italia, nella vita di tutti giorni, quante cose buffe ho visto e sentito: ogni giorno, ma tante. Questo è un bagaglio prezioso. Anche quanto cuore, quanta umanità. Tutti bagagli preziosi.


Cos’è per te la risata? Che importanza ha nel costruire le tue opere?

La risata è forse una affermazione di vita. Non so. Una risposta vitale a quel che ti si offre.
Fa anche stare bene. Ho pianto e riso tantissimo nella vita.
Nella costruzione delle opere non è movente, non è elemento motore; è uno dei modi di approcciarsi alla creazione – come alla vita –, un filtro permanentemente presente e possibile, assieme ad altri anche molto differenti.
Nel processo creativo cerco di guidare gli altri e me stessa nel grande desiderio di stupirsi, di trovarsi agire e dire cose non previste in anticipo. Questo è un aspetto fondamentale del mio modo di creare. Non un processo indotto dal pensiero, ma dal corpo tutto. Nelle utopie di lasciarsi muovere – nelle membra e nello spirito – da altro da sé. Di farsi attraversare. Costruire la possibilità di essere parabole ipersensibili per trovarsi mossi, dentro e fuori. Questo può accadere con lunghe preparazioni del corpo in ascolto dello spazio o tramite giochi con regole più o meno assurde che ti inducono ad avere reazioni “non sensate”, dal senso non lineare. Staccare la testa, non darle ruolo di guida – c’è, è lì, è parte della persona intera, ma il corpo tutto intero è attivo, anzi soprattutto ricettivo –, lasciarsi portare.
Tutto questo avviene nella fase di ricerca dei materiali, ma quotidianamente si alterna a momenti di analisi di quel che è accaduto, di osservazioni anche molto riflessive, mentali; di confronto dialogico tra tutti, un processo analitico.
Poi nella fase finale di scrittura dello spettacolo la mia testa-regista è super attiva (anche troppo!) per andare a costruire nel montaggio una unità drammaturgica dove ogni elemento prende giusto peso, a livello reciproco e rispetto all’insieme (una giornalista ha parlato di diabolica intelligenza compositiva).
Scrivo tutto questo perché credo che il comico si manifesta nelle due fasi: quella della emersione di materiali “malgrado sé”, nei giochi, e quella del montaggio in cui il rapporto con il tempo e con la sorpresa, ma anche con le deviazioni di senso, ha molto a che vedere con il comico.
Il comico è dato spesso dallo spostamento di punto di vista su cose semplici o complesse. Le si guarda in modo un po’ décalé, spostato. Soprattutto le si guarda. Si mette attenzione sui particolari. È un allenamento dello sguardo. Poi lo sguardo dello spettatore viene condotto su quei particolari, sposti il loro stesso sguardo.
Il comico ha sicuramente anche molto a che vedere con il tempo. Il ritmo. Anche qui forse si tratta di usarlo – il tempo – in modo un po’ spostato.
Una volta scritto lo spettacolo, ci si accorge di replica in replica come il tempo di un accadimento possa essere “giusto” o meno, anche a seconda di una pochissima differenza. Misura, questa, che riguarda anche la forma. La misura del tempo e della forma porta al comico – come al resto d’altra parte. Però non ho la ricetta.


Nei tuoi spettacoli l’elemento comico spesso si fonde con la dimensione del gioco. Puoi parlarmi di questo rapporto?

Il gioco è emerso come scelta – ma forse prima c’era nei soli, anzi sicuramente, ma meno consapevolmente – nelle prove di Passo nel 2009: mossa da due desideri ho proposto dei giochi ai danzatori: creare una complicità nel gruppo – come in una squadra – e cercare la necessità nella gratuità. Quando da bambino giochi a “rialzo” o a “fulmine” ogni azione è necessaria per prendere, per non essere preso, per liberare un altro. Eppure in sé è gratuita: voglio dire che non è come non farsi investire da un tram. Eppure la partecipazione fisica, mentale e emotiva è totale. Questo elemento di necessità lo voglio in scena. I giochi nascevano da questo desiderio. Poi mi ci sono appassionata, anche rispetto a quel che dicevo sopra: regole chiare, limitanti o anche molto aperte, ci inducevano a improvvisazioni in cui non era il pensiero a dominare, ma la persona intera, il corpo. E ci portavano alla creazione di momenti inattesi, inimmaginabili a tavolino. Quello che cercavo di fare era creare le condizioni perché l’inatteso si manifestasse, tramite noi.
E poi c’è il piacere. Il piacere di giocare. Stai bene, ne hai voglia, si sta bene insieme. Stare bene insieme. Ecco un altro elemento fondamentale. Insieme. E ridersela.
Limitare il giudizio è fondamentale. Se no ti blocchi. Leggerezza in questo senso, giocosità. Anche se è un processo serissimo.
Oltre al riso un elemento presente nel nostro lavoro e’ il dubbio. Mettere in dubbio, le cose non sono scontate.
La drammaturgia si costruisce dal un lato negli strati di lavoro che si alternano tra improvvisazione senza ruolo dominante del pensiero analitico e scambi verbali di riflessione. Percepisco propriamente gli strati che si sovrappongono e via via si fondono.
E poi la drammaturgia prende spazio, respiro nella fase finale di riorganizzazione temporale e limatura dei materiali, secondo un lavoro compositivo rigoroso (ma non lineare).
La composizione si fa in due fasi. “Dadaismo” nel far emergere i contenuti e le forme. Non lineare. Istinto. Lasciarsi muovere, ma con testa inclusa (ma non dominante). Poi Cartesio e Totò nel montaggio. Organizzazione matematica (logica nell’illogico), pezzi di puzzle e sguardo spostato. Lo sguardo spostato c’è in entrambe.

Piacere. Stare bene.

Mi viene ora in mente un ricordo: una delle riviste in bagno dai miei da piccola aveva un articolo che diceva di una ricerca americana che aveva mostrato come ridere almeno venti minuti al giorno fosse indicato per essere in salute. Concludeva suggerendo, qualora non si fosse avuto occasione di ridere altrimenti, di farsi fare il solletico.
Non so se questo finale assurdo fosse poi davvero parte dell’articolo o se fosse uno scherzo inventato da noi.
Mio fratello mi faceva morir dal ridere. Che ridere. Uno sguardo sulle cose e un modo di commentarle!


Questi elementi come cambiano con la partecipazione attiva dello spettatore? 

Credo che lo spettatore si trovi sveglio, vivo. La vivacità stimola i sensi – e non ti annoi – e in più ti fa star bene. E ti avvicina. Ti fa stare insieme.
Io poi a volte me la rido pure da sola. Però il ridere è spesso un fatto collettivo (o almeno in due).

 

 

Ambra Senatore

Coreografa e performer italiana, Ambra Senatore si forma con diversi coreografi e collabora con Jean-Claude Gallotta, Giorgio Rossi, Raffaella Giordano, Georges Lavaudant Roberto Castello e Antonio Tagliarini. Alla fine degli anni ‘90, inizia la sua creazione coreografica in collaborazione con altri autori, poi termina il dottorato di ricerca sulla danza contemporanea (2004), prima di iniziare ad insegnare la storia della danza a Milano.
Tra il 2004 e il 2009, concentra la sua ricerca coreografica sul lavoro da solista che lei stessa interpreta prima di passare a delle pièce di gruppo: Passo – 2010, A Posto – 2011 e John – 2012. Nello stesso anno fonda la sua compagnia di danza EDA con la quale ha firmato il suo primo spettacolo per il pubblico giovane: Nos amours bêtes – 2013, Aringa Rossa – 2014, il solo In Piccolo – 2014 e la sua serie performativa Petites briques – 2015 (brevi pezzi pensati per incontrare il pubblico in spazi non teatrali).
Nel 2016 ha creato una nuova pièce dedicata al pubblico giovane: Quante Storie. Dal gennaio del 2016, Ambra Senatore dirige il Centre Chorégraphique National de Nantes, immaginando un luogo dove creare, fare pratica, sperimentare, trasmettere in cui la danza è considerata occasione per incontrarsi e condividere. Le sue creazioni più recenti sono Pièces (2016), spettacolo al crocevia tra il teatro e la danza, Scena Madre (2017) costruito volontariamente con tecniche desunte dal cinema, Toccata e Fuga (2018) per il balletto nazionale del Portogallo, Giro di Pista (2018) in ballo partecipativo per famiglie e bambini creato con Marc Lacourt, conversations (2019) serie di incontri tra dialogo e danza con esponenti del mondo scientifico, Ils nous faudrait un secrétaire (2020) con Marc Lacourt.