Fallire con matematica precisione
di Giorgio Rossi
Per scrivere di danza e comicità, prima vorrei dare una mia visione di cosa vuol dire essere italiani. Siamo o non siamo il paese del melodramma e della divina Commedia? Siamo o non siamo il paese dei mille tipi di pasta? Gli statunitensi, che ci considerano dei pasticcioni e forse, anche per motivi di praticità, vista la loro lingua fatta di poche e sintetiche parole, qualsiasi pasta la chiamano “maccheroni“, usano questa parola anche per definire qualcosa di caotico, pasticciato appunto e ridicolo, fatto all’italiana, dicendo “maccheronic” (detto con accento yankee). E siamo anche il paese della Commedia dell’arte, dove il comico e il ridicolo si uniscono al dispetto, al fallimento, alla cattiveria e al desiderio. Per fortuna noi italiani non siamo solo questo ma, credo, queste qualità ci appartengono profondamente, poi sta a ognuno farne quello che vuole.
Da parte mia mi sono accorto verso i vent’anni che danzare e far ridere, oltre che commuovere di riflesso, è una delle mie caratteristiche. Come posso spiegare la comicità nella danza, visto che per me è qualcosa che accade senza spiegazioni? Non ho un metodo preciso, seguo le voglie, le smanie e l’istinto, e se qualcosa mi fa ridere e fa ridere chi sta lavorando con me la porto avanti, cerco le varianti, e mi avvicino alla sua alchimia senza sapere bene il perché, ma con una convinzione profonda. Forse è come l’amore, si ama senza sapere veramente il perché, si ama e basta. Il processo d’invenzione mi porta a far vedere ad altri, e se chi assiste ride, capisco che funziona e basta. Mi succede anche di credere che qualcosa fa ridere ma gli interpreti non ci credono e di conseguenza non funziona e spesso il lavoro più duro e lungo è convincere gli interpreti a lasciarsi andare, esporsi, e semplicemente divertirsi nel giocare con le azioni, con entusiasmo e follia. Mi sono capitati lavori che ci hanno messo diverse repliche per raggiungere un buon livello di comicità. Bisogna passare attraverso il fallimento della rigidità per rilassatamente fallire, comicamente. Che non è altro che la semplicità di esporsi nella propria fragilità e capacità spontanea di fallire con matematica precisione, come fanno i bambini senza giudizio ed esibizionismo, ma condividere il rituale del ridicolo dell’umanità. È come la musica: ha i suoi tempi il suo ritmo, per ognuno è diverso, sia per chi guarda che per chi vive sulla scena il percorso del comico danzante.
Un grande clown, David Larible, la definiva la “rogna del comico”: o ce l’hai o non ce l’hai. È una malattia cronica e inguaribile, bisogna averla o accorgersi di avere il germe dentro di sé e coltivarlo giorno dopo giorno con tenacia, rigore, e diligentemente. Non c’è granché da capire, ma tanto da sentire, e lasciare che accada. Bisogna seguire l’istinto animale dell’istrionico, dell’inesorabile fallimento con classe e stile raffinato, e devo dire una certa umiltà. Il resto va da sé. E qui non posso che pensare a Buster Keaton, Charlie Chaplin e Tòtò per citare alcuni tra i più grandi. Che per me restano tra i più grandi danzatori che io abbia mai visto.
Racconto brevemente come ci sono arrivato, a questa consapevolezza della danza che fa ridere (sembra una definizione di qualcosa di non grande valore e in parte tanti lo pensano, ma questa è una loro questione). Iniziamo dal principio, visto che da piccolo non volevo essere un danzatore. Forse far ridere sì, lo volevo, come tutti si vuole essere simpatici e spiritosi, ma di voler inventare brani di danza comica me ne sono accorto piano piano nel mio procedere nel mondo della scena. Da piccolo andavo veramente male a scuola, studiavo in Svizzera e lì, negli anni Sessanta e Settanta dovevi memorizzare, eseguire, e non certo ragionare liberamente, fantasticare e inventare. La scuola formava lavoratori competenti ed efficienti e non certo sognatori. Ero un fallito per quella società, a tal punto che una professoressa di matematica un giorno mi disse: «Rossi, le porterò le arance in carcere». Per fortuna si sbagliava, avevo quindici anni e volevo diventare un bassista rock, ma suonavo veramente male e dopo due anni di prove capii il mio fallimento. Non mi diedi per vinto, anche grazie al sostegno di mia mamma, che malgrado avessi rischiato il riformatorio un paio di volte per le balordaggini che facevo qua e là, credeva in me e mi spinse a partire per Parigi. Tentai di diventare un giocoliere acrobata. Ma anche qui, alla prova dei fatti non ero così bravo, e a diciassette anni i ragazzini di dodici, tredici anni mi surclassavano a mani basse. Che rabbia! Ed eccoci al terzo fallimento. Così, visto che alla scuola di circo non mi avevano preso dopo i tre mesi di prova, m’iscrissi alla sezione di mimo corporeo, dove la maggior parte dei miei compagni di studio erano più grandi di me. E la mia giovane età ed esagerata energia decisa a non fallire per l’ennesima volta fece sì che andai bene e alla grande. Poi a cosa servisse il mimo non l’ho mai ben capito, ma ero sicuramente uno in gamba a far finta di essere ovunque mimando campi di grano al vento, statue fermissime, e spostando cose invisibili, camminando sul posto, salendo e scendendo scale, volando via con un palloncino, tirando funi in tutte le direzioni toccando pareti invisibili e facendo leva su angoli immaginari e nuotando per ore all’asciutto… È in quel contesto che iniziai a capire di poter far ridere visto che, profondamente, non credevo proprio in tutta questa imitazione fine a se stessa, ma la facevo bene.
Credo sia iniziata lì la mia vena ironica e sarcastica. Anni dopo incontrai Dario Fo che mi disse che quando negli anni Sessanta a Milano venne Jaques Lecoq e fece vedere la meravigliosa camminata sul posto di Ètienne Decroux, uno gli gridò da in fondo alla sala «Bella, ma ndo vai?». Così capii che non mi sbagliavo a pensare a diciotto anni che il mimo è una tecnica accessoria, fine a se stessa, e funziona se usata per altro, come del resto faceva divinamente Dario Fo nel suo Mistero Buffo, e da mimo diplomato posso affermare che aveva una tecnica approssimativa, ma era stupefacente nel suo raccontare con tutto se stesso, ti trasportava ovunque lui volesse. Però, all’epoca, che ne sapevo? Se non per intuizione, da giovincello saputello con tante contraddizioni interiori, visto che ero bravo e tanto mi bastava.
Dopo tutti quei fallimenti, così, mi sono diplomato al Conservatoire national de l’art du mime di Parigi a pieni voti. Amavo la scena e i suoi interpreti, vedevo ogni tipo di spettacolo, per conoscere e avvicinarmi a quelle creature così alte nelle loro espressioni, ero così innamorato che ogni sera chiedevo alla luna di farmi diventare uno di loro e far sognare il pubblico. Avevo già la sindrome da brutto anatroccolo che prima o poi sarebbe diventato un bellissimo cigno, e quale migliore universo poteva accogliere il futuro cigno, se non la danza?
Subito iniziai con la danza classica, si ripetè la stessa cosa già accaduta con il circo, mi resi ridicolo in varie scuole di danza classica. Finché non trovai il maestrorusso Andrei Gregosky, che apprezzò il mio essere dinocolato ed entusiasta, forse ero ornamentale. Con lui rimasi due anni, e mi permise di avvicinarmi vagamente al cigno che volevo diventare. Per fortuna iniziai a seguire anche lezioni di danza contemporanea a Parigi e fu una folgorazione, poiché nella danza contemporanea trovai dinamica spaziale, né didascalica né aneddotica, e che non aveva bisogno di imitare niente, essendo essa stessa senso e basta, l’indicibile allo stato puro. L’arte effimera per eccellenza che svanisce non appena si manifesta. Così ho coltivato dentro di me la danza contemporanea con la D maiuscola in tutte le forme che mi capitavano, frequentando corsi qua e là, vagando in svariati studi di danza parigini con tutto me stesso. In verità l’universo della danza a quell’epoca aveva poco sondato la comicità, perché tendenzialmente era considerata un’arte superiore e intima, di scrittura rigorosa dello spazio con corpi puri ed essenziali e che andava presa molto sul serio, sia drammaticamente che poeticamente.
Nel 1979 a diciannove anni, dopo aver visto Carolyn Carlson, impazzii letteralmente. Volevo diventare un danzatore di quella classe, poesia e raffinatezza (un cigno spaziale quale lei era a tutti gli effetti). Così mi sono impegnato ancora di più e incredibilmente nell’estate 1980 sono entrato nella sua compagnia. Nel giro di tre anni da fallito a giovane promessa della danza, non sembra neanche vero. Carolyn Carlson usava, per le sue creazioni (si dice creazione perché ciò che nasce in studio è a tutti gli effetti una creazione) l’improvvisazione per tirar fuori la propria anima danzante e ispiratrice in accordo con gli altri.
Fu in quelle improvvisazioni che ho intuito di avere un’anima comica perché spesso, quando partecipavo alle improvvisazioni, chi vi assisteva rideva. Così ho capito che credere di essere un’altra persona e imitarla sinceramente e con gioia spesso mi portava a essere comico, o perlomeno facevo sorridere per la mia ingenuità, leggerezza e fantasia. Nei tre anni in cui ho lavorato con lei, Carolyn Carlson mi ha utilizzato per le capacità mimiche e liriche che veicolavo. Mi ha educato e ha acceso la fiamma della capacità di trasformare le proprie conoscenze in danza evocativa e poetica; ho danzato per lei con tutta la mia anima da cigno arruffato, ma non ancora per quella che poi sarebbe stata la mia poetica ironica e “macheronica”.
Chi mi ha veramente dato la spintarella finale per la danza e la comicità , oltre alle miriadi di clown, gruppi di pazzi saltimbanchi di ogni tipo che passavano nei festival e teatri che frequentavo in quegli anni, è stata Pina Bausch, che avevo già visto svariate volte dal 1978, ma sempre spettacoli drammatici, folli, poetici e commoventi come I sette peccati capitali di Bertolt Brecht, Caffè müller, La sagra della primavera, Kontacthof. Quando vidi, nel 1980, 1980, fu qualcosa di stravolgente, ero letteralmente piegato in due dalle risate, e capii cosa voleva dire essere se stessi in scena con la propria incasinata tragicomica poetica vita. Non dimentichiamo che in quegli anni molto pubblico e parecchi critici erano scandalizzati e urlavano durante gli spettacoli che quella non era danza. Quando ebbi la fortuna di lavorare con Bernardo Bertolucci disse che Pina Bausch era in grado di farti ridere e piangere contemporaneamente.
Mi avvicinai alla compagnia di Pina Bausch e stetti alcuni mesi a Wuppertal, ma capii che non era per me. Ero e sono naïf, troppo fragile per quei continui cambi di umore, lei stessa mi teneva in attesa di vedere se resistevo in quel ambiente. Dopo un sogno, dove lei mi metteva una mano in bocca fino all’ano e mi rigirava sotto sopra come un calzino, ho deciso di desistere. Tornai in Italia, continuai a lavorare con Carolyn Carlson fino al 1982, poi iniziò la mia carriera di traballante danzatore. È grazie a lei che il sacro fuoco del demenziale nella danza è dentro di me. E oggi, dopo più di quarant’anni, mi fa piacere ricordare, se pur brevemente, il processo che mi ha portato a realizzare decine di spettacoli che hanno tanto divertito e commosso il pubblico un po’ dappertutto nel mondo, e soprattutto acceso gli occhi di tanti bambini, come da bambino me li aveva accesi il Clown Dimitri che avevo visto a quattro anni, capendo che quella era cosa che potevo veramente amare per sempre.
Concludo con un estratto di una recensione scritta da Marinella Guatterini nel 1998, per lo spettacolo Piume, che sento vicina al mio lavoro: «Un capolavoro che farà scuola… sa unire stile, poesia, abilità e gag comiche… modulando e incastrando i segni misteriosi e ambigui di una danza morbida, dolce e ironica, in una impaginazione coreografica da delicato cabaret inneggiante alla vita, alla primavera, alla gioia talvolta ferita de piccole lance di passeggera malinconia»(1).
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1. Marinella Guatterini – l’Unità, 4 maggio 1998
Giorgio Rossi
Giorgio Rossi come direbbe E. Satie‚ “è un mammifero danzante”. All’età di 4 anni‚ vedendo il clown svizzero Dimitri, ha capito che il teatro era la sua vita. Deve la sua fortuna artistica all’aver potuto assistere ai lavori di grandi maestri (Kantor, Brook, Bausch, Carlson…) e, con alcuni‚ ha imparato l’arte scenica‚ sia come allievo che come interprete. Nel 1984‚ è co–fondatore del collettivo Sosta Palmizi. In questi anni collabora con artisti di altri campi, tra questi: P. Fresu, B. Bertolucci, T. Guilliam, S. Benni, P. Turci, L. Poli, D. Riondino, P. Rossi, Banda Osiris, G. Mirabassi, M. Rabbia, M. Baliani; partecipa come danzatore autore nella trasmissione Vieni via con me di R. Saviano e F. Fazio. Nel 2013 cura tutti i movimenti della Carmen di Bizet con L’Orchestra di piazza Vittorio. Nel 2014 crea Sulla Felicità con 12 danza-attori artisti associati dell’Ass. Sosta Palmizi e nel 2015, con Simone Sandroni, Da Dove Nascono le Stelle. Nel 2016 crea lo spettacolo Con il naso all’insù e nel 2018 debutta con Costellazioni. Pronti, partenza… spazio! entrambi dedicati al mondo dell’infanzia. Nello stesso anno è interprete, in uno dei ruoli principali, in Gran Circo Rossini, produzione Fondazione Pergolesi Spontini e El Grito. Nel 2019 è curatore della residenza formativa e creativa presso l’École des Sables di Dakar, (Senegal) per il progetto di scambio “Italie, Culture, Afrique” dal cui prende vita Le Melange des Anges. Il 2020, vede Giorgio Rossi impegnato in una nuova produzione: Esercizi di Fantastica, omaggio in danza a Gianni Rodari. Nello stesso anno, insieme all’astrofisico Stefano Sandrelli e l’attrice Maria Eugenia D’Aquino, crea Black Black Sky 2020 – performing universe.
Svolge da molti anni, in Italia e all’estero, una sensibile attività legata alla formazione in cui laboratori e collaborazioni con scuole di danza, teatro e circo contribuiscono alla diffusione dell’arte coreutica.